venerdì 30 novembre 2018

Falsi amici


Occhio ai falsi amici in lingua inglese. I documenti europei destinati alla scuola ne sono pieni. Ne faremo un dizionarietto a puntate, cominciando dalle amicizie più pericolose:

Governance
La governance tende ad essere scambiata per il governo, ma si tratta ovviamente di un penoso equivoco. Il governo, infatti, ricorda l'indirizzo politico di uno stato, l'esecutivo nazionale, le elezioni, gli accordi tra partiti, la cosiddetta "democrazia", un termine poco scientifico, che si presta a fraintendimenti. Governo, insomma, è un concetto grossolano, una rozza semplificazione racchiusa in un'equivoca parola. Chi la usa con troppa fiducia e ingenuità, in italiano, è portato a distinguerla frettolosamente da altri termini affini ma subordinati: dall'amministrazione, che si addice a realtà più piccole, che rischiano di essere sottoposte allo stato (e quindi all'azione del governo); dalla direzione, che si riferisce alla guida di organizzazioni e società; dalla gestione, tipica di uffici che agiscono in applicazione di indirizzi decisi a un livello superiore. Troppe cavillose distinzioni, troppe anacronistiche gerarchie, che finiscono col dare un'eccessiva importanza al governo, con la scusa, appunto, della cosiddetta "democrazia", idea certamente rispettabile ma sempre sul punto di scadere nel teatrino della politica, nella demagogia o nel populismo. L'italiano, poi, è una lingua che molto si presta a queste elucubrazioni, ed è pertanto particolarmente esposta a possibili degenerazioni.
Meglio allora passare al più sintetico e pragmatico inglese e usare governance per unificare l'intera problematica. La governance non è proprio un governo, ma è più che una mera amministrazione, e può indicare un'efficace direzione, nonché i solidi principi di una buona gestione. E quando vi è una buona gestione diffusa e un'efficace direzione viene anche ridimensionata l'esigenza di avere un forte governo, che finalmente, senza ergersi a protagonista, potrà limitarsi ad arbitrare, prevenendo così il rischio di eventuali errori. Ecco la governance, che fa riferimento a un sistema di pesi e contrappesi, tipico delle società aperte, plurali, dinamiche e competitive. Nella governance chi governa non è mai solo, mai abbandonato a se stesso, e sembra in realtà a sua volta amministrato dentro una cornice più ampia, sensibile alle esigenze degli attori economici e sociali (ad esempio le imprese, le aziende e le banche, o, ancor meglio, le banche e le banche). E d'altra parte, per contrappeso, anche chi amministra chi governa, grazie alla comune governance, a ben guardare, appare "ex ante" eterodiretto da solidi principi di buona gestione, che garantiscono una mutua e sistemica cooperazione (le imprese per le banche, le banche per le imprese, ma anche e soprattutto, a garanzia dei depositi e dunque dell'interesse generale, le banche per le banche).
Tale complesso intreccio istituzionale, economico e giuridico, costituisce appunto la governance, e con questa il metodo autenticamente democratico, un metodo che pone le libere società al riparo dai rischi del populismo e della demagogia, sempre presenti nei processi elettorali, in particolare nei momenti di crisi. Infatti, quando gli elettori scelgono nel senso dell'interesse collettivo, della competenza e della libertà (e dunque per le imprese libere e per le libere imprese, tipicamente le banche), grazie alla governance prevale la buona gestione nel riconoscimento dei meriti dei meritevoli. Qualora, però, in spregio allo spirito democratico e alla scienza economica, dovessero imporsi i populismi, con il ritorno a governi di non competenti, di non meritevoli e di non tolleranti, sarà allora la governance a intervenire e a rimediare, rimettendo in equilibrio il sistema con l'aiuto dei mercati, del ranking, dello spread e degli altri indicatori scientifici, attraverso interventi conformi alla reale realtà delle cose e all'effettiva fattualità dei fatti.
In campo scolastico, dopo anni  di astratto egualitarismo e di mancato riconoscimento dei meriti dei meritevoli, si è sentita finalmente l'esigenza di una vera governance, capace di  introdurre linee di competitività e di scientificità nel settore, dotando anche le scuole di adeguati strumenti, di un ranking e di uno spread, secondo le ricerche OCSE e il metodo sperimentale Invalsi. Tale policy, rivolta all'innovazione e al miglioramento continuo, sta però faticando a imporsi, attraverso un tormentato processo, che ha trovato nella legge 107/2015 (Buona scuola) la sua espressione più completa e ambiziosa, ma per il momento ancora disattesa. Un ritardo che potrebbe costare caro al nostro paese...

Policy
Soggetti non adeguatamente formati potrebbero tradurre la policy con il termine italiano "politica", un concetto in verità troppo generico e carico di ambiguità. Va subito chiarito, invece, che la policy rappresenta una dimensione ben più concreta e fondata metodologicamente.
La policy, precisamente, è infatti quel che rimane della politica dopo che si è adottata la governance. Dunque una politica purificata, depurata dai suoi errori grazie alla governance. Più niente che possa ricondurre alle ideologie, ai settarismi, ai nazionalismi, alle chiusure e ai partitismi del passato. La policy, al contrario, è aperta al futuro, alle novità, alle tecnologie e agli attori del cambiamento, ai produttori, ai consumatori, alle imprese socialmente responsabili e trainanti, dalle company alle authority, dai gruppi finanziari agli istituti di credito, dalle banche alle banche e alle banche.

Stakeholder
Gli stakeholder sono i principali interlocutori nella costruzione della policy all'interno di un corretto sistema di governance, e stanno precisamente all'origine del progetto (quali artefici della domanda) e alla sua conclusione (quali utilizzatori del prodotto). Nella scuola riformata, nel senso della costruzione di un curricolo per competenze €uropee, dovrebbero contribuire in misura decisiva sia al momento dell'input che a quello dell'output.
Purtroppo il termine, talvolta rozzamente tradotto con "portatori di interesse", nel contesto italiano, spesso incline a disconoscere la portata sociale degli interessi economici e a comprimere il mercato, non è stato per il momento ben compreso e metabolizzato. A causa di questo ritardo culturale, non operano ancora, nel nostro sistema scolastico, veri e propri stakeholder, come si afferma con crudezza qui.

Competence
La competence è quella forma di competitività che trasforma la risorsa studente (orientata al profitto scolastico) in risorsa umana effettiva (impegnata in compiti di realtà, cioè diretti al profitto economico).
La competitività della competence, in quanto indirizzata allo sviluppo e all'incremento del PIL, rappresenta anche l'unico modo per ridurre il debito e per rafforzare, di conseguenza, i diritti sociali, venendo così incontro ai bisogni collettivi.
In una società "basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo", vedi strategia di Lisbona, non ci sono alternative. Non c'è altra strada per ridurre povertà e disoccupazione, o meglio per contenerle entro limiti fisiologici e strutturali.

Competency
Secondo alcuni la competency è un sinonimo della competence. Secondo altri la competence si riferisce alle risorse umane in generale (human resources), mentre la competency riguarda setting più specificamente scolastici (competency-based learning).
Al pari della competence, comunque, anche la competency, operando nel senso del riconoscimento dei diritty socialy, riduce povery e disoccupaty, già ridotti in precedenza in myseriah dall'austerity della policy della governance. Ciò avviene, però, non attraverso la creazione di posti di lavoro da parte dello stato (ohibò), azione proibita perché non conforme alla governance, ma incentivando l'occupability, di cui vi parleremo un'altra volta...

Nel frattempo, credeteci, e se volete di conseguenza conseguire nuovi credici formativi, abbonatevi al dizionario dei luoghi ingannevoli, inglese - italiano, italian - english, e occhio ai falsi amici in inglese compatto.

domenica 25 novembre 2018

Bravo Bussetti, finalmente...


Abbiamo scherzato sul ministro Bussetti, qualche mese fa, per la sua prudenza eccessiva davanti ai ruderi della Buona Scuola, per la sua timidezza e per le sue cravatte di seta lombarda.
Ma ora dobbiamo sinceramente e seriamente appoggiarlo. Finalmente un chiaro segnale di discontinuità rispetto alla legge 107 e ai danni prodotti al sistema di reclutamento dei docenti, analiticamente descritti qui.
Negli ultimi venti anni di pedagogia del gambero ogni nuovo ministro ha infatti varato una sua velleitaria controriforma: corsi a pagamento, specializzazioni, corsi annuali, biennali, triennali. SSIS, PAS, TFA e FIT, tormentose tappe verso la costruzione di un sistema perverso, che somigliava alla fine a un lungo viaggio senza arrivo e sempre più complicato, inutile, iniquo e ripetitivo. Concorsi che ammettono a corsi che, dopo esami, ammettono ad altri concorsi, per frequentare, se tutto va bene, un ennesimo percorso. Una specie di gioco dell'oca, per di più a pagamento, e alimentando la crescita di una sorta di burocrazia parassitaria della formazione, una folla di pseudo-esperti o di espertologi che si nutrono di precariato (del precariato degli altri) e hanno interesse a prolungarlo.
Ora, ci dice Bussetti, per tutti questi espertisti ed espertini è venuto il momento del congedo: "Stop abilitazioni a pagamento, concorso più breve e abilitante. Abolito FIT."
Bravo Bussetti. Temevamo che l'inversione di tendenza, rispetto ai danni della Buona Scuola, fosse troppo debole e incerta. Fino ad oggi, purtroppo, è stato così. Ma non in questo caso. Qui il messaggio è ben chiaro, e può aprire finalmente la strada verso un atteso cambiamento.

Non a caso espertologi ed espertisti, sentendosi in partenza, cercano di bloccare tutto. Per farlo ricorrono al genere letterario a loro più congeniale, da sempre: l'appello.
Un appello in apparenza rivolto allo stesso ministro, ma che, a ben guardare, per chi sa leggerlo, sembra più che altro indirizzato a un complicato, insidioso, scivoloso apparato ministeriale, cercando consonanze e complicità. Messaggio in codice: REMATE CONTRO.
Gli apparati, si sa, spesso composti, a loro volta, da espertini ed espertoni, possono fare molto e dispongono di tanti canali nascosti per interferire, anche a nome e a tutela dell'espertologia...
E questo rappresenta un ulteriore motivo per schierarsi convintamente dalla parte di Bussetti. Forza Marco. Ma attento alle faine (manine) ministeriali. E chiama se hai bisogno. Senza di noi, senza le scuole autonome, non c'è MIUR che tenga.

giovedì 25 ottobre 2018

Niente politica a scuola?

Lo scorso giugno la deputata leghista Vanessa Cattoi, rimproverando una dirigente scolastica per una sua iniziativa (evidentemente sgradita alla Lega), ha dichiarato: "Il ruolo dell'insegnante dovrebbe prevedere l'astensione dal commento politico anche perché, altrimenti, potrebbero sorgere dubbi circa l'imparzialità dell'insegnamento stesso". Stupisce che una parlamentare della Repubblica possa abbandonarsi ad affermazioni così rozze e ingenue. L'astensione non è imparzialità, ma una posizione tra le altre, una delle decisioni possibili, spesso la peggiore. Cultura e politica non si possono separare. E nemmeno si possono separare cultura e scuola, nonostante i tentativi di alcune recenti riforme neoliberali ed "europee". La scuola non è trasmissione di una inesistente "opinione neutrale", ma introduzione alla cittadinanza attiva, al confronto di idee, alla partecipazione politica. Così la pensavano gli uomini che hanno scritto la nostra Costituzione.
Ha dunque avuto buon gioco la preside Scalfi, rispondendo all'incauta Cattoi: «Esiste un articolo della Costituzione che tutela la libertà d'espressione e non mi pare che escluda i dirigenti scolastici. Esiste anche la norma per cui i parlamentari si impegnano a far rispettare la Costituzione. Questo mi aspetterei, da una deputata... A scuola c'è una pluralità di idee, i ragazzi sono condotti allo sviluppo del senso critico. In vista delle elezioni, abbiamo invitato i rappresentanti di 5 stelle, destra e sinistra. Perché questo è il senso della scuola."
Diciamoci la verità: non è che la deputata Cattoi, nel confronto, abbia fatto proprio una bella figura.

Credevo che il discorso fosse chiuso. Leggo invece oggi, su Orizzonte Scuola: "Niente politica, siamo a scuola. A sostenere il concetto è il ministro della Pubblica Istruzione." Possibile? Bussetti avrebbe dichiarato: "In classe non si deve fare politica. La scuola ha il compito fondamentale di stimolare il pensiero critico, i docenti siano responsabili." Ora, la dichiarazione rilasciata lo scorso giugno dalla preside Scalfi basta a comprendere come la prima affermazione sia in contrasto con la seconda. A scuola la politica concorre alla formazione del pensiero critico. Il pensiero critico, d'altra parte, non può non incontrare la politica. Voglio sperare che le fuorvianti parole attribuite al ministro siano frutto di una semplificazione giornalistica. Sperem ben, come dicono a Varese.

E invece a scuola c'è molto bisogno di politica e di educazione alla politica, unica via per difendersi dalle ideologie e resistere alle menzogne. Ciò vale sempre, in generale, ma in particolare in questi giorni difficili, mentre a causa di ingiustificate pressioni, che si presentano appunto come "opinione neutrale" o addirittura come "verità scientifica", il nostro paese è sotto attacco, denigrato sulla base di erronei pregiudizi ordoliberisti, minacciato da poteri finanziari non democratici e incompatibili con i principi e con i diritti costituzionali. Opporsi a queste mistificazioni attraverso l'esercizio del pensiero critico è compito della scuola italiana. Se non a scuola, dove? Ciò appare tanto più doveroso quanto più cresce la cattiva informazione e il rumore prodotto da alcune forze politiche che, nel tentativo di nascondere le proprie gravi responsabilità storiche, vorrebbero arrendersi a interessi stranieri, fino all'autolesionismo che spinge a tifare per lo spread e al collaborazionismo di chi si augura un golpe finanziario e il disconoscimento del voto democratico.

Ma allora, se le cose stanno così (e stanno proprio così), più politica a scuola, viva l'Italia e abbasso Moscovici.


martedì 23 ottobre 2018

Scuola vs cultura


Ricorre quest'anno (2018) il centenario della nascita di Luigi Pareyson (1918), filosofo dell'esistenzialismo cristiano, del personalismo, dell'ermeneutica e dell'ontologia della libertà. La ricorrenza ha interessato soprattutto gli istituti di filosofia e poco il grande pubblico. Eppure il pensiero di Pareyson mi sembra attuale, capace di interpretare e di spiegare lucidamente problemi e difficoltà che stanno attraversando l'Italia e la scuola, anche dal punto di vista politico. Di recente mi ha colpito un suo articolo, scritto durante la Resistenza, con tutta probabilità nel 1944, per il giornale clandestino del Partito d'Azione L'Italia libera. All'epoca Pareyson era responsabile dell'Ufficio del comando delle formazioni partigiane Giustizia e Libertà per la provincia di Cuneo (incarico ricoperto almeno fino all'uccisione dell'amico Duccio Galimberti, forse la più importante figura della Resistenza piemontese, massacrato dai fascisti nel dicembre 1944). L'articolo si intitola Ancora su "Scuola e cultura". Ne riporto la prima parte:

La formula "scuola contro cultura" pare, nella sua brevità, un paradosso. Ma, esaminata più a fondo, si rivela come una conseguenza necessaria di una determinata concezione dello stato e della vita politica: di quella concezione che possiamo chiamare "liberale" in contrapposizione alla concezione "democratica".
L'atteggiamento del liberale (e non intendiamo per "liberale" né, filosoficamente, l'uomo libero che crede nella libertà, né, classicamente, il borghese che la difende come un privilegio, ma, storicamente, colui che combatte in sede pratica per l'affermazione dei diritti umani naturali dell'individuo contro l'invadenza dello stato dispotico), l'atteggiamento del liberale di fronte al problema politico è determinato prevalentemente da un sentimento che si può definire come "paura dello stato". Per il liberale lo stato è sempre il Leviatano che divora i suoi sudditi: corruttore in morale, sperperatore in economia. Per combattere il maleficio dello stato, si aprono dunque al liberale due strade: o sottrargli alcune delle funzioni che arbitrariamente e rovinosamente si è arrogato, o, quando non si è così forti da sottrargliele, sminuire, di queste funzioni, il valore e la portata. La prima via è quella che conduce alla proclamazione della libertà: libertà di commercio vuol dire sottrarre allo stato la funzione economica, libertà di pensiero vuol dire sottrarre allo stato la funzione educativa. La seconda via è quella che conduce alla trasformazione dello stato in gestore di pubblici servizi: se non si può fare in modo che la difesa del popolo sia esercitata da associazioni private, l'esercito per lo meno non sia più un corpo privilegiato che partecipa in qualche modo della magnificenza della sovranità, ma sia un organismo professionalmente e tecnicamente perfetto e perfezionabile, senza indirizzo o velleità politiche, sia cioè un pubblico servizio; parimenti, nel caso della funzione educativa, se non si può sottrarre allo stato del tutto l'istituzione scolastica, non abbia più la scuola alcuna pretesa culturale, di formazione delle coscienze, ma sia anch'essa null'altro che un organismo esclusivamente indirizzato all'esecuzione di un compito tecnico, insensibile alle correnti spirituali che si agitano nel paese, sia insomma un pubblico servizio.
Scuola contro cultura, in sostanza, è una formula che ricopre la vera antitesi implicita in una schietta concezione liberale, tra stato e individuo. La scuola è affare dello stato; la cultura degli individui. E siccome l'individuo è in una situazione di continua difesa armata e legittima contro lo stato, individuo contro stato vuol dire, nella sfera del problema educativo, cultura contro scuola.
Ora di fronte a siffatta formula si può osservare che la tecnicizzazione della scuola, come di ogni altra funzione pubblica veramente vitale, presenta un pericolo permanente: l'assoggettamento dell'organismo statale, ridotto nel complesso delle sue funzioni ad un semplice meccanismo esecutivo, in potere di chi per primo vi metta sopra le mani. La scuola tecnicizzata, l'esercito tecnicizzato, i servizi amministrativi tecnicizzati, diventano facile e sicuro dominio del primo occupante. La via al dispotismo è maggiormente aperta là dove lo stato, anziché essere l'insieme ordinato e coordinato delle istituzioni popolari, è un gestore di pubblici servizi. Chi s'impadronisce di questi servizi, diventa immediatamente padrone del popolo, tutore esclusivo del suo benessere e della sua vita. La scuola tecnicizzata, staccata dall'elemento naturale, in cui solo può vivere, staccata dalla cultura, è uno dei più comodi strumenti che l'inclinazione dispotica, insita nei governanti di tutti i colori, abbia a sua disposizione per farsi valere. Si osservi: se una resistenza vi è stata da parte della scuola italiana alla fascistizzazione della scuola, dipende esclusivamente dal fatto che la scuola italiana, e soprattutto quel ginnasio-liceo contro cui oggi si alza la voce da tutte le parti, era una scuola non tecnicizzata, ma colta, era insomma una scuola di cultura, o almeno una scuola che bene o male rappresentava la cultura, vale a dire la situazione attuale del pensiero civile e della scienza civilizzatrice, meglio che ogni altra scuola; e tanto più la scuola si difese, quanto più era scuola di cultura libera e non di istruzione professionale, quanto più insomma era una scuola e non un pubblico servizio.
Alla paura dello stato, propria alla concezione liberale, la concezione democratica contrappone la trasformazione radicale dello stato per opera dell'instaurazione e dell'effettivo funzionamento delle istituzioni popolari dell'autogoverno, in modo che nello stato non vi sia più ragione di aver paura. Poco importa che lo stato abbia determinate funzioni e le eserciti con maggiore o minore ampiezza, quando si sappia che queste funzioni sono comunque controllate e dirette da chi vi ha interesse, quando queste funzioni rappresentino, di qualunque natura siano e qualunque estensione possiedano, funzioni di autogoverno. Contro la tentazione del dispotismo, non vi è esautorazione o restrizione dello stato che valga; una sola è la garanzia: l'autogoverno, cioè la democrazia.
In uno stato democratico ci si può permettere tra l'altro anche il lusso di una scuola di cultura, senza incorrere nel pericolo che questa monopolizzi il sapere a detrimento della libertà di pensiero, diventi scuola etica a danno della moralità della scuola, cioè della libertà dell'insegnamento; perché in un regime di autogoverno non vi è un'opinione ufficiale ma se mai soltanto un'opinione pubblica, non vi sono direttive etico-politiche, imposte dall'alto, ma indirizzi di pensiero che si aprono la strada in mezzo agli altri, perché rappresentano meglio lo stato della civiltà contemporanea e il progresso civile. E come la democrazia permette la scuola di cultura, a sua volta la scuola di cultura assicura e rafforza la democrazia, perché una scuola colta non può non essere veicolo di libere persuasioni, baluardo contro il ritorno della barbarie sotto veste dei miti della pseudocultura.

Chi è interessato a completare la lettura dell'articolo potrà trovarlo in Iniziativa e libertà, edito da Mursia, un volume che raccoglie scritti politico-culturali, di filosofia della politica e di filosofia morale non ricompresi in altre opere approntate dallo stesso autore.
Questo testo del 1944, destinato alla stampa clandestina antifascista durante la Resistenza, fa parte di un gruppo di scritti che mirano a tracciare il profilo di una scuola democratica, per un'Italia liberata, in vista di un progetto di riforma generale del sistema educativo (Pareyson, nel 1945, sarà responsabile del CLN-Scuola del Piemonte).
L'atteggiamento liberale e quello democratico non vengono qui presentati come coincidenti, contrariamente a quanto altri comunemente hanno pensato e pensano. Il democratico e il liberale si trovano invece in opposizione, e in modo particolarmente visibile di fronte al problema educativo.
La diffidenza verso le istituzioni nazionali, la statofobia tipica del liberalismo, porta a restringere il più possibile il perimetro della scuola statale, nel timore che possa diventare veicolo di indottrinamento. Le scuole vengono così privatizzate, e, quando ciò non è possibile, almeno ridotte a servizi pubblici, indirizzati a erogare agli utenti saperi utilitaristici e meramente tecnici, avulsi dagli indirizzi di pensiero che animano la società. E ciò finisce col separare scuola e cultura.
All'opposto il democratico vede nella scuola un'istituzione popolare, che deve essere partecipata e diretta da chi vi ha interesse, attraverso la costruzione di funzioni di autogoverno. In questa prospettiva, che sembra anticipare di un quarantennio le migliori teorizzazioni sull'autonomia scolastica, non vi sono rischi di indottrinamento né paura dello stato, in quanto in un regime di autogoverno non esistono verità ufficiali e direttive imposte dall'alto. Vi è, invece, un confronto di indirizzi molteplici, che si affermano nel contesto dell'opinione pubblica, grazie alla loro capacità di interpretare le esigenze della civiltà contemporanea e del progresso civile. La scuola non è solo un servizio, ma prolunga la cultura del suo tempo, in cui è immersa. La cittadinanza attiva, concretamente esercitata, è il suo vero e più profondo contenuto.
Questa fiducia nelle istituzioni democratiche (si pensi, ad esempio, alle posizioni di Calamandrei sulla scuola come organo costituzionale) ha animato, in varie forme, il riformismo scolastico fino agli anni Ottanta. Mentre, dagli anni Novanta in poi, la spinta innovativa ha perso forza. Siamo tornati a una scuola utilitarista, dominata da preoccupazioni tecniche e strumentali, e almeno in teoria presentata come funzionale a vincoli esterni (il Mercato, l'Europa, le sfide della competitività, i rapporti OCSE, L'Invalsi e così via). Sotto l'influenza dell'ideologia tecnocratica e liberista dell'Unione europea, l'ultimo ventennio si è risolto in una deriva neoliberale senza sbocchi, approdata alla cosiddetta Buona Scuola e al suo inevitabile e prevedibile fallimento: scuola contro cultura e cultura contro scuola.

giovedì 13 settembre 2018

Buona Scuola: analisi della spesa

Che la Buona Scuola si sia tradotta in un rovinoso insuccesso sembra ormai un dato acquisito. Perfino i suoi promotori, che attualmente si trovano in grave difficoltà e perdono ogni giorno consensi, cominciano a riconoscerne il fallimento, ma con moderazione e senza esagerare. Ora, con qualche reticenza, ammettono che sì, ci sono stati degli errori di comunicazione... e forse non solo di comunicazione... però, a conti fatti, si vede a occhio nudo che la pubblica istruzione ha ricevuto maggiori risorse. Rispetto ai tagli operati nel passato ci sarebbe dunque almeno stata, se non altro, un'inversione di tendenza...
L'inversione di tendenza: questo sembra essere diventato, dopo tanto discutere, il nuovo punto di equilibrio, l'ultima triste scusante, che, oltre a rappresentare un'efficace scappatoia, potrebbe anche salvare la faccia alla Buona Scuola (e soprattutto a chi  l'ha maldestramente pensata e approvata).
Avevo già notato questo cambiamento di intonazione. 
Ma a questa giustificazione corrisponde qualcosa di osservabile? L'inversione di tendenza, anche restando in superficie, alla mera aritmetica della spesa statale, c'è davvero stata? Stiamo parlando di un dato reale o di una semplice impressione, vera solo all'interno di convinzioni politiche accettate per fede o per appartenenza?
Si è lungamente detto che, grazie alla 107, le risorse per la scuola hanno registrato un cospicuo incremento: tra i 3 e i 7 miliardi, a seconda dei metodi usati nel conteggio, dei giorni e dei giornali. La disinvoltura con cui si sono sparate certe cifre, sempre diverse, dovrebbe costituire di per sé un monito e un invito all'approfondimento. Fermo restando che quando c'è un incremento (se c'è) occorre sempre capire in rapporto a che cosa. Lo stesso vale naturalmente per i decrementi. Questo per non fare la fine della Gelmini in un confronto con Letta svoltosi nel 2011, che è emblematico per capire come sinistra e destra, per parecchi anni (precisamente dal 1992), si siano rinfacciate, con argomenti da treccartari, i tagli che hanno fatto insieme. Potete trovare il video nella pagina introduttiva del blog, accompagnato da una spiegazione.
Ciò premesso prendiamo le spese per la scuola (Missione n. 22 del bilancio dello Stato: Istruzione scolastica) nell'ultimo decennio. La tabella è elaborata sulla base dei dati contenuti nelle periodiche analisi delle spese per missioni e programmi, a cura del Servizio del bilancio del Senato (spese annuali indicate con valori assoluti in milioni di euro): 

Ho già osservato, sempre nella pagina introduttiva appena citata, che tra il 2009 e il 2010, mentre nelle scuole giustamente si protestava contro i tagli programmati dalla legge 133/2008 (Gelmini, Brunetta, Tremonti), la spesa per istruzione scolastica aumentava, anche se di poco, per effetto della precedente legislazione ancora in vigore. I decrementi attesi si realizzavano solo negli anni successivi, specialmente nel 2012, dopo la caduta del governo Berlusconi IV, e si mantenevano invariati con i governi Monti e Letta, e nel primo anno del governo Renzi. La legge 107 è del 2015 e i risultati si vedono nel 2016. Vi è un incremento di circa 3,2 miliardi di euro sull'anno precedente, ma non sulla spesa media del decennio. Si vedano le cifre evidenziate in rosso. Lo stanziamento 2016 è di 44.799 milioni di euro, e non si discosta molto dalla spesa del 2010 (governo Berlusconi, ministero Gelmini).
Che cosa è avvenuto? Le oscillazioni di spesa dipendono da vari fattori, ma badando alle voci principali possono essere riassunte così: il governo di centrodestra ha tagliato sul personale aumentando il numero degli allievi per classe e assottigliando gli orari di lezione (meno tempo pieno alla primaria, meno ore di lettere alle medie, riduzione del tempo prolungato, alleggerimento dei curricoli agli istituti superiori); Monti e Letta si sono ben guardati dal mettere in discussione questi "risparmi" (e come avrebbero potuto farlo nelle condizioni in cui hanno sgovernato sotto il ricatto dell'Europa?); il governo Renzi, invece, ha restituito le cattedre tagliate, ritornando più o meno ai livelli di spesa di sei anni prima, con un incremento non certo esaltante (+ 615 milioni).
Sì, ma... quali cattedre? I "risparmi" Gelmini (o meglio Tremonti) erano tagli lineari, dovuti alla contrazione dei curricoli, che toccava un po' tutte le classi di concorso. La restituzione della Buona Scuola, prevalentemente compiuta attraverso la trovata del cosiddetto "organico potenziato", ha invece "restituito" altro. Non le cattedre che le scuole richiedevano, segnalando ad esempio la necessità di professori di matematica, materie letterarie, lingue straniere, sostegno, sulla base del proprio specifico fabbisogno, per compensare i tagli subiti o per riempire i posti vuoti, ma quelle individuate invece dal ministero per "sistemare", attraverso l'immissione in ruolo, i precari storici ancora presenti nelle graduatorie ad esaurimento, per esempio docenti di discipline giuridiche ed economiche, arte, musica, educazione fisica.
Nessuna relazione, quindi, tra il fabbisogno delle scuole e l'organico potenziato. Anzi un'opposizione, facile da capire. Perché, infatti, gli insegnanti destinati al potenziamento erano rimasti così a lungo nelle graduatorie ad esaurimento? Ma proprio perché, appunto, appartenevano a classi di concorso meno richieste in quanto meno presenti nei piani di studio, o caratterizzate da un eccessivo numero di aspiranti rispetto al numero limitato dei posti, il che è lo stesso.
E qui viene spontanea una domanda: perché creare cattedre che non ci sono, solo per svuotare le graduatorie ad esaurimento, lasciando contemporaneamente scoperti posti effettivamente esistenti e richiesti dalle scuole? Ciò è dipeso da una convinzione (o illusione) ideologica, presente nella Buona Scuola, che riteneva possibile eliminare progressivamente tutte le graduatorie, a cominciare da quelle ad esaurimento, per assumere i docenti solo attraverso concorsi per esami e tirocini, cancellando così il precariato, la vituperata "supplentite". Si tratta di un programma insensato e ingiusto, ma soprattutto irrealizzabile, che di per sé rivela una scarsa conoscenza, pari solo alla presunzione, delle dinamiche profonde e strutturali della scuola, che non possono essere abolite per decreto, ma vanno piuttosto studiate e comprese, e poi governate nel rispetto della storia e della complessità del sistema. Non mi dilungo qui sul punto. Chi vuole approfondire può leggersi la pagina sul precariato.
Tirando le somme, dopo un decennio di spesa oscillante, il combinato disposto di tagli e di ripensamenti, nel gioco delle parti tra destra e sinistra, ha condotto a un curioso risultato involontario. Per risparmiare abbiamo tagliato posti veri per poi tornare, sei anni dopo, allo stesso livello di spesa attraverso immissioni in ruolo su posti finti. Ma non era meglio guardare al fabbisogno insoddisfatto? Non conveniva immettere in ruolo dando la priorità alla copertura dei posti reali rimasti scoperti?
Quanto ai precari delle graduatorie ad esaurimento, va ricordato che, pur non trovando una cattedra libera nella propria classe di concorso, non erano disoccupati. Molti di loro lavoravano stabilmente sul sostegno, e qui, pur non possedendo il prescritto titolo di specializzazione, avevano accumulato una pluriennale esperienza da riconoscere e da valorizzare. Bisognava completare la loro formazione con l'attribuzione del titolo mancante attraverso corsi riservati, per lasciarli dove si trovavano, su cattedre vere e necessarie. Sono stati invece spostati in altre scuole (e spesso in altre regioni), anche dove la loro classe di concorso era ampiamente coperta, o addirittura non faceva parte del piano di studi. E i posti di sostegno forzatamente abbandonati? Quelli, naturalmente, sono andati a nuovi precari, con minore esperienza. Potenziamento del precariato, quindi, in contrasto con l'iniziale, ideologico proponimento di eliminare la "supplentite".
Il confronto dei dati del 2016 con quelli del 2010 conduce a una diagnosi: a parità di organici e di investimenti, una minore efficacia, e una conferma di inefficienza di fronte ai bisogni insoddisfatti.
La spesa è rimasta grosso modo la stessa, anche se ora è meno ragionevole e qualificata.
E l'inversione di tendenza? C'è? A me non sembra. Se qualcuno riesce a vederla mi scriva.

domenica 9 settembre 2018

Se non a scuola, dove?


Sono diventato preside grazie a un concorso indetto nel 1990, più di 27 anni fa, svolgendo in otto ore un tema sull'analisi della domanda educativa, in condizioni difficili (ricordo perfino gente appesa alle finestre dell'hotel Ergife di Roma che protestava, già allora, contro la pessima organizzazione dell'esame). Com'è lontano quel tema. Non ne so ripetere esattamente il titolo e nemmeno lo svolgimento, ma è molto probabile che abbia scritto che il termine "domanda", in campo educativo, assume un significato molto diverso da quello che gli attribuiscono di solito gli economisti. Un risvolto economico, volendo, si può trovare anche qui, come sempre, ma non tocca l'essenza del problema. Sono inoltre sicuro di avere citato la legge 517/77, quella che attribuisce a ciascun allievo il diritto a un percorso individualizzato, che prevede la rimozione dei famosi ostacoli di cui parla l'art. 3 della Costituzione, e in qualche punto del testo avrò certamente anche ricordato che la prima finalità della scuola italiana è (era) la formazione dell'uomo e del cittadino. Niente di speciale, né di particolare. Ero solo un concorsista che aveva studiato la lezione.
Il problema di oggi è: 27 anni dopo potrei rifare quel tema?
Quell'idea sarebbe ancora proponibile e mi farebbe, come allora, ammettere agli orali? 
Sì in teoria, no in pratica.
Non c'è nessuno che l'abbia smentita in un testo di legge, perché manca la maggioranza politica in grado di farlo, ma c'è sempre qualcuno che, senza scontrarsi con una maggioranza politica capace di fermarlo, riesce a toglierla dai punti all'ordine del giorno e a deviare il discorso, una volta perché è talmente scontata che è inutile ripeterla (eh già, siamo tutti d'accordo), un'altra volta perché a forza di ripeterla si rimane nel passato e si perdono le sfide della competitività e della modernizzazione (e anche su questo punto dobbiamo essere tutti d'accordo, e se qualcuno per caso non lo è, guai a lui). Spingono in tal senso interessi forti, anche se non abbastanza da poter cambiare la trama costituzionale, ma sufficienti ad alterare la natura della domanda educativa. E qui, vedi come in un'altra partita cambiando le carte cambia anche il gioco, il termine "domanda" va invece inteso in senso strettamente economico, e per essere precisi, anzi addirittura rigorosi, come "abbattimento della domanda interna". 

Per abbattere la domanda interna, cioè i consumi e il benessere della popolazione, bisogna ridurre gli stipendi, aumentare le tasse, comprimere la spesa dello Stato, e quindi meno lavoro, meno sanità pubblica, meno previdenza sociale, meno istruzione gratuita. Il che è precisamente quel che è avvenuto in Italia negli ultimi anni, e che continua ad avvenire in obbedienza al regime eurista in cui siamo lentamente sprofondati. Crescente sottomissione a regole esterne (eteronomia) contro indipendenza nazionale organizzata a tutela dei cittadini (autonomia).
Mi sembra evidente che il soggetto posto al centro della domanda educativa che è derivata dalla Costituzione sia un ostacolo a un simile processo. Non occorre insistere molto sul concetto. Se il primo obiettivo della scuola è la formazione dell'uomo e del cittadino che emerge dal disegno costituzionale, entra nel pensiero comune l'idea che il lavoro, l'istruzione, l'assistenza sanitaria siano diritti, non lussi, non abusi. Non solo. Più si è istruiti e più si è consapevoli di questo fatto. I diritti diventano, appunto, un fatto e non una generica promessa. Un fatto che costituisce un grave problema per l'Europa.

L'Europa finanziaria non ha scelta. Non c'è alternativa: se vogliamo continuare a tagliare gli stipendi, i servizi sociali e le pensioni, e a trasferire risorse pubbliche al privato, e debiti privati al pubblico, dobbiamo invertire il nostro modo di pensare. L'uomo e il cittadino che la scuola, come organo costituzionale, intende formare rimuovendo ogni ostacolo, deve a sua volta diventare il principale ostacolo, e il più grande impedimento da rimuovere in nome del profitto e della competitività. Occorre dunque farne un bersaglio della propaganda "progressista", e su questa costruire una nuova antipedagogia, la pedagogia del gambero.
Bisogna dimostrare che i presunti diritti del cattivo soggetto legittimato dai principi della Costituzione ("un accidioso individuo" come diceva Padoa Schioppa) sono infondati, perché riferiti a un personaggio che ha tutti i caratteri del parassita: fannullone, sprecone, disoccupato e soprattutto indebitato. E un debitore strutturale non merita il benessere che uno Stato clientelare e spendaccione gli ha garantito.
Ne nasce una vera e propria filosofia della denigrazione nazionale.
Convincere un popolo che mirare al proprio benessere è un male e che accettare sacrifici inutili, anzi controproducenti, è un bene, non è tanto facile. Ma se si hanno a disposizione quasi tutti i mezzi di comunicazione, se si può contare sull'appoggio e sulla complicità di quasi tutti i partiti politici, è possibile tentare, e anche riuscire, almeno per un periodo, finché la verità non venga inevitabilmente a galla.
Per spingere un popolo all'autolesionismo è un'ottima strategia puntare sul senso di colpa collettivo: attraverso false informazioni seminare la discordia tra le generazioni, convincere i padri di avere danneggiato i figli, e i figli di essere stati derubati dai padri; fiaccare il morale di chi lavora spingendolo a credersi incapace e improduttivo; alimentare la diffidenza, la sfiducia e l'odio contro ogni funzione pubblica o potere statale, rappresentato come marcio e corrotto per definizione; sollecitare lo sconforto, scoraggiare la partecipazione e premiare il disprezzo nazionale fino a promuovere vere e proprie forme di autorazzismo; specializzare in questi compiti distruttivi schiere di giornalisti, pubblicisti, commentatori, facendo della denigrazione della propria storia e del proprio paese un genere letterario di sicuro successo, anzi il mestiere che più di ogni altro garantisce una rapida carriera all'insegna della menzogna.
Possono così diffondersi facilmente e circolare trionfalmente panzane sul tipo di quelle che seguono:

1. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità per due generazioni.
2. I padri hanno contratto un debito pubblico che i figli dovranno ripagare.
3. Il debito pubblico, prodotto dalla corruzione, ha impedito all'Italia di crescere.
4. Non abbiamo più margini, con tutto 'sto debito pubblico che ci hanno lasciato...
5. Il debito pubblico è il primo problema dell'Italia.
6. Ogni italiano nasce con 35mila euro di debito.
7. Questa spesa pensionistica è un lusso che non possiamo più permetterci.
8. Questo Stato spendaccione è un lusso che non possiamo più permetterci.
9. Questa sanità sprecona è un lusso che non possiamo più permetterci.
10. La corruzione dei politici ci costa 60 miliardi all'anno.
11. La casta corrotta ci costa 40... 50... 60...  90 miliardi all'anno...
12. Per rimettere le cose a posto ci vorranno 15 anni di seria politica della formica.
13. Per rimettere le cose a posto bisogna tagliare le pensioni.
14. Per rimettere le cose a posto cominciamo a ridurre il numero dei parlamentari.
15. Per rimettere le cose a posto cominciamo a ridurre il numero degli statali.
16. Basta con il mito del posto fisso.
17. Meno male che c'è l'ombrello protettivo dell'Europa.
18. Grazie all'Europa siamo diventati un paese normale.
19. Per l'Europa non siamo abbastanza competitivi.
20. Grazie al vincolo dell'Europa aumenteremo la nostra produttività.
21. Le riforme che ci chiede l'Europa ci renderanno più competitivi.
22. L'Italia è più corrotta della Germania.
23. I tedeschi sono più seri degli italiani.
24. Perfino gli spagnoli e i portoghesi ci stanno superando.
25. Dobbiamo essere riconoscenti all'Europa.
26. Perché non ci si debba più vergognare di essere italiani...
27. Occorrono riforme vere e non all'italiana.
28. Grazie all'Europa 60 anni di pace.
29. Grazie all'Euro possiamo difenderci dalla Cina.
30. E meno male che non abbiamo più le lirette in tasca...
31. Grazie a San Draghi...

Sono 31 fandonie scelte a caso, tra le molte frottole euriste che a forza di comparire sui giornali, dopo migliaia di passaggi televisivi, hanno fatto breccia nel pensiero e nell'immaginazione di milioni di persone.
Ma anche se molto ripetute e pubblicizzate si tratta pur sempre di panzane.
In quanto panzane possono essere smentite e smontate facilmente. Come? Facendo quello che i professori da sempre raccomandano di fare: Studiare. Basta studiare. Verificare ogni affermazione. Confrontare le fonti. Scartare i falsi. Tirare le somme. Non c'è luogo migliore della scuola  per combattere la cattiva propaganda.
Se non a scuola, dove?

La formazione è già una critica all'euro, inevitabilmente.
Al crescere dall'informazione, della ricerca e dello spirito critico, cresce nello studente la capacità di riconoscere le fandonie, e di integrare l'elenco, dalla numero 32 in avanti. E alla fine ci arriveranno tutti, perfino i meno motivati e i ripetenti, e addirittura gli ultimi ritardatari della Bocconi.

mercoledì 15 agosto 2018

Governance illuminata

Governance: parola nobile nel gergo europeista.
Da Eurino Informino, soggetto telematico collettivo per la cittadinanza italiana, riceviamo uno spunto per un'unità didattica sul metodo del "dispotismo illuminato" e della "democrazia limitata", che, secondo Padoa Schioppa, ministro delle finanze di Prodi, ha determinato la costruzione dell'Europa (intesa come Ue).
La conoscenza di un suo scritto del 1999 (Gli insegnamenti dell'avventura europea) è importante per la comprensione della mentalità e delle credenze poste alla base della cosiddetta "governance europea". Andrebbe letto in classe.






Dal diario di un illuminato...

A leggere gli articoli, i saggi e le interviste dei padri dell'euro e dell'Europa non può sfuggire un'opera di intensa auto-celebrazione, uno sforzo continuo per accreditarsi presso le opinioni pubbliche quali statisti di spessore, lungimiranti e illuminati.
Ma sarà vero? Noi crediamo, piuttosto, che dalla lettura dei padri dell'euro non emergano né grandi menti, né grandi consapevolezze di carattere scientifico, né tanto meno grandi uomini. Tutto è purtroppo tristemente chiaro, uniformemente mediocre, e le poche e stentate idee che si possono reperire, che difficilmente farebbero presa in un ambiente culturale aperto a un confronto vero, non sembrano molto diverse da quelle che si sentono ripetere in certi dipartimenti di economia, dove con troppa frequenza e con ingiustificata autostima si rimastica un sapere settoriale, riduttivo e autoreferenziale.
Padri magari nobili ma non certo profondi. Più bancari che banchieri. Più ragionieri che pensatori. E comunque, per tornare all'osservazione iniziale, sempre impegnati a simulare una qualche superiore illuminazione.

Tra gli italiani, il più illuminato di tutti, in questo senso perverso, ci è sembrato Tommaso Padoa Schioppa, già ministro delle finanze nel secondo esecutivo Prodi. Purtroppo è scomparso improvvisamente qualche anno fa. Non ha fatto in tempo a vedere il disastro prodotto dal governo dell'europeista Monti. Pensiamo però che anche di fronte ai ruderi ingloriosi del liberalismo economico avrebbe continuato a sentirsi un illuminato, membro di un'élite, uomo fuori dal comune, padre della patria eurista e della sinistra sottomessa:

Questa e le altre citazioni presenti nel testo sono tratte da un articolo del 1999, pubblicato
in francese sul periodico Commentaire (n. 87/99): Gli insegnamenti dell'avventura europea

Padoa Schioppa assumeva qui (autunno 1999) una posa da illuminato, con sguardo aperto ma fermo, guidato da certezze economiche, per lo più infondate, da cui ricavava l'impressione di avere un rapporto privilegiato con la realtà, e quindi il diritto di decidere anche per gli altri, per il loro bene. Una convinzione che ha accomunato nella storia tanti esaltati e che era, e ancora sembra, molto diffusa tra impiegati, dirigenti, consulenti e funzionari che popolano gli organismi sovranazionali dell'euro-burocratismo.
Nelle scuole, per vaccinare le nuove generazioni (vaccinazione ritornata obbligatoria), durante le ore di educazione alla cittadinanza dovremmo studiare con attenzione questa patetica ma dispotica psicologia. Credendosi illuminata dall'alto si sente dispensata dalla ricerca del consenso. Si ritiene perciò superiore alla democrazia e utilizza lo strumento di influenti burocrazie, che si sottraggono al controllo dei parlamenti, per iniettare nel corpo vivo degli stati regolamenti, disposizioni, indirizzi incompatibili con la loro storia e con le convinzioni radicate nei cittadini e nelle costituzioni. Ma non essendo questo un processo storico profondo, trattandosi di un raggiro che può durare solo finché non viene scoperto, i suoi effetti sono destinati nel tempo a rivelarsi insostenibili, fino ad essere giustamente ripudiati con disonore, dopo avere generato tensioni, proteste, crisi, conflitti (proprio come sta accadendo con l'euro).
Il dispotismo illuminato degli euro-burocrati, anche se, come incessantemente ripetono i suoi adepti, respinge la violenza e la guerra (ma non la menzogna), produce danni paragonabili a quelli che un tempo venivano causati dalle epidemie e dalle carestie. Il nuovo morbo non aggredisce però i corpi ma i sistemi democratici: una sorta di moderna peste del diritto e dell'economia, la peste di Bruxelles.

Padoa Schioppa riponeva invece grande fiducia in questa euro-peste, che erode e deforma le istituzioni statali al di fuori dai processi elettorali, sentendosi "libera" dai fastidi della costruzione del consenso e della mediazione tra interessi diversi, e nel testo citato la considerava una "procedura perfettamente legittima" e rivoluzionaria:
"Questa maniera di condurre la vita politica instaura tra coloro che l’adottano dei rapporti completamente differenti dalle relazioni stabilite nel quadro tradizionale. Liberata completamente dal contrasto tra le parti, dai gruppi d’interessi, dalla nazionalità, dall'esigenza elettorale, dalla necessità del guadagno, essa conferisce a chi l’adotta una grande libertà d’azione, e da questo fatto, una efficacia decuplicata. Essa crea inoltre una disponibilità particolare per la cooperazione, lo scambio gratuito di idee e di contributi, la generosità reciproca.
In realtà, questo modo d’azione politica è quello dei rivoluzionari, e così si riassume: creazione di un nuovo ordine; generosità disinteressata, cospirazione, idealismo; alleanza dell’attività politica e di un altro mestiere. La costruzione europea è una rivoluzione, anche se i suoi rivoluzionari non sono cospiratori pallidi e magri, ma impiegati, funzionari, banchieri e professori." [sottolineature nostre]
Che dire di questo idealista cospiratore che combina l'attività politica con "un altro mestiere"? Di che mestiere si tratterebbe? A prima vista, per come viene descritto, sembrerebbe quello del faccendiere, del trafficante di influenze, del manipolatore delle istituzioni pubbliche (ma, intendiamoci, a fin di bene) o del golpista gentile (ma per l'Europa, attenzione, e nel ripudio della violenza e dei nazionalismi). Insomma un eroico mestatore, intrallazzatore sì, ma di notevole livello, non pallido e magro, ma alto funzionario, banchiere e illustre professore. Super scortato, ultra protetto e ben introdotto a Bruxelles. Chi avrebbe il coraggio di mettere dentro un "rivoluzionario" simile? Chi, soprattutto, avrebbe l'occasione e gli strumenti per farlo? Ma nessuno, purtroppo.
E poi, secondo Padoa Schioppa, i progressi dell'Europa sono stati favoriti dalla democrazia limitata e dalle "illuminazioni" di questo personaggio. Vediamone un paio, quelle fondamentali, sempre attingendo dallo stesso testo:

Prima "illuminazione", a proposito della cosiddetta "libertà economica":
"È precisamente per creare la libertà economica tra paesi partecipanti che il legislatore di Bruxelles, con una forza e una coerenza che i processi politici interni agli Stati non avrebbero saputo sviluppare, ha alleggerito e sfrondato la legislazione e le istituzioni economiche degli Stati membri per adattarli al mercato e alla concorrenza. A giusto titolo, la costruzione europea ha dunque significato più mercato e più governo."
Seconda "illuminazione", su poteri pubblici e privati:
"Se le regole del mercato sono veramente indipendenti dal regime della proprietà e se, di più, sono proibiti gli aiuti pubblici che falsino la concorrenza, a che cosa serve la proprietà pubblica? Se, inoltre, le finanze dello Stato devono essere sanate, è raccomandato, e anche necessario, privatizzare."
Con ciò dovrebbe essere chiaro in che direzione si muovono i "rivoluzionari" di Padoa Schioppa con "generosità reciproca" e "scambio gratuito di idee". Idee certamente generose e gratuite per loro, ma costosissime e ingenerose per chi ne paga il prezzo. Come l'idea che "ha alleggerito e sfrondato la legislazione e le istituzioni economiche degli Stati membri" (cioè lo Stato sociale), con una coerenza che "i processi politici interni agli Stati" (cioè la democrazia)  non avrebbero mai avuto (ma è ovvio, altrimenti si sarebbe trattato di stati non democratici). Come quell'altra idea metafisica circa l'esistenza di "regole del mercato veramente indipendenti dal regime di proprietà". Ma dove collocare questo "veramente"? Nell'Essere? Nella Natura? In Dio? Nella Legge Originaria? Di ciò non si dice. Si ritiene però che gli aiuti pubblici vadano proibiti per non falsare l'indimostrata armonia della concorrenza, che va sempre bene, a patto che lo Stato vi partecipi con le mani legate, come un debitore tra gli altri, anzi come una somma di debiti privati. Ma allora, "a che cosa serve la proprietà pubblica?" Ma a niente, appunto. Quindi è meglio che diventi privata al più presto e senza troppe storie.
Sembra così normale (una caratteristica della "realtà") che i debiti privati diventino pubblici, e che lo Stato, da indebitato, sia costretto a cedere i suoi beni al privato, cioè alla causa dei suoi debiti futuri. Quando questo circolo vizioso diventa la regola "è raccomandato, e anche necessario, privatizzare". Quando la regola si irrigidisce poi in un trattato, e il trattato è vincolante per l'adesione a una moneta comune, abbiamo l'euro e la "rivoluzione" alla Padoa Schioppa è compiuta. Secondo la sua opinione il risultato finale sarebbe frutto di una "procedura perfettamente legittima".

Sull'ultimo punto è necessario obiettare. Che la procedura sia "perfettamente legittima" è solo un'illusione, frutto di un economicismo che ritiene possibile la creazione di una moneta senza storia, senza popolo, senza consenso, governata  attraverso influenze, manovre e sotterfugi incompatibili con l'esistenza di uno Stato di diritto.
La procedura è invece illegittima, e chi volesse approfondire l'argomento, in un percorso di educazione alla cittadinanza, potrà farlo qui o direttamente sul sito del prof. Giuseppe Guarino o anche grazie a questo video:


Secondo il professore la dottrina dell'austerità che accompagna l'euro sarebbe una degenerazione degli accordi originari tra stati, una modificazione unilaterale e illegittima imposta dalla Commissione attraverso l'aggiramento e la manipolazione delle norme autentiche. Dunque "non chiamatelo Euro", perché siamo di fronte, ormai, a un'altra moneta, determinata da un golpe e diversa da quella a suo tempo progettata.
Questa interpretazione lascia spazio a una speranza: che, impugnate le regole "cattive", dopo averle ripudiate si possa ritornare a un euro "buono", compatibile con gli investimenti pubblici, la crescita equilibrata, il welfare e le democrazie.
Ma si tratta di una speranza fondata? A noi pare che una moneta che nasce sul principio dell'indipendenza delle banche centrali, che sottrae agli stati la possibilità di avere una politica economica autonoma, che assoggetta i cittadini europei ai ricatti di burocrati non eletti (appunto gli illuminati alla Padoa Schioppa), sia sbagliata in radice e senza la possibilità di una correzione. Ma soprattutto incompatibile con la Costituzione italiana, da cui si è allontanata, con una graduale e sistematica azione eversiva, tuttora in atto.

Comportamenti illegali che mettono a repentaglio il benessere, la sicurezza e il lavoro di milioni di persone non possono essere classificati come semplici illeciti amministrativi. Il fatto che vi sia una responsabilità collettiva, e non un colpevole in particolare, non deve impedire di riconoscerli come crimini. Solo dopo essere passati attraverso questa esperienza traumatica, che comporta un grande cambiamento nel modo di vivere e di pensare, diventa lecito sperare in una finale amnistia, che non ci faccia assistere al brutto spettacolo di una nuova Norimberga.
Ma quest'atto di riconciliazione e di generosità non sarà possibile finché il dispotismo illuminato che ha architettato l'euro non venga battuto culturalmente e politicamente, e collocato nell'unica posizione che gli compete in uno Stato democratico di diritto: sul banco degli imputati.

venerdì 10 agosto 2018

La sinistra sottomessa e la scuola

Chi si attendeva dal nuovo governo un completo abbandono della legge 107 ha già motivo di rammaricarsi. Le novità sono infatti poche e timide e non alterano per il momento il quadro liberista e aziendalista che ha ispirato la Buona Scuola (e insieme l'ha resa insopportabile, determinando il suo fallimento).
Denunciare la mancanza, che rinvia a una promessa non mantenuta, è inevitabile e giusto. Non può però diventare un pretesto per riabilitare chi ha portato la scuola italiana in questa penosa situazione, come ci propongono alcune voci interessate (voci dal piddì e dai suoi dintorni e cespugli).

I documenti che circolano nei nostri istituti risentono ancora del gergo della Buona Scuola. Accountability, policy, governance, stakeholder, aziendalismo scolastico oltre ogni misura, e perfino al di là del pudore e del senso dell'umorismo. Rendicontare. Dimostrare. Essere efficienti e produttivi. Parlare di insegnamento e apprendimento come se fossero oggetti in produzione, e fingere perfino che sia possibile misurarli, pesarli, calcolarli. Anzi pretenderlo. Certificare. Monitorare. Ottimizzare. Il sistema deve dare prova di affidabilità funzionando senza sprechi. A questa caricatura, a questa scimmiottatura di una fabbrica, viene ridotta la scuola quando la si pensa sotto il segno del Mercato, del produttivismo, dell'economicismo, del liberismo e del privato che si contrappone al pubblico come garanzia di efficienza.

Ovvio che una simile idea non sarebbe nemmeno proponibile senza una serie di pregiudizi di carattere culturale e politico. L'inevitabile prevalenza del privato sull'economia pubblica. L'idea che l'interesse collettivo debba passare attraverso il sacrificio dei ceti più deboli. La compressione dei diritti sociali vista come premessa per un benessere futuro e come garanzia di una maggiore competitività nel presente. La riduzione della politica nazionale all'accettazione di regole e vincoli internazionali imposti da organismi e interessi non controllati democraticamente. Questo è il clima che apre la strada alla Buona Scuola, alla sua concezione della formazione e del sapere. Un clima che non possiamo interamente attribuire a Renzi e ai suoi cattivi consiglieri e che rinvia a una lunga storia, quella di una sinistra che, orfana della sua prospettiva storica, si è completamente arresa alla finanza.
Sinistra sottomessa, o subalterna, o bancaria, o €uropea, o eurista, o filo-tedesca, chiamatela come volete, ma è facilmente riconoscibile nelle parole dei suoi personaggi:






Una sinistra subalterna che ha fatto dell'austerità la sua bandiera. La sinistra che pur di governare ha accettato, in nome dell'euro, il lavoro sporco che a nessuna destra era mai riuscito. 
La Buona Scuola doveva essere il coronamento di questo processo, il suo suggello dal punto di vista culturale, ridisegnando i ruoli (dirigenti, docenti, studenti) in adesione al modello neoliberista di formazione.
Per il momento è andata male, anzi molto male, oltre le previsioni più negative, ma il progetto non è stato completamente accantonato, e c'è chi pensa di poterlo prolungare per inerzia, lasciandolo galleggiare, sonnecchiando nell'ordinaria amministrazione, per poi riproporlo al momento buono in condizioni più favorevoli delle attuali.
Così ragionano dalle parti del piddì (e cespugli). Dovrebbero scorrere l'elenco dei danni e chiedere scusa, ma non lo faranno. O meglio lo faranno solo alla fine, quando non vedranno altra strada per salvarsi, e allora sarà tardi, e cominceranno a darsi la colpa reciprocamente come già si intuisce da qualche segnale.
Nel frattempo bisogna stare attenti a non cadere nelle trappole. Non riabilitare frettolosamente chi ha dato prova di grande incapacità e tenere bene a mente quello che si è sperimentato e imparato in questi anni: tra sinistra sottomessa e scuola italiana c'è piena incompatibilità.

giovedì 2 agosto 2018

Cravatte

Come ogni ministro Bussetti interviene, presenzia, esterna. Ma siamo solo agli inizi e la fisionomia del suo ministero non è ancora ben chiara. Qual è infatti la costante nella sua intensa attività ministeriale? Quasi impossibile dirlo. Non lo sappiamo ancora. E allora è ovvio che, in mancanza di una definita filosofia, l'attenzione cada sulla cravatta, anzi sulle cravatte (un repertorio vasto e articolato, coniugando eleganza e sobrietà). Prevalgono i blu e gli azzurri, in un tripudio di sete lombarde. Questa, per il momento, è l'unica tendenza sicuramente rilevabile. E niente patacche verdi da leghista della prima ora, avete notato? Del resto il governo, nelle intenzioni dei suoi promotori, dovrebbe essere gialloblu (blu Salvini), e non gialloverde (verde Bossi Padania), come è stato malignamente ribattezzato, con l'intenzione di nuocergli, dalla stampa dominante avversa, economicamente mainstream e politicamente corretta (i soloni del pensiero unico mondializzato).
Certo, sul piano strettamente scolastico, bisogna ammettere che, proprio in opposizione al pensiero unico degli ultimi due decenni €uropei, ci aspettavamo qualcosina in più. Per esempio:
Abrogazione della 107/15 (Buona Scuola) senza se e senza ma.
Fine dell'eteronomia scolastica e ritorno all'autonomia.
Fine della pedagogia del gambero e ricollocazione della scuola italiana nell'orizzonte costituzionale.
Chiusura dell'Invalsi e ritorno alla valutazione formativa affidata alle istituzioni scolastiche autonome e agli insegnanti.

Fino ad oggi si è vista soltanto la soppressione della chiamata diretta, che però, a ben guardare, sembrava già boccheggiante e agonizzante da sé, avviata verso sicura morte naturale.

Insomma, in assenza di vere novità, cerchiamo di sondare il futuro sulla base dei primi e pochi indizi che abbiamo: cravatte. E che nessuno dica che si tratta di un approccio superficiale e metodologicamente fatuo. Non credo a chi pensa che dietro le apparenze si nasconda sempre un inganno. Vero è invece che in molti casi, soprattutto in politica, è l'abito che fa il monaco. Non trascuriamo dunque il repertorio Bussetti. Le cravatte contano, raccontano e promettono...


venerdì 27 luglio 2018

Ancora a proposito di InFalsi

Chiunque, abituato alle comunicazioni dell'Invalsi, tra un questionario e l'altro, tra rilevazioni, test e monitoraggi, non faccia ormai quasi più caso all'insostenibilità di affermazioni come "misurare le competenze di base", assuefatto al gergo pseudo-pedagogico con cui l'ente giustifica le sue inattendibili prove, può disintossicarsi con questo intervento di Giorgio Israel:


Avverto che non si tratta di un intervento facile. Dura poco meno di mezz'ora, ma richiede un certo sforzo di concentrazione anche da parte di un pubblico di docenti, a cui è dedicato. Fino ad oggi ha avuto solo 4.000 visualizzazioni, ma ne meriterebbe molte di più. Cerchiamo di alzare il numero.
Gli insegnanti che mettono in dubbio l'asserita, presunta oggettività dei test, soprattutto quando insegnano materie letterarie, vengono in genere messi a tacere attraverso il rinvio a principi di calcolo matematico di cui non sarebbero in grado di capire la scientificità e lo spessore teorico. Qui Israel, che è un matematico (anzi purtroppo era, perché è scomparso nel 2015), mostra invece che proprio attraverso una rigorosa conoscenza della disciplina si comprende come i modelli adottati dall'Invalsi si sovrappongano ai fenomeni che credono di misurare, ritrovandovi alla fine solo quello che vi hanno già messo in partenza, con una scelta che non può definirsi altrimenti che ideologica e autoreferenziale.
Più che il titolo di esperti in valutazione, i membri della chiusa cerchia Invalsi possono essere definiti, come ha fatto Benedetto Vertecchi in una sua intervista, "apprendisti stregoni che pensano che una questione così complessa si risolva distribuendo una certa quantità di test".

venerdì 20 luglio 2018

L'educazione €uropea


Comenius, Erasmus, Leonardo... le parole magiche delle scuole europee. Progetti che hanno diffuso, e propagandato con tecniche pubblicitarie e immagini non molto diverse da quelle impiegate dalle agenzie di viaggi, il senso positivo di un'Europa vista come luogo di pace, di progresso, di benessere e di cooperazione tra i popoli. Si è parlato così di una generazione Erasmus, rappresentata da giovani intraprendenti e solidali, conoscitori delle lingue e proiettati verso un futuro di grandi opportunità e di libertà. Correvano felici verso gli Stati Uniti d'Europa, accompagnati dalla pubblicità e dalle competenze chiave per la cittadinanza europea, talmente fiduciosi (e inconsapevoli) che alla fine sono inciampati.
Tutto questo dal 2011 non c'è più, nonostante i molti sforzi compiuti, anche da parte del Miur (e dell'Invalsi), per renderlo ancora credibile. Tutto questo, dopo la crisi dei debiti sovrani e il trattamento barbaro riservato alla Grecia, non incanta più. Infatti è diventato chiaro a molti che cooperazione, solidarietà e integrazione stavano solo nei depliant Erasmus, ma non nelle regole dell'eurozona.
L'€uropa, quella col simbolo dell'euro, l'unica che conta, perché è solo il denaro che veramente la determina e la spiega, si basa invece su altri valori:
- La competizione, tra lavoratori e tra stati, prima di tutto, e non soltanto in economia ma anche nella scuola (vedi strategia di Lisbona) e nella formazione.
- Il divieto di solidarietà dell'Unione verso i paesi in crisi.
- Le sanzioni contro gli aiuti, verso gli stati che, disobbedendo al principio cardine della competitività e della concorrenza, eventualmente soccorrano chi si trova in difficoltà (cittadini o imprese).
- L'impegno a difendere, prima di ogni altra cosa, il valore della moneta e la stabilità dei prezzi, e dunque prima del lavoro, dei diritti sociali, dell'esigenza costituzionale di non creare disoccupati o sotto-occupati.
Questa è la verità di un'Europa che ormai anche a scuola appare senza veli, e senza orpelli Comenius o Erasmus, come scrive Eurino Informino (soggetto collettivo per l'educazione alla cittadinanza italiana) nel primo post del blog.

Il professore di Europa
Finché l'Europa è stata solo quella dei Comenius e degli Erasmus, gli europeisti hanno avuto vita facile. I giornali e i partiti erano pieni di professori di Europa, senza veri avversari. Uno in particolare è stato per noi importantissimo.
Quest'uomo, per gli euristi, è ancora un sant'uomo. Competente, prudente, misurato, autorevole, internazionale: un modello che la pedagogia europeista propone ai giovani. Eppure, soprattutto negli ultimi anni di crisi, non appena ne incontra uno non perde occasione per lanciare un messaggio completamente diseducativo.


Un messaggio, per essere educativo, non deve partire da informazioni false o incomplete. Non si può infatti educare disinformando. E bisogna ammettere che, da questo punto di vista, Romano Prodi avrebbe tutte le carte in regola per essere un ottimo insegnante. Sa comunicare con chiarezza, dispone di esperienze straordinarie, conosce l'Europa in profondità ed è prodigo di notizie, di aneddoti, di ricordi sempre veri e significativi, che ne fanno un testimone d'eccezione. Perciò, ascoltandolo, è facile entrare nella logica che ha portato alla creazione dell'euro, procurandosi gli strumenti necessari a comprendere come questa temeraria moneta, tossica per l'Italia ma non per la Germania, sia stata per noi una colossale fregatura.
Dal punto di vista informativo Prodi è prezioso. I suoi racconti sono sempre interessanti e altamente istruttivi. Ma per educare non basta istruire. Occorre anche orientare, motivare, dare una prospettiva coerente e uno sbocco verso il futuro. E tutto ciò, purtroppo, in lui manca. E manca a lui perché manca all'Europa e all'euro.
Prodi è istruttivo, eppure completamente diseducativo. Tanto che è proprio un'analisi del suo europeismo a dimostrarci, prima e meglio dell'antieuropeismo dei populisti, come l'euro non abbia forza, nerbo, cultura, e come sia destinato, attraverso la sua lacerante e irreversibile crisi, a dividere le nazioni che dovrebbe unire.

Sulla Grecia il professore non convince
Siamo nel 2011. Una giovane greca "molto preoccupata" ricorda il dramma del suo paese. A proposito del futuro incerto della moneta unica, interroga Prodi, che si dichiara ottimista, e "abbastanza sicuro di un esito non disastroso": possiamo insomma stare tranquilli, l'euro non finirà. E perché mai? Perché a impedire la sua fine sarà la stessa Germania, che grazie all'euro sta realizzando un formidabile surplus commerciale con l'estero (quasi 200 miliardi all'anno). Avrebbe voluto farlo anche in passato, ai tempi del marco, ma non le riusciva. Gli altri stati europei, infatti, potevano ancora difendersi attraverso la flessibilità del cambio, recuperando così competitività e resistendo all'aggressività mercantilista germanica attraverso la svalutazione della lira, del franco, della peseta. Oggi questo non è più possibile e i tedeschi spadroneggiano. Il loro surplus è determinato dal deficit degli altri paesi. I loro crediti sono i nostri debiti. E da creditori, dall'alto, possono anche permettersi di trattare come terroni i debitori del sud, a cominciare dai greci. Troppo bello!
Che bella cosa è l'euro per i tedeschi! Per quelli coi soldi, si capisce, perché l'operaio di Lipsia (soprattutto se interinale) la pensa forse in un altro modo. Comunque, al netto di chi lavora in linea per € 8 lordi all'ora, grazie alla moneta unica sono diventati il paese più forte e più potente d'Europa (e a nostre spese). L'euro dunque non finirà, ci racconta Prodi tutto contento, sorridente e compiaciuto, perché ai tedeschi (a certi tedeschi) conviene troppo. "La vera Cina è la Germania" ci insegna, e la comunità dei suoi affaristi vuole ovviamente che questo paradiso mercantilista continui, insieme alla nostra sottomissione, tanto conveniente e redditizia (per loro).
Alla giovane greca viene anche spiegato che il bilancio della California non è migliore di quello della Grecia. Cambia però l'atteggiamento politico verso i debitori. I californiani sono nella rete di protezione degli Stati Uniti, i greci sotto il giogo delle banche tedesche. Ecco la differenza.
E questo sarebbe un argomento pro euro e prospetterebbe "un esito non disastroso"? Secondo Prodi sembrerebbe di sì, "ragionando sui fatti". Ma si tratta di fatti contrari alla pace e alla cooperazione tra gli europei e il ragionamento è completamente diseducativo, soprattutto se viene non da un tedesco ma da un italiano che parla a una greca.
Da ascoltare con estrema attenzione. Badando, in particolare, alla contraddizione tra l'inaccettabile significato politico di quel che viene detto e il compiacimento che accompagna l'istruttiva spiegazione della perversa dinamica eurista:


Il messaggio è radicalmente diseducativo
Arriva il 2013 e non ci sono grandi novità. Continua la marcia trionfale del surplus commerciale tedesco. Adesso è a 240 miliardi, ci fa sapere Prodi, sorpreso e ammirato. E insieme al surplus della grande Germania, com'è inevitabile, crescono i debiti e le difficoltà degli altri paesi. Che fare? Francia, Italia e Spagna dovrebbero unirsi (della Grecia, ormai, ci siamo dimenticati). Un'alleanza per chiedere aiuto, naturalmente ai tedeschi, che, trattandoci come terroni e mendicanti, sembrano sordi per il momento alle preghiere. Per convincerli la strategia migliore è tirare la cinghia. Ecco dunque la prospettiva che Prodi offre ai giovani: altri 15-20 anni di "seria politica della formica", cioè di sacrifici e di ristrettezze ("lacrime e sangue" come al solito, alla Padoa Schioppa), per invogliare la Germania a considerarci tedeschi di serie B.
Si tratta di una strategia suicida, ma anche umiliante e vergognosa, e perciò completamente diseducativa. Francia, Italia e Spagna dovrebbero allearsi, in sostanza, per strappare condizioni migliori nella resa all'imperialismo mercantilista di Berlino. Una proposta da meditare a fondo:


E gli allievi, alla fine, giustamente scaricano il professor €uro
Nel 2017, finalmente, ai giovani che ascoltano Prodi viene voglia di ribellarsi. Una studentessa gli ricorda i risultati dei suoi due governi di centrosinistra. Aumento della precarietà, dell'insicurezza, della povertà. Disoccupazione, perdita dei diritti, flessibilità, salari da fame. Insomma la "seria politica della formica" tanto cara agli affaristi tedeschi. Non sarebbe il caso di chiedere scusa e di dichiarare finalmente il fallimento delle politiche neoliberiste?
Prodi continua invece a difendere l'euro e l'Europa. Usa anche il noto argomento xenofobo del pericolo giallo: i paesi europei devono restare uniti per difendersi dal colosso cinese, che cerca di imporre le sue regole al mondo. Ma non era la Germania, a ben guardare, la vera Cina? Il messaggio è incoerente, oltre che diseducativo:


Questo è un Prodi troppo germanocentrico. A chi crede che debba ancora esistere un'educazione alla cittadinanza italiana propongo di mostrare e commentare in classe questi istruttivi filmati...
Mettete a frutto la LIM che avete in aula, e se vi hanno raccontato che i soldi che sono serviti ad acquistarla (progetto PON) vengono dall'Europa, non credeteci. Non è vero, approfondite, vengono dall'Italia. Anche qui quello che abbiamo dato è molto più di quello che abbiamo ricevuto. Ma di questo aspetto della delicata questione parleremo un'altra volta...

giovedì 19 luglio 2018

Atto di indirizzo con autogol

Anche quest'anno, insieme alle ferie, torna il portfolio. Ci hanno fatto sapere, però, che la documentazione da produrre sarà più semplice e "snella". Preparatevi al peggio quando sentite questo aggettivo. Infatti gli allegati non sono affatto diminuiti, e nella rosa dei preferiti spicca ancora l'Atto (atto di indirizzo al Collegio docenti per l’elaborazione del PTOF). L'Atto ci vuole. Il Sistema Nazionale lo richiede. Sembra indispensabile per la valutazione del dirigente. Conta almeno quanto la tesina alla maturità e le tavole di artistica e tecnica all'esame del primo ciclo. Chi aspira a una bella pagella non può quindi dimenticarlo a casa. Sì, pagella, come dice il neo-ministro, in sorridente continuità con chi lo ha preceduto.
La richiesta dell'Atto, giustificata da uno dei commi più controversi e mal scritti della legge 107, mi riporta in un tempo lontano, alle prime sperimentazioni dell'autonomia scolastica. Ma sono passati vent'anni... eppure il ricordo ha resistito.

Ricordando l'autonomia del tempo che fu...
Nel 1998 collaboravo a Milano, in via Dandolo, a uno sportello di consulenza e di documentazione sull'autonomia. Si incontravano presidi e docenti, in genere per avviare progetti finanziabili ex legge 440/97 (finanziamenti che oggi non ci sono più). Insieme ad altri colleghi rispondevo a quesiti sul tema (il Regolamento dell'autonomia scolastica ancora non esisteva e sarebbe stato approvato l'anno seguente). Le domande venivano da interlocutori già informati, non erano banali e rendevano questo lavoro piuttosto interessante, e talvolta gratificante.
Un giorno, però, un vecchio e pittoresco preside, che qualcuno (crudelmente) aveva ribattezzato Capoccia, si è presentato per assillarci con un problema a suo dire davvero inquietante: con quale atto, legittimo e inattaccabile, il dirigente avrebbe potuto ordinare al collegio dei docenti di scrivere il POF, o di riscriverlo se non fosse venuto bene, mettendo in riga gli eventuali docenti contestatori? Con una semplice circolare? Troppo poco. Un incarico cumulativo? Proprio no. Una determina dirigenziale? Non è il caso. Un ordine di servizio? Meno che mai. Un appello, o esortazione, o richiamo? Improbabile. Magari un decreto? Impugnabile. Meglio una direttiva, allora? Forse sì, forse no. Morale: non esisteva un atto appropriato che il preside potesse autorevolmente invocare a tutela della scrittura del POF. E quando manca l'Atto, l'Atto consacrato dalla Legge, l'Atto con la A imperativamente maiuscola, il "vulnus" è insanabile, secondo la cultura dell'adempimento e di quel mondo di scartafacci da cui Capoccia proveniva. Delle due l'una, concludeva, o il nodo sarà sciolto o l'autonomia scolastica non funzionerà.
Non ricordo che cosa ho risposto quella volta a Capoccia, ma penso che alla fine qualcuno gli abbia detto che l'autonomia stava appunto nascendo per cancellare questo genere di problemi. Lascia perdere, Capoccia, l'Atto non serve, meglio invece cambiare la testa prima della legge.

Il ritorno del preside Capoccia
Ho ripensato al lontano episodio tempo fa, quando, nell'elenco dei documenti da allegare al portfolio del dirigente di cui alla Buona Scuola, ho letto, in prima posizione: "Atto di indirizzo al Collegio docenti per l’elaborazione del PTOF". Ho riflettuto su questa circostanza. Ma è tornato Capoccia? Lo hanno messo a coordinare il Sistema Nazionale di Valutazione adesso? Ma non era andato in pensione 16 anni fa?
Va sottolineato che, dal punto di vista dell'autonomia scolastica, oggi come ai tempi di Capoccia, un simile Atto è un non senso, che dimostra di per sé, per il solo fatto di esistere, una mancata comprensione del problema (e del tema: la direzione della scuola quale organizzazione complessa e impresa collettiva). E questo dirò nell'allegato al portfolio, un tentativo di resistenza attiva alla pedagogia del gambero. Riprenderò una mia comunicazione dell'anno scorso agli organi collegiali, scritta a partire da una presa di posizione di De Mauro, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche (forse proprio l'ultima). Chi vuole trova tutto in questa pagina introduttiva del blog, dedicata al ruolo del dirigente.
Ora, però, si tratta di spiegare in modo più sintetico e diretto perché cadere nella trappola dell'Atto rappresenta per il preside un vero autogol.

Un autogol alla moviola
Dal punto di vista dell'autonomia scolastica un dirigente che emana l'Atto, che definisce e comunica gli indirizzi del piano formativo prima di convocare gli organi collegiali, è un masochista, vuole fare autogol. Questa intenzione, oltre che pericolosa, è immotivata se si considera che il consiglio di istituto e il collegio dei docenti, ciascuno per la sua parte, sono competenti in materia, in senso tecnico e giuridico. Tanto che, in caso di conflitto, per giurisprudenza consolidata è il preside a soccombere. Il diritto che vige nei nostri istituti funziona ancora così, e la legge 107, pur pasticciando sul punto, non è riuscita a demolire il principio della collegialità, che continua a costituire la base della democrazia nelle scuole. Chi ha qualche dubbio si legga la pagina consigliata.
Ma anche se ciò non fosse vero, se anche fosse consentito dalla legge, a un incauto dirigente, di stabilire in modo unilaterale la linea del proprio istituto, a chi gioverebbe questa novità? Chi se ne avvantaggerebbe? Chi ne uscirebbe indebolito?
Una simile azione, rivista al rallentatore sul campo dell'autonomia scolastica (alla moviola), porta a un autogol del preside, e a una perdita della sua influenza a vantaggio degli apparati (amministrativi e sindacali). Va perciò valutata e analizzata nelle sue conseguenze con molta attenzione.
Il senso dell'autonomia si esprime soprattutto nella definizione di un piano formativo di istituto. Il piano non consiste nell'applicazione di una serie di regole, come una decisione tecnica, ma nasce dall'incontro di una pluralità di esigenze e di soggetti, come un percorso di crescita civile e democratica. In questa prospettiva il dirigente diventa un "facilitatore di processo", così si diceva una volta: un animatore di gruppi di ricerca, un costruttore di consenso, un mediatore di conflitti, e insomma il leader educativo e democratico capace di far nascere un progetto di scuola, in cui si riconoscono una comunità e un territorio. Dopo di che, una volta che la linea abbia preso forma nelle deliberazioni degli organi collegiali, il preside ne garantirà l'attuazione con autonomi poteri di coordinamento e di direzione, ma durante e dopo il processo, e non prima, con un atto unilaterale.
Se l'operazione ha successo deve apparire, all'interno e all'esterno dell'istituzione, che gli indirizzi del piano formativo non sono la linea del dirigente, ma della scuola, impresa collettiva. Uso il termine "impresa" non in senso aziendalista ma nel significato che gli ha attribuito Piero Romei, come viene spiegato qui.
Da questa legittimazione collettiva deriva l'influenza del preside, e, se vogliamo, il suo effettivo "potere": l'autorevolezza di chi, costruito il consenso, parla e agisce a nome di un organismo statale autonomo, per conto di famiglie, studenti, docenti, personale scolastico. Grazie alla convergenza di queste componenti il suo peso politico, la sua forza contrattuale e il suo ruolo sociale possono essere incisivi. 
Se tutto ciò viene meno, se nel progetto di istituto c'è solo la volontà del preside (l'Atto), o un mero sapere tecnico veicolato dall'amministrazione, la sua funzione perde quasi tutto il suo valore. Non resta che l'appartenenza a un apparato. Diremo allora che il dirigente è un tecnocrate che rappresenta bene se stesso, quando è bravo, oppure che è un passacarte oppresso dai regolamenti e dalla burocrazia, quando è meno bravo, ma in un caso e nell'altro sarà figura di apparato.
Anzi di apparati, perché alla fine saranno il Miur e i sindacati, contrattando, a decidere per lui.

Perché questa insistenza sull'Atto?
Eppure, nonostante l'Atto non giovi al prestigio e all'autorevolezza del dirigente, il Sistema Nazionale di Valutazione si ostina a richiederlo. Ha promesso di semplificare e di alleggerire tanta inutile documentazione, ma l'Atto no, l'Atto deve rimanere. Come Capoccia, ci tengono proprio. E perché mai?
La risposta, secondo me, non riguarda la pedagogia, né la teoria delle organizzazioni complesse. Mi sembra invece che il problema sia il solito: il contenimento della spesa pubblica. E d'altra parte, da vent'anni, questo è il solo, vero punto all'ordine del giorno del Miur, e per completezza anche degli altri ministeri, raccolti nel dicastero unico dell'euro-miseria e austerità: come tagliare, dove tagliare, perché è bello tagliare, e come si fa a dimostrare che è progressista e innovativo tagliare, e come dire che non si è tagliato abbastanza per potere domani di nuovo tagliare...
Posta la tagliente premessa, voglio farvi un piccolo test (metodologia InFalsi).
Immaginate di essere a capo di un paese che, a seguito di un ambizioso ma incauto accordo internazionale, ha agganciato la propria economia del Sud ad altre più competitive e aggressive del Nord, e ha accettato, addirittura, di adottare la loro moneta, credendo, sulla base di un ragionamento temerario, di guadagnarci. Ma ormai è chiaro, non si guadagna alcunché, anzi si paga, perché a guadagnarci sono solo loro, quelli del Nord (e d'altra parte mai avrebbero accettato l'accordo, da una posizione di forza, se non fossero stati sicuri, fin dall'inizio, che sarebbe andata così). Credevate di essere molto furbi ma la storia ha dimostrato che non lo siete affatto. Potreste arrendervi e dichiarare il vero ("scusate tanto se abbiamo fatto l'ennesima cazzata per somigliare ai tedeschi"), ma avete paura a confessarlo e magari temete che qualcuno (un populista?) vi appenda a testa in giù in una piazza (e non è una semplice ipotesi, è già successo). Come cavarsela?
Un tempo, per recuperare competitività di fronte ai disciplinati lavoratori teutonici pronti a qualsiasi sacrificio, si poteva svalutare la moneta. Ma da quando la moneta è comune (o meglio da quando noi abbiamo adottato incautamente la loro, e dobbiamo farcela imprestare a caro prezzo) non si può più. Non resta che svalutare il lavoro, gli stipendi e le pensioni, e ridurre i servizi, la sanità e la scuola, le spese dello stato e gli investimenti per i progetti, e dunque anche il PTOF.
E veniamo adesso alla domanda del test. Dovendo tagliare il PTOF, chi preferireste avere di fronte, come controparte?
a) Un dirigente che parla a nome di un territorio, in riferimento a indirizzi condivisi, seguiti da mille famiglie, da 150 insegnanti, dagli studenti, da un'amministrazione comunale e da svariate associazioni.
b) Un tecnico che rappresenta principalmente se stesso, e che risponde della propria linea svincolato dall'ambiente in cui lavora, ma supportato e valutato da voi, sulla base di obiettivi e di procedure di cui avete il pieno controllo.
Barrare la casella che interessa. Ma, è evidente, si tratta di una domanda retorica, che già contiene la risposta.

Considerazione conclusiva (triste)
Chi ricorda le ragioni dell'autonomia non può cadere nella trappola dell'Atto, che conduce a un autogol.
Ciò suggerisce però una conclusione ben triste, in quanto il puro e semplice funzionamento dell'autonomia scolastica, in applicazione di alcune vecchie leggi e di un regolamento ancora vigente nonostante tutto, è diventato oggi un'azione di resistenza attiva alla pedagogia del gambero. Vent'anni fa, invece, chi illustrava queste posizioni in via Dandolo (sede del Nucleo provinciale di Milano per l'autonomia) veniva visto come un ortodosso funzionario dello Stato, un po' noioso e forse troppo fedele all'ufficio che gli assicurava il pane. Ah, come cambia il mondo, procedendo a grandi passi (all'indietro). Chi lo avrebbe mai detto nel 1998?
Ma non dimentichiamo che allora l'Italia riusciva ancora a crescere, non valevano le attuali regole di bilancio (o sbilancio) europee, e non c'era l'euro. Vivendo in un paese autonomo sembrava normale parlare di autonomia. Anche se, bisogna riconoscerlo, l'aggancio del 1997 della lira all'ECU, cioè al marco travestito, che per noi rappresentava una dolorosa rivalutazione della moneta e per i tedeschi una comoda svalutazione pro export futuro, cominciava già a darci qualche problema. Noi, però, facendo consulenza in via Dandolo, parlando quasi esclusivamente di scuola e non avendo letto né Stiglitz né De Grauwe, non ce ne accorgevamo, usi ad "ardere d'inconsapevolezza nelle distese pianure", almeno dal punto di vista macroeconomico, come Ungaretti prima della Grande Guerra.