venerdì 27 luglio 2018

Ancora a proposito di InFalsi

Chiunque, abituato alle comunicazioni dell'Invalsi, tra un questionario e l'altro, tra rilevazioni, test e monitoraggi, non faccia ormai quasi più caso all'insostenibilità di affermazioni come "misurare le competenze di base", assuefatto al gergo pseudo-pedagogico con cui l'ente giustifica le sue inattendibili prove, può disintossicarsi con questo intervento di Giorgio Israel:


Avverto che non si tratta di un intervento facile. Dura poco meno di mezz'ora, ma richiede un certo sforzo di concentrazione anche da parte di un pubblico di docenti, a cui è dedicato. Fino ad oggi ha avuto solo 4.000 visualizzazioni, ma ne meriterebbe molte di più. Cerchiamo di alzare il numero.
Gli insegnanti che mettono in dubbio l'asserita, presunta oggettività dei test, soprattutto quando insegnano materie letterarie, vengono in genere messi a tacere attraverso il rinvio a principi di calcolo matematico di cui non sarebbero in grado di capire la scientificità e lo spessore teorico. Qui Israel, che è un matematico (anzi purtroppo era, perché è scomparso nel 2015), mostra invece che proprio attraverso una rigorosa conoscenza della disciplina si comprende come i modelli adottati dall'Invalsi si sovrappongano ai fenomeni che credono di misurare, ritrovandovi alla fine solo quello che vi hanno già messo in partenza, con una scelta che non può definirsi altrimenti che ideologica e autoreferenziale.
Più che il titolo di esperti in valutazione, i membri della chiusa cerchia Invalsi possono essere definiti, come ha fatto Benedetto Vertecchi in una sua intervista, "apprendisti stregoni che pensano che una questione così complessa si risolva distribuendo una certa quantità di test".

venerdì 20 luglio 2018

L'educazione €uropea


Comenius, Erasmus, Leonardo... le parole magiche delle scuole europee. Progetti che hanno diffuso, e propagandato con tecniche pubblicitarie e immagini non molto diverse da quelle impiegate dalle agenzie di viaggi, il senso positivo di un'Europa vista come luogo di pace, di progresso, di benessere e di cooperazione tra i popoli. Si è parlato così di una generazione Erasmus, rappresentata da giovani intraprendenti e solidali, conoscitori delle lingue e proiettati verso un futuro di grandi opportunità e di libertà. Correvano felici verso gli Stati Uniti d'Europa, accompagnati dalla pubblicità e dalle competenze chiave per la cittadinanza europea, talmente fiduciosi (e inconsapevoli) che alla fine sono inciampati.
Tutto questo dal 2011 non c'è più, nonostante i molti sforzi compiuti, anche da parte del Miur (e dell'Invalsi), per renderlo ancora credibile. Tutto questo, dopo la crisi dei debiti sovrani e il trattamento barbaro riservato alla Grecia, non incanta più. Infatti è diventato chiaro a molti che cooperazione, solidarietà e integrazione stavano solo nei depliant Erasmus, ma non nelle regole dell'eurozona.
L'€uropa, quella col simbolo dell'euro, l'unica che conta, perché è solo il denaro che veramente la determina e la spiega, si basa invece su altri valori:
- La competizione, tra lavoratori e tra stati, prima di tutto, e non soltanto in economia ma anche nella scuola (vedi strategia di Lisbona) e nella formazione.
- Il divieto di solidarietà dell'Unione verso i paesi in crisi.
- Le sanzioni contro gli aiuti, verso gli stati che, disobbedendo al principio cardine della competitività e della concorrenza, eventualmente soccorrano chi si trova in difficoltà (cittadini o imprese).
- L'impegno a difendere, prima di ogni altra cosa, il valore della moneta e la stabilità dei prezzi, e dunque prima del lavoro, dei diritti sociali, dell'esigenza costituzionale di non creare disoccupati o sotto-occupati.
Questa è la verità di un'Europa che ormai anche a scuola appare senza veli, e senza orpelli Comenius o Erasmus, come scrive Eurino Informino (soggetto collettivo per l'educazione alla cittadinanza italiana) nel primo post del blog.

Il professore di Europa
Finché l'Europa è stata solo quella dei Comenius e degli Erasmus, gli europeisti hanno avuto vita facile. I giornali e i partiti erano pieni di professori di Europa, senza veri avversari. Uno in particolare è stato per noi importantissimo.
Quest'uomo, per gli euristi, è ancora un sant'uomo. Competente, prudente, misurato, autorevole, internazionale: un modello che la pedagogia europeista propone ai giovani. Eppure, soprattutto negli ultimi anni di crisi, non appena ne incontra uno non perde occasione per lanciare un messaggio completamente diseducativo.


Un messaggio, per essere educativo, non deve partire da informazioni false o incomplete. Non si può infatti educare disinformando. E bisogna ammettere che, da questo punto di vista, Romano Prodi avrebbe tutte le carte in regola per essere un ottimo insegnante. Sa comunicare con chiarezza, dispone di esperienze straordinarie, conosce l'Europa in profondità ed è prodigo di notizie, di aneddoti, di ricordi sempre veri e significativi, che ne fanno un testimone d'eccezione. Perciò, ascoltandolo, è facile entrare nella logica che ha portato alla creazione dell'euro, procurandosi gli strumenti necessari a comprendere come questa temeraria moneta, tossica per l'Italia ma non per la Germania, sia stata per noi una colossale fregatura.
Dal punto di vista informativo Prodi è prezioso. I suoi racconti sono sempre interessanti e altamente istruttivi. Ma per educare non basta istruire. Occorre anche orientare, motivare, dare una prospettiva coerente e uno sbocco verso il futuro. E tutto ciò, purtroppo, in lui manca. E manca a lui perché manca all'Europa e all'euro.
Prodi è istruttivo, eppure completamente diseducativo. Tanto che è proprio un'analisi del suo europeismo a dimostrarci, prima e meglio dell'antieuropeismo dei populisti, come l'euro non abbia forza, nerbo, cultura, e come sia destinato, attraverso la sua lacerante e irreversibile crisi, a dividere le nazioni che dovrebbe unire.

Sulla Grecia il professore non convince
Siamo nel 2011. Una giovane greca "molto preoccupata" ricorda il dramma del suo paese. A proposito del futuro incerto della moneta unica, interroga Prodi, che si dichiara ottimista, e "abbastanza sicuro di un esito non disastroso": possiamo insomma stare tranquilli, l'euro non finirà. E perché mai? Perché a impedire la sua fine sarà la stessa Germania, che grazie all'euro sta realizzando un formidabile surplus commerciale con l'estero (quasi 200 miliardi all'anno). Avrebbe voluto farlo anche in passato, ai tempi del marco, ma non le riusciva. Gli altri stati europei, infatti, potevano ancora difendersi attraverso la flessibilità del cambio, recuperando così competitività e resistendo all'aggressività mercantilista germanica attraverso la svalutazione della lira, del franco, della peseta. Oggi questo non è più possibile e i tedeschi spadroneggiano. Il loro surplus è determinato dal deficit degli altri paesi. I loro crediti sono i nostri debiti. E da creditori, dall'alto, possono anche permettersi di trattare come terroni i debitori del sud, a cominciare dai greci. Troppo bello!
Che bella cosa è l'euro per i tedeschi! Per quelli coi soldi, si capisce, perché l'operaio di Lipsia (soprattutto se interinale) la pensa forse in un altro modo. Comunque, al netto di chi lavora in linea per € 8 lordi all'ora, grazie alla moneta unica sono diventati il paese più forte e più potente d'Europa (e a nostre spese). L'euro dunque non finirà, ci racconta Prodi tutto contento, sorridente e compiaciuto, perché ai tedeschi (a certi tedeschi) conviene troppo. "La vera Cina è la Germania" ci insegna, e la comunità dei suoi affaristi vuole ovviamente che questo paradiso mercantilista continui, insieme alla nostra sottomissione, tanto conveniente e redditizia (per loro).
Alla giovane greca viene anche spiegato che il bilancio della California non è migliore di quello della Grecia. Cambia però l'atteggiamento politico verso i debitori. I californiani sono nella rete di protezione degli Stati Uniti, i greci sotto il giogo delle banche tedesche. Ecco la differenza.
E questo sarebbe un argomento pro euro e prospetterebbe "un esito non disastroso"? Secondo Prodi sembrerebbe di sì, "ragionando sui fatti". Ma si tratta di fatti contrari alla pace e alla cooperazione tra gli europei e il ragionamento è completamente diseducativo, soprattutto se viene non da un tedesco ma da un italiano che parla a una greca.
Da ascoltare con estrema attenzione. Badando, in particolare, alla contraddizione tra l'inaccettabile significato politico di quel che viene detto e il compiacimento che accompagna l'istruttiva spiegazione della perversa dinamica eurista:


Il messaggio è radicalmente diseducativo
Arriva il 2013 e non ci sono grandi novità. Continua la marcia trionfale del surplus commerciale tedesco. Adesso è a 240 miliardi, ci fa sapere Prodi, sorpreso e ammirato. E insieme al surplus della grande Germania, com'è inevitabile, crescono i debiti e le difficoltà degli altri paesi. Che fare? Francia, Italia e Spagna dovrebbero unirsi (della Grecia, ormai, ci siamo dimenticati). Un'alleanza per chiedere aiuto, naturalmente ai tedeschi, che, trattandoci come terroni e mendicanti, sembrano sordi per il momento alle preghiere. Per convincerli la strategia migliore è tirare la cinghia. Ecco dunque la prospettiva che Prodi offre ai giovani: altri 15-20 anni di "seria politica della formica", cioè di sacrifici e di ristrettezze ("lacrime e sangue" come al solito, alla Padoa Schioppa), per invogliare la Germania a considerarci tedeschi di serie B.
Si tratta di una strategia suicida, ma anche umiliante e vergognosa, e perciò completamente diseducativa. Francia, Italia e Spagna dovrebbero allearsi, in sostanza, per strappare condizioni migliori nella resa all'imperialismo mercantilista di Berlino. Una proposta da meditare a fondo:


E gli allievi, alla fine, giustamente scaricano il professor €uro
Nel 2017, finalmente, ai giovani che ascoltano Prodi viene voglia di ribellarsi. Una studentessa gli ricorda i risultati dei suoi due governi di centrosinistra. Aumento della precarietà, dell'insicurezza, della povertà. Disoccupazione, perdita dei diritti, flessibilità, salari da fame. Insomma la "seria politica della formica" tanto cara agli affaristi tedeschi. Non sarebbe il caso di chiedere scusa e di dichiarare finalmente il fallimento delle politiche neoliberiste?
Prodi continua invece a difendere l'euro e l'Europa. Usa anche il noto argomento xenofobo del pericolo giallo: i paesi europei devono restare uniti per difendersi dal colosso cinese, che cerca di imporre le sue regole al mondo. Ma non era la Germania, a ben guardare, la vera Cina? Il messaggio è incoerente, oltre che diseducativo:


Questo è un Prodi troppo germanocentrico. A chi crede che debba ancora esistere un'educazione alla cittadinanza italiana propongo di mostrare e commentare in classe questi istruttivi filmati...
Mettete a frutto la LIM che avete in aula, e se vi hanno raccontato che i soldi che sono serviti ad acquistarla (progetto PON) vengono dall'Europa, non credeteci. Non è vero, approfondite, vengono dall'Italia. Anche qui quello che abbiamo dato è molto più di quello che abbiamo ricevuto. Ma di questo aspetto della delicata questione parleremo un'altra volta...

giovedì 19 luglio 2018

Atto di indirizzo con autogol

Anche quest'anno, insieme alle ferie, torna il portfolio. Ci hanno fatto sapere, però, che la documentazione da produrre sarà più semplice e "snella". Preparatevi al peggio quando sentite questo aggettivo. Infatti gli allegati non sono affatto diminuiti, e nella rosa dei preferiti spicca ancora l'Atto (atto di indirizzo al Collegio docenti per l’elaborazione del PTOF). L'Atto ci vuole. Il Sistema Nazionale lo richiede. Sembra indispensabile per la valutazione del dirigente. Conta almeno quanto la tesina alla maturità e le tavole di artistica e tecnica all'esame del primo ciclo. Chi aspira a una bella pagella non può quindi dimenticarlo a casa. Sì, pagella, come dice il neo-ministro, in sorridente continuità con chi lo ha preceduto.
La richiesta dell'Atto, giustificata da uno dei commi più controversi e mal scritti della legge 107, mi riporta in un tempo lontano, alle prime sperimentazioni dell'autonomia scolastica. Ma sono passati vent'anni... eppure il ricordo ha resistito.

Ricordando l'autonomia del tempo che fu...
Nel 1998 collaboravo a Milano, in via Dandolo, a uno sportello di consulenza e di documentazione sull'autonomia. Si incontravano presidi e docenti, in genere per avviare progetti finanziabili ex legge 440/97 (finanziamenti che oggi non ci sono più). Insieme ad altri colleghi rispondevo a quesiti sul tema (il Regolamento dell'autonomia scolastica ancora non esisteva e sarebbe stato approvato l'anno seguente). Le domande venivano da interlocutori già informati, non erano banali e rendevano questo lavoro piuttosto interessante, e talvolta gratificante.
Un giorno, però, un vecchio e pittoresco preside, che qualcuno (crudelmente) aveva ribattezzato Capoccia, si è presentato per assillarci con un problema a suo dire davvero inquietante: con quale atto, legittimo e inattaccabile, il dirigente avrebbe potuto ordinare al collegio dei docenti di scrivere il POF, o di riscriverlo se non fosse venuto bene, mettendo in riga gli eventuali docenti contestatori? Con una semplice circolare? Troppo poco. Un incarico cumulativo? Proprio no. Una determina dirigenziale? Non è il caso. Un ordine di servizio? Meno che mai. Un appello, o esortazione, o richiamo? Improbabile. Magari un decreto? Impugnabile. Meglio una direttiva, allora? Forse sì, forse no. Morale: non esisteva un atto appropriato che il preside potesse autorevolmente invocare a tutela della scrittura del POF. E quando manca l'Atto, l'Atto consacrato dalla Legge, l'Atto con la A imperativamente maiuscola, il "vulnus" è insanabile, secondo la cultura dell'adempimento e di quel mondo di scartafacci da cui Capoccia proveniva. Delle due l'una, concludeva, o il nodo sarà sciolto o l'autonomia scolastica non funzionerà.
Non ricordo che cosa ho risposto quella volta a Capoccia, ma penso che alla fine qualcuno gli abbia detto che l'autonomia stava appunto nascendo per cancellare questo genere di problemi. Lascia perdere, Capoccia, l'Atto non serve, meglio invece cambiare la testa prima della legge.

Il ritorno del preside Capoccia
Ho ripensato al lontano episodio tempo fa, quando, nell'elenco dei documenti da allegare al portfolio del dirigente di cui alla Buona Scuola, ho letto, in prima posizione: "Atto di indirizzo al Collegio docenti per l’elaborazione del PTOF". Ho riflettuto su questa circostanza. Ma è tornato Capoccia? Lo hanno messo a coordinare il Sistema Nazionale di Valutazione adesso? Ma non era andato in pensione 16 anni fa?
Va sottolineato che, dal punto di vista dell'autonomia scolastica, oggi come ai tempi di Capoccia, un simile Atto è un non senso, che dimostra di per sé, per il solo fatto di esistere, una mancata comprensione del problema (e del tema: la direzione della scuola quale organizzazione complessa e impresa collettiva). E questo dirò nell'allegato al portfolio, un tentativo di resistenza attiva alla pedagogia del gambero. Riprenderò una mia comunicazione dell'anno scorso agli organi collegiali, scritta a partire da una presa di posizione di De Mauro, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche (forse proprio l'ultima). Chi vuole trova tutto in questa pagina introduttiva del blog, dedicata al ruolo del dirigente.
Ora, però, si tratta di spiegare in modo più sintetico e diretto perché cadere nella trappola dell'Atto rappresenta per il preside un vero autogol.

Un autogol alla moviola
Dal punto di vista dell'autonomia scolastica un dirigente che emana l'Atto, che definisce e comunica gli indirizzi del piano formativo prima di convocare gli organi collegiali, è un masochista, vuole fare autogol. Questa intenzione, oltre che pericolosa, è immotivata se si considera che il consiglio di istituto e il collegio dei docenti, ciascuno per la sua parte, sono competenti in materia, in senso tecnico e giuridico. Tanto che, in caso di conflitto, per giurisprudenza consolidata è il preside a soccombere. Il diritto che vige nei nostri istituti funziona ancora così, e la legge 107, pur pasticciando sul punto, non è riuscita a demolire il principio della collegialità, che continua a costituire la base della democrazia nelle scuole. Chi ha qualche dubbio si legga la pagina consigliata.
Ma anche se ciò non fosse vero, se anche fosse consentito dalla legge, a un incauto dirigente, di stabilire in modo unilaterale la linea del proprio istituto, a chi gioverebbe questa novità? Chi se ne avvantaggerebbe? Chi ne uscirebbe indebolito?
Una simile azione, rivista al rallentatore sul campo dell'autonomia scolastica (alla moviola), porta a un autogol del preside, e a una perdita della sua influenza a vantaggio degli apparati (amministrativi e sindacali). Va perciò valutata e analizzata nelle sue conseguenze con molta attenzione.
Il senso dell'autonomia si esprime soprattutto nella definizione di un piano formativo di istituto. Il piano non consiste nell'applicazione di una serie di regole, come una decisione tecnica, ma nasce dall'incontro di una pluralità di esigenze e di soggetti, come un percorso di crescita civile e democratica. In questa prospettiva il dirigente diventa un "facilitatore di processo", così si diceva una volta: un animatore di gruppi di ricerca, un costruttore di consenso, un mediatore di conflitti, e insomma il leader educativo e democratico capace di far nascere un progetto di scuola, in cui si riconoscono una comunità e un territorio. Dopo di che, una volta che la linea abbia preso forma nelle deliberazioni degli organi collegiali, il preside ne garantirà l'attuazione con autonomi poteri di coordinamento e di direzione, ma durante e dopo il processo, e non prima, con un atto unilaterale.
Se l'operazione ha successo deve apparire, all'interno e all'esterno dell'istituzione, che gli indirizzi del piano formativo non sono la linea del dirigente, ma della scuola, impresa collettiva. Uso il termine "impresa" non in senso aziendalista ma nel significato che gli ha attribuito Piero Romei, come viene spiegato qui.
Da questa legittimazione collettiva deriva l'influenza del preside, e, se vogliamo, il suo effettivo "potere": l'autorevolezza di chi, costruito il consenso, parla e agisce a nome di un organismo statale autonomo, per conto di famiglie, studenti, docenti, personale scolastico. Grazie alla convergenza di queste componenti il suo peso politico, la sua forza contrattuale e il suo ruolo sociale possono essere incisivi. 
Se tutto ciò viene meno, se nel progetto di istituto c'è solo la volontà del preside (l'Atto), o un mero sapere tecnico veicolato dall'amministrazione, la sua funzione perde quasi tutto il suo valore. Non resta che l'appartenenza a un apparato. Diremo allora che il dirigente è un tecnocrate che rappresenta bene se stesso, quando è bravo, oppure che è un passacarte oppresso dai regolamenti e dalla burocrazia, quando è meno bravo, ma in un caso e nell'altro sarà figura di apparato.
Anzi di apparati, perché alla fine saranno il Miur e i sindacati, contrattando, a decidere per lui.

Perché questa insistenza sull'Atto?
Eppure, nonostante l'Atto non giovi al prestigio e all'autorevolezza del dirigente, il Sistema Nazionale di Valutazione si ostina a richiederlo. Ha promesso di semplificare e di alleggerire tanta inutile documentazione, ma l'Atto no, l'Atto deve rimanere. Come Capoccia, ci tengono proprio. E perché mai?
La risposta, secondo me, non riguarda la pedagogia, né la teoria delle organizzazioni complesse. Mi sembra invece che il problema sia il solito: il contenimento della spesa pubblica. E d'altra parte, da vent'anni, questo è il solo, vero punto all'ordine del giorno del Miur, e per completezza anche degli altri ministeri, raccolti nel dicastero unico dell'euro-miseria e austerità: come tagliare, dove tagliare, perché è bello tagliare, e come si fa a dimostrare che è progressista e innovativo tagliare, e come dire che non si è tagliato abbastanza per potere domani di nuovo tagliare...
Posta la tagliente premessa, voglio farvi un piccolo test (metodologia InFalsi).
Immaginate di essere a capo di un paese che, a seguito di un ambizioso ma incauto accordo internazionale, ha agganciato la propria economia del Sud ad altre più competitive e aggressive del Nord, e ha accettato, addirittura, di adottare la loro moneta, credendo, sulla base di un ragionamento temerario, di guadagnarci. Ma ormai è chiaro, non si guadagna alcunché, anzi si paga, perché a guadagnarci sono solo loro, quelli del Nord (e d'altra parte mai avrebbero accettato l'accordo, da una posizione di forza, se non fossero stati sicuri, fin dall'inizio, che sarebbe andata così). Credevate di essere molto furbi ma la storia ha dimostrato che non lo siete affatto. Potreste arrendervi e dichiarare il vero ("scusate tanto se abbiamo fatto l'ennesima cazzata per somigliare ai tedeschi"), ma avete paura a confessarlo e magari temete che qualcuno (un populista?) vi appenda a testa in giù in una piazza (e non è una semplice ipotesi, è già successo). Come cavarsela?
Un tempo, per recuperare competitività di fronte ai disciplinati lavoratori teutonici pronti a qualsiasi sacrificio, si poteva svalutare la moneta. Ma da quando la moneta è comune (o meglio da quando noi abbiamo adottato incautamente la loro, e dobbiamo farcela imprestare a caro prezzo) non si può più. Non resta che svalutare il lavoro, gli stipendi e le pensioni, e ridurre i servizi, la sanità e la scuola, le spese dello stato e gli investimenti per i progetti, e dunque anche il PTOF.
E veniamo adesso alla domanda del test. Dovendo tagliare il PTOF, chi preferireste avere di fronte, come controparte?
a) Un dirigente che parla a nome di un territorio, in riferimento a indirizzi condivisi, seguiti da mille famiglie, da 150 insegnanti, dagli studenti, da un'amministrazione comunale e da svariate associazioni.
b) Un tecnico che rappresenta principalmente se stesso, e che risponde della propria linea svincolato dall'ambiente in cui lavora, ma supportato e valutato da voi, sulla base di obiettivi e di procedure di cui avete il pieno controllo.
Barrare la casella che interessa. Ma, è evidente, si tratta di una domanda retorica, che già contiene la risposta.

Considerazione conclusiva (triste)
Chi ricorda le ragioni dell'autonomia non può cadere nella trappola dell'Atto, che conduce a un autogol.
Ciò suggerisce però una conclusione ben triste, in quanto il puro e semplice funzionamento dell'autonomia scolastica, in applicazione di alcune vecchie leggi e di un regolamento ancora vigente nonostante tutto, è diventato oggi un'azione di resistenza attiva alla pedagogia del gambero. Vent'anni fa, invece, chi illustrava queste posizioni in via Dandolo (sede del Nucleo provinciale di Milano per l'autonomia) veniva visto come un ortodosso funzionario dello Stato, un po' noioso e forse troppo fedele all'ufficio che gli assicurava il pane. Ah, come cambia il mondo, procedendo a grandi passi (all'indietro). Chi lo avrebbe mai detto nel 1998?
Ma non dimentichiamo che allora l'Italia riusciva ancora a crescere, non valevano le attuali regole di bilancio (o sbilancio) europee, e non c'era l'euro. Vivendo in un paese autonomo sembrava normale parlare di autonomia. Anche se, bisogna riconoscerlo, l'aggancio del 1997 della lira all'ECU, cioè al marco travestito, che per noi rappresentava una dolorosa rivalutazione della moneta e per i tedeschi una comoda svalutazione pro export futuro, cominciava già a darci qualche problema. Noi, però, facendo consulenza in via Dandolo, parlando quasi esclusivamente di scuola e non avendo letto né Stiglitz né De Grauwe, non ce ne accorgevamo, usi ad "ardere d'inconsapevolezza nelle distese pianure", almeno dal punto di vista macroeconomico, come Ungaretti prima della Grande Guerra.

giovedì 12 luglio 2018

Lasciamolo lavorare






Per fare un bilancio è troppo presto
Per fare delle promesse è troppo tardi
Per fare danni c'è sempre tempo...

martedì 10 luglio 2018

La fabbrica dei certificati falsi


Come l'Invalsi, tradendo il suo atto costitutivo, abbia causato l'invalsite, che è una vera e propria malattia della valutazione scolastica, lo abbiamo già visto qui. Sappiamo anche che, nonostante le promesse di abrogazione della Buona Scuola compiute dal nuovo governo, la malattia non regredisce e anzi si sta aggravando. Infatti, a partire dal 2 luglio 2018, a conclusione degli esami di stato del primo ciclo (una volta li chiamavamo esami di licenza media, e forse era meglio), sono in distribuzione nella nostra e in altre scuole, insieme agli attestati, le certificazioni delle competenze, comprensive di prove nazionali Invalsi, con indicazione dei livelli raggiunti in italiano, matematica e inglese.
Questa gigantesca e costosa operazione di eteronomia scolastica, che all'azione delle scuole autonome sovrappone l'intervento di un ente valutatore esterno, tralasciando la ricerca valutativa a vantaggio di una valutazione centralizzata che non serve a nulla (se non a farci pendere tempo ed energie impiegando inutilmente il personale), è destinata a fallire e a essere accantonata insieme alle altre pseudo-riforme mancate, a cui ormai siamo abituati. Ma prima di fallire farà in tempo a riempire l'Italia di certificazioni arbitrarie e inattendibili, dunque false.
In attesa che anche il Miur si accorga di quanto sta avvenendo, descrivo un semplice esperimento, che ciascuno potrà facilmente riprodurre nella propria scuola, senza incontrare particolari difficoltà o spese, in quanto a essere coinvolto è solo un campione ristretto di docenti, per un breve periodo. L'esperimento mostra quanto le certificazioni di italiano e di matematica prodotte dall'Invalsi siano false, mentre per l'inglese, che si richiama a una specifica metodologia e a un'altra struttura di test, il discorso sarebbe un po' diverso (l'inattendibilità è meno grave e manifesta), e pertanto, per evitare possibili confusioni, in questa sede preferisco tralasciarlo.

Per verificare l'attendibilità dei "livelli" di italiano e matematica rilevati attraverso le prove nazionali Invalsi (fine primo ciclo) ho convocato in presidenza tre docenti di italiano (A, B e C) e tre di matematica (D, E e F), in momenti separati, perché non potessero influenzarsi. I docenti non erano scelti a caso ma in base ad alcuni prerequisiti: possesso di conoscenze (acquisite in corsi di formazione) e/o di esperienze dirette circa le tecniche che si occupano dello studio dei sistemi di valutazione (docimologia), oppure, in subordine, partecipazione ai dipartimenti disciplinari della scuola incaricati di definire le prove comuni di istituto. Si tratta di insegnanti che nel corso dell'anno scolastico hanno assegnato agli allievi un'ampia, analitica gamma di prove, da quelle più tradizionali (ad esempio testi argomentativi o descrittivi analizzati attraverso rubriche valutative) ad altre più strutturate, mirate a rilevare separatamente aspetti specifici degli apprendimenti (competenze ortografiche, ampiezza lessicale, conoscenze grammaticali, comprensione di testi per gradi di difficoltà, attraverso l'ascolto e la lettura). A ciascuno di questi docenti ho chiesto di descrivere cinque propri allievi, sulla base delle verifiche e delle osservazioni operate in corso d'anno, prima di prendere visione dei profili già inviati dall'Invalsi e utilizzando autonomamente i descrittori di italiano e quelli di matematica, come già pubblicati sul sito dell'ente il 30/5/18. Non ho scelto i cinque allievi a caso, ma ho fatto in modo che ciascuno di essi provenisse da un diverso livello. Pertanto: cinque allievi per docente, in rappresentanza dei cinque livelli Invalsi previsti (1. elementare; 2. basso; 3. intermedio; 4. medio-alto; 5. alto).

Questa è la tabella su cui i docenti di italiano hanno lavorato, che ho costruito riportando i descrittori Invalsi della prova nazionale 2018, ordinati per criteri e per fasce di livello:

A scopo esemplificativo fornisco una sintesi delle valutazioni del docente A, compiute (lo ripeto) non in modo impressionistico, a partire da semplici percezioni o da ricordi, ma sulla base di un'ampia rosa di prove mirate, specifiche e documentate, riferite ai criteri richiamati dagli indicatori Invalsi:
  • Allievo/a A1 (livello certificato Invalsi "1 - elementare"): comprensione di base bassa; riconoscimento di elementi testuali basso; analisi del testo elementare; competenza lessicale bassa; analisi grammaticale elementare.
  • Allievo/a A2 (livello certificato Invalsi "2 - basso"): comprensione di base media; riconoscimento di elementi testuali basso; analisi del testo elementare; competenza lessicale elementare; analisi grammaticale bassa.
  • Allievo/a A3 (livello certificato Invalsi "3 - intermedio"): comprensione di base medio-alta; riconoscimento di elementi testuali medio; analisi del testo bassa; competenza lessicale media; analisi grammaticale bassa.
  • Allievo/a A4 (livello certificato Invalsi "4 - medio-alto"): comprensione di base alta; riconoscimento di elementi testuali medio-alto; analisi del testo media; competenza lessicale media; analisi grammaticale medio-alta.
  • Allievo/a A5 (livello certificato Invalsi "5 - alto"): comprensione di base alta; riconoscimento di elementi testuali medio-alto; analisi del testo alta; competenza lessicale medio-alta; analisi grammaticale alta.
Come si nota facilmente gli allievi non tendono a occupare lo stesso livello in tutti gli ambiti (o criteri) considerati, ma assumono profili variabili caratterizzati da punti di forza o di debolezza. La stessa tendenza emerge anche dalle rilevazioni operate dai docenti B e C. Il quadro complessivo degli allievi presi in esame (totale 15) è riportato nella successiva tabella:
Accade invece il contrario nella tabella seguente, relativa ai livelli attribuiti dalle prove nazionali Invalsi, dove gli allievi sono stati sempre descritti e certificati con indicatori collocati sulla medesima fascia per tutti gli ambiti considerati, prevedendo pertanto solo cinque profili, cinque linee continue su cinque diversi piani, a cui per scelta di metodo vengono ricondotte tutte le situazioni osservate:
Al termine della rilevazione ho riconvocato i tre docenti di lettere (questa volta tutti insieme) per discutere le due tabelle, interpretare l'accaduto e trarne le opportune conseguenze sul piano valutativo. Dalla riflessione comune è emerso quanto segue:
  • La valutazione operata con una pluralità di strumenti ha condotto gli insegnanti a raffigurare gli allievi attraverso profili non omogenei, rappresentabili con linee spezzate, che si muovono su diverse fasce di livello a seconda degli ambiti di volta in volta considerati e dei criteri adottati.
  • Al contrario il test Invalsi appiattisce gli allievi su cinque fisionomie standard, rappresentate da linee continue tracciate su un solo piano: chi è basso è sempre in basso, i medi sono invariabilmente medi, gli alti sono alti in tutto.
  • La certificazione prodotta dall'Invalsi non si lega pertanto alla concreta e vivente esperienza dell'insegnamento e dell'apprendimento, dove spesso si incontrano allievi abili nella comprensione e nell'elaborazione dei testi ma non altrettanto nella riflessione sulla lingua (vedi ad esempio profilo A3 nella tabella predisposta dai docenti di italiano), oppure, al contrario, allievi che superano le prove di grammatica ma non quelle di comprensione e di analisi testuale (vedi B2 nella stessa tabella). Il test nazionale, per scelta di metodo, nega l'esistenza di questi casi (il cui riconoscimento costituisce invece il prerequisito della competenza didattica), riconducendo le disomogeneità, interne all'apprendere, a tipologie standard comunque omogenee.
  • Nella prova nazionale la varietà dei quadri personali, e dunque degli stili cognitivi, viene artificiosamente fatta coincidere, a seconda del punteggio ottenuto, con i cinque tipi ideali (livelli) supposti ab origine dal test, ma non presenti nelle situazioni osservabili nelle classi reali, qualora un docente opportunamente attrezzato utilizzi una gamma di strumenti valutativi sufficientemente ampia e sensibile.
  • I profili tracciati dai docenti valutatori, diretti a evidenziare le discontinuità (e i punti di forza e di debolezza in un medesimo caso), sono finalizzati alla ricerca di criteri per orientare l'insegnamento e non pretendono di riprodurre fedelmente la realtà dell'allievo, peraltro sempre raffigurata in divenire. Si tratta di giudizi validi all'interno del rapporto didattico che instaurano (valutazione formativa), senza la pretesa di valere in astratto (e meno che mai per l'intero sistema nazionale). Bastano tuttavia a dimostrare sul campo, sperimentalmente, che le certificazioni Invalsi non trovano riscontri nell'attività scolastica, non riproducono fatti esistenti, non fotografano alcunché, se non i pregiudizi di metodo posti alla base della loro formulazione.
  • Tali profili, o livelli, o standard, non sono di conseguenza attendibili, né rispondono alle esigenze interne al rapporto didattico. Non hanno validità, né sul piano descrittivo, come fotografie di un soggetto riconoscibile, né tanto meno sul piano formativo o storico, come contributo alla crescita di una persona. Ci troviamo dunque di fronte a certificazioni false, in un esperimento di distorsione valutativa di massa.
  • Occorre inoltre aggiungere che proprio per evitare distorsioni simili a quella appena descritta è nata la docimologia, come tecnica pedagogica sperimentale che si propone di tenere sotto controllo i sistemi valutativi, finalizzandoli alla formazione degli studenti e non alla riproduzione di pregiudizi e alla loro diffusione su scala di massa. Da questo punto di vista i test nazionali Invalsi non tarderanno ad essere riconosciuti come prove anti-docimologiche per eccellenza. 
Resta ora da comprendere in base a quale disturbo collettivo della percezione un ente nazionale, nato per diffondere nel sistema  la cultura della valutazione formativa, abbia ritenuto sensato suddividere la popolazione scolastica in cinque tipi ideali non riscontrabili nella realtà, addirittura certificando questa inattendibile classificazione e mobilitando a tal fine risorse ed energie in tutte le scuole. Perché questa sconcertante operazione?
Per rispondere all'interrogativo dobbiamo cercare aiuto nel materiale informativo diffuso dallo stesso Invalsi (esempi di domande e note esplicative sulla descrizione dei livelli di competenza).
Il funzionamento del meccanismo del test di italiano, che sulla base di quel che si è detto fin qui dovrebbe essere stato chiarito, trova una conferma nel Quadro di Riferimento della prova di Italiano (Invalsi, 2013). Qui si asserisce che le prove di italiano, anche per un motivo di ordine pratico, tecnico e organizzativo, "sono circoscritte alla valutazione della competenza di lettura (intesa come comprensione, interpretazione, riflessione su e valutazione del testo scritto, avente a oggetto un’ampia gamma di testi, letterari e non letterari) e delle conoscenze e competenze grammaticali, il cui apprendimento è previsto nelle indicazioni curricolari". Si tratta delle articolazioni schematizzate nella tabella che ho ricostruito all'inizio dell'esperimento. Su tali articolazioni vertono le domande del test, che attribuiscono punti la cui somma costituisce il punteggio finale dell'allievo. Se le sue prestazioni sono definibili per alcuni ambiti con descrittori sopra la media e per altri al di sotto della media, determineranno con tutta probabilità, sommandosi, un punteggio medio. Il punteggio medio farà sì che l'allievo venga certificato con i cinque descrittori della fascia media, nessuno dei quali però corrisponde a quanto osservabile  sulla base di una considerazione analitica della sua prova.
Sembra ben strano che nell'illustrazione del quadro di riferimento Invalsi, poste certe premesse, non ci si renda conto della conseguente ed inevitabile distorsione della valutazione. Uno sforzo teorico per giustificare un simile procedimento è comunque presente. A pag. 5 dello stesso documento si legge infatti che "la competenza di lettura si evolve attraverso vari stadi, sviluppandosi progressivamente fino alle soglie dell’età adulta (e anche oltre). In questo percorso sono individuabili tre fasi fondamentali... Nella fase iniziale di apprendimento della lettura l’alunno è soprattutto impegnato a padroneggiare le operazioni di decodifica dei segni grafici... In una seconda fase l’alunno matura le abilità cognitive e metacognitive sottese alla piena comprensione di un testo nel suo significato letterale, fino a divenire capace di leggere per interesse personale... Nella terza fase, infine, l’alunno impara a 'prendere le distanze' dal testo per considerarlo criticamente: è in questa fase che lo studente diviene capace di differenziare il proprio punto di vista rispetto a quello dell’autore e di confrontare tra loro punti di vista diversi, di analizzare consapevolmente il testo e di valutarlo nei suoi contenuti e nella sua forma."
Queste affermazioni sottolineano che le competenze di lettura si sviluppano progressivamente, dal semplice al complesso, dall'inconsapevolezza alla coscienza educata.  Si tratta di ovvietà che il senso comune accetta e che possiamo senz'altro far nostre. Ma, come per tante altre cose ovvie, tutto dipende dall'uso che se ne fa, dalle conseguenze che se ne traggono.
La morale che l'Invalsi sembra trarne, nel documento significativamente intitolato Riflessione sulla lingua - Nota esplicativa relativa alla descrizione dei livelli Invalsi (prove Invalsi 2018), è ingenuamente unilaterale. Vi si legge infatti: "Mentre la competenza grammaticale implicita è acquisita in modo inconsapevole durante l’infanzia da tutti i parlanti di una lingua, la conoscenza esplicita si consegue grazie all'insegnamento formale, vale a dire una riflessione sulla lingua guidata dall'insegnante. Il compito della scuola è dunque fare in modo che gli studenti acquistino consapevolezza dell’immenso sapere linguistico immagazzinato nella loro testa."
Ciò è in parte vero. La riflessione grammaticale illumina aspetti importanti della lingua e in alcune attività può anche risultare utile. D'altra parte, però, il suo esercizio, e il conseguente apprendimento formale che ne deriva, non rappresenta che un piccolo frammento all'interno del più ampio orizzonte dell'esperienza linguistica, di cui la grammatica, comunque la si intenda e la si pratichi, non sarà mai il pieno rispecchiamento, e meno che mai il coronamento, e certamente non la "presa di coscienza" completa ed esauriente.
Se dunque la scuola, comunemente, come l'Invalsi dice, fa in modo che gli studenti acquisiscano consapevolezza grammaticale (perché ciò conviene all'interno di determinate situazioni, ad esempio quando si studia il latino, che è ancora bello studiare), un suo compito ben più importante sarà condurli a comprendere che il sapere così immagazzinato nella loro testa è tutt'altro che immenso, e rappresenta invece solo una piccola stella tra molte nell'universo della comunicazione linguistica, che non può essere fotografata e chiarita da un'attività di livello superiore, ma solo esplorata attraverso il concreto e molteplice esercizio del linguaggio e l'ampliamento delle relazioni interpersonali che lo alimentano.
La prospettiva che ne deriva è un po' diversa rispetto a quella raccomandata dalle note esplicative Invalsi.
Purtroppo, ritenendo (idealisticamente) che il passaggio dall'inconsapevolezza alla coscienza sia il motore dell'apprendimento linguistico, e  scorgendo nella riflessione grammaticale, sulla base di una lunga tradizione che ritengo perfino superfluo richiamare, il terreno privilegiato su cui si realizza questo salto di qualità, l'Invalsi ha immaginato alcuni stadi ideali di sviluppo, seguendo una logica che rispecchia un secolare pregiudizio non sottoposto a critica.
Non ci troviamo infatti di fronte a profili relativi a ciascun allievo, assunto nella sua personalità, nel suo stile cognitivo e nella variabilità dei livelli che di volta in volta raggiunge in ambiti di esperienza non legati da un rapporto gerarchico. Al contrario. Ciascun allievo, sulla base del punteggio, viene associato a uno stadio, rigidamente descritto, che si caratterizza per il raggiungimento di un certo livello di coscienza razionale (o consapevolezza grammaticale). Quel che l'Invalsi certifica, o meglio pretende di certificare, è pertanto l'appartenenza a una delle fasi di sviluppo vagheggiate, in una scala dove ciascun gradino è propedeutico all'altro. Ciascuna fase, come avviene nei sistemi dell'idealismo ottocentesco, sembra  interamente  superare (e contenere) la precedente, ed essere interamente superata (e contenuta) dalla successiva. Il quadro teorico, invece che a una griglia di descrittori nati dall'esperienza, e destinati a sollecitarla nella pratica didattica, fa pensare piuttosto a una matrioska o a un kit di scatole cinesi, diretto a stabilire gerarchie in obbedienza a una latente ideologia.
Tale ideologia, nonostante le citazioni che cercano di dissimularla, e una spruzzatina di linguistica strutturale qua e là, ricorda certe anacronistiche forme di razionalismo idealistico che mi è capitato di incontrare in alcuni professori di liceo, refrattari a qualsiasi esperienza di formazione in servizio e malgrado ciò (anzi perciò) orgogliosamente convinti di essere nel giusto e propensi a firmare, sulla scorta di tanta ostinazione, appelli per l'italiano, petizioni per la matematica, interpellanze al ministro.
Per rispondere a simili sollecitazioni, senza urtare la sensibilità degli "innovatori" che temono un ritorno al nozionismo (e non sia mai, perché, come assicura la nota esplicativa, "sono evitate le domande che richiedono una classificazione fine a sé stessa di classi e sotto-classi di elementi grammaticali, mandate a memoria e richiamate nel momento della prova"), ma soprattutto per conformarsi all'utilitarismo economicista e liberista, che deve misurare e pesare, non importa come, i prodotti di scuole da equiparare alle aziende, l'Invalsi ha ceduto alle pressioni e ha subito una mutazione che non può definirsi altrimenti che reazionaria, trasformandosi così in una costosa macchina per la fabbricazione di certificati falsi.

L'effetto matrioska, o scatole cinesi, che pretende di classificare gli allievi in base all'appartenenza a stadi di sviluppo gerarchicamente ordinati secondo un pregiudizio idealistico, risalta ancor meglio nella prova di matematica.
Questa è la tabella su cui hanno lavorato i docenti D, E e F (matematica), che riporta tutti i descrittori Invalsi della prova nazionale 2018 per fasce di livello:
Questa è la tabella del risultato della prova nazionale di matematica, come certificato dall'Invalsi, per i 15 allievi campione, da me scelti con i medesimi criteri già utilizzati per l'italiano:

Questa è invece la tabella derivante dalle valutazioni dei tre docenti di matematica, operata a partire dalle prove analitiche assegnate in corso d'anno:

Valgono considerazioni analoghe a quelle già svolte per la prova di italiano.
Da notare che le presunte fasi di sviluppo della competenza matematica non prevedono, anzi escludono a priori, che un allievo in possesso di conoscenze elementari "prevalentemente acquisite nella scuola primaria" (vedi livello 1 della tabella dei descrittori) possa risolvere "problemi semplici di tipo conosciuto" e nemmeno rispondere a domande "in cui il collegamento tra la situazione proposta e la domanda è diretto e il risultato è immediatamente interpretabile e riconoscibile nel contesto" (vedi livello 2). Analogamente lo scolaro che ha raggiunto questo livello basilare, ma ancora non "riconosce rappresentazioni diverse di uno stesso oggetto matematico" non potrà mai, di conseguenza (ma si tratta di una conseguenza presente solo negli schemi concettuali e nell'idea della mente Invalsi), descrivere "il proprio ragionamento per giungere a una soluzione" e neppure riconoscere "tra diverse argomentazioni per sostenere una tesi, quella corretta".
E perché mai, viene da chiedersi? Chi lo ha detto? Da quale corso accelerato di psicologia dello sviluppo e dell'apprendimento sono supportate simili convinzioni, e le gerarchie che implicitamente ne derivano?
La tabella Invalsi sembra fatta apposta per escludere la situazione problematica in cui un allievo in possesso di conoscenze scarse riesce a risolvere un problema complesso, dandone una sorprendente spiegazione. E a priori esclude anche che un diverso allievo, che "illustra e schematizza procedimenti e strategie risolutive" e si esprime di regola "con un linguaggio adeguato al grado scolastico, anche utilizzando simboli", possa poi improvvisamente fallire di fronte a difficoltà estremamente semplici, perfino "in contesti abituali o che presentano alcuni elementi di novità". Eppure eventi simili si verificano a scuola quotidianamente. Anzi rappresentano il grado di difficoltà specifico in cui si sviluppa la professionalità docente.
Non a caso gli insegnanti  di matematica contrassegnati con le lettere D, E e F, di cui al precedente quadro, sulla base dell'esperienza diretta e dell'osservazione analitica del campione considerato, escono dalle previsioni Invalsi e ne respingono implicitamente l'impianto teorico. In particolare il docente F, tracciando profili che toccano tutti gli ambiti considerati per tutti i casi presi in esame, perviene a un risultato che costituisce, nel medesimo tempo, una valutazione dei propri allievi e una demolizione dei pregiudizi presenti nel test nazionale.

Che dire?
Ma soprattutto: che fare?
Direi di non perdere tempo in appelli per l'italiano, petizioni per la matematica e interpellanze al ministro.
Le scuole, dal 2 luglio 2018, sono costrette, in ottemperanza a un decreto ministeriale, a distribuire certificazioni farlocche. Ma nonostante ciò non hanno ancora perduto la loro autonomia. Possono dunque spiegare con chiarezza quello che sta accadendo, informare le famiglie e predisporre gli adeguati strumenti valutativi, a integrazione e smentita della fabbrica dei certificati falsi. Potrebbe essere una buona occasione per rilanciare i metodi della valutazione formativa, producendo localmente, in opposizione alla politica Invalsi, profili degli studenti in uscita che servano da stimolo all'apprendimento e alla crescita professionale dei docenti.

mercoledì 4 luglio 2018

Perché non sia un piano di peggioramento

Il 30 giugno sono scaduti i termini per l'aggiornamento del RAV. All'ordine del giorno figurava l'eventuale revisione delle analisi effettuate nell'autovalutazione di istituto, e, se necessario, la ridefinizione dei traguardi e degli obiettivi di processo previsti dalle scuole.
Ma può essere vera autovalutazione quella che, per un obbligo di legge, si svolge attraverso la compilazione di form e di moduli predefiniti, illustrati da direttive e identici su tutto il territorio nazionale, con trascurabili varianti regionali?
Le pratiche autovalutative, che per definizione fanno riferimento a metodi e a strumenti autoprodotti localmente, dalle singole istituzioni (altrimenti il prefisso "auto" appare del tutto ingiustificato ed eluso, e meglio sarebbe "etero" per rendere l'idea), sono diventate una procedura ministeriale definita da note e circolari, con annesso scadenzario e inevitabili adempimenti amministrativi. L'autovalutazione si è trasformata dunque in eterovalutazione, aggiungendosi al lungo elenco delle molestie burocratiche e dei monitoraggi, privi, come tutti sappiamo, di qualsiasi influenza sulla vita delle scuole.
Allo stesso modo il Miur sta cercando di organizzare la valutazione dei presidi. Al pari dell'autovalutazione eterodiretta che, proprio perché eterodiretta, non sarà mai autentica autovalutazione, ma sempre e soltanto compilazione di scartafacci (con la scocciatura suppletiva di doverne riprodurre l'inutilità  in versione digitale, in nome della cosiddetta "semplificazione"), anche la produzione del portfolio del dirigente rientra in quel fenomeno scolastico degenerativo che dobbiamo definire come ritorno alla cultura dell'adempimento. Un fenomeno non solo italiano ma europeo, che dura da parecchi anni e che la Buona Scuola ha notevolmente aggravato.

Perché si vuole tornare alla cultura dell'adempimento amministrativo?
Non si vorrebbe, se si potesse scegliere, ma si deve. Più che da una volontà consapevole questo processo degenerativo mi sembra determinato da uno stato di necessità, una necessità prima di tutto economica, che mira a un progressivo taglio della spesa pubblica e sociale, indotto dal vincolo esterno eurista che è superfluo ancora una volta ricordare.  
I comportamenti autonomi, che si ispirano all'autodeterminazione e respingono l'idea di un'amministrazione intesa come mero succedersi di adempimenti dettati da regole fisse, producono incontrollabili aspettative, progetti da attuare, nuovi bisogni da soddisfare, insomma spese. La creatività moltiplica i costi (insieme alle possibilità di crescita e di sviluppo). Reprimerla attraverso minuziosi regolamenti e faticose obbedienze provoca invece risparmi (insieme alla depressione, intesa in un duplice senso, morale ed economico).
Si tratta della logica dell'austerità (la virtù intesa come disciplinata osservanza di regole indipendenti dalla propria volontà) che ancora una volta si contrappone a quella dell'autonomia (la virtù intesa come capacità di scoprire da sé la propria regola).

E perché si vuole tornare alla cultura dell'adempimento proprio in nome di autonomia, autovalutazione e autodeterminazione, che rappresentano il suo esatto contrario?
Ma appunto perché autonomia, autovalutazione e autodeterminazione, anche se non più sostenibili dal punto di vista economico ed euro-incompatibili, costituiscono ancora valori largamente diffusi e difficilmente contrastabili sul piano politico. Meglio allora non entrare in conflitto con queste pericolose idee, e piuttosto dichiarare di volerle preservare per il futuro, presentando i vincoli, le costrizioni, i formalismi e gli adempimenti burocratici, come misure necessarie allo scopo, e nascondendo finché si può il loro vero obiettivo, che è quello di reprimere il protagonismo sociale, la partecipazione e l'iniziativa pubblica, per instaurare un clima culturale favorevole alla compressione della spesa statale e dei diritti. Non dimentichiamo mai, a tal proposito, l'ideologica equazione neoliberista:
iniziativa pubblica = spesa improduttiva
I tempi che stiamo vivendo dimostrano drammaticamente l'insensatezza di una simile convinzione, ma il liberismo persevera. E persevererà fino alla sua rovina. Non ha infatti bisogno di dimostrazioni essendo principalmente una religione.
La legge 107/15 è un esempio di questa subdola strategia.
Si dichiara, nel primo comma, che "la presente legge dà piena attuazione all'autonomia delle istituzioni scolastiche di cui all'articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59...", ma nel succedersi dei restanti 211 commi si mira precisamente al contrario. Non c'è infatti aspetto dell'autonomia che non venga aggredito, negato o deformato. Soprattutto nella prima stesura del testo, poi abbandonata per il venir meno del necessario consenso politico, questa tendenza era evidentissima: annientamento della collegialità, dirigismo e centralismo burocratico, indebolimento delle garanzie e dello stato giuridico del personale, precarizzazione diffusa.

Come si può pensare che da un simile clima ideologico possa derivare la proposta di un piano di miglioramento che non rappresenti un reale regresso e un peggioramento?

Perché non sia un piano di peggioramento è necessario rompere la logica della Buona Scuola e rifarsi alla preesistente e contrapposta esperienza delle scuole autonome.
In sede di revisione del PdM è importante chiedersi quali caratteristiche debba avere il documento per essere efficace e a quale modello teorico possa ispirarsi l'autovalutazione, per risultare veramente tale. Ho sintetizzato le conclusioni nel seguente quadro, che costituisce una premessa per la redazione di un piano di resistenza alle procedure rigide e peggiorative introdotte dalla legge 107:


Piano di miglioramento
COME DEVE ESSERE
(indicatori di efficacia)
Piano di miglioramento
COSA DEVE EVITARE
(indicatori di inefficacia)
R
E
D
A
Z
I
O
N
E

Valorizzazione dell'autovalutazione esistente:
Il Pdm deve inserirsi nella programmazione esistente, mantenendo gli strumenti già prodotti e operativi e completando l'autovalutazione di istituto autonomamente adottata, già prima del RAV, senza abbandonarla.


Evitare l'adozione di modelli troppo complessi e strutturati, che si sovrappongono all'esistente invece di completarlo, non rispettando le abitudini di lavoro dei docenti e le pregresse esperienze di autovalutazione.
Se non c’è  autovalutazione pregressa, precedente al RAV, chiedersi il perché (in questo caso non sarà però l'adozione di una complicata modulistica predefinita a risolvere il problema).


Autovalutazione formativa di istituto:
Anche per l'autovalutazione di istituto vale il principio della prevalenza della valutazione formativa (basata sull'interpretazione) contro la mera misurazione della performance (basata sul calcolo numerico).
La misurazione e gli indicatori numerici sono strumenti di aiuto all'interpretazione e non viceversa.

Evitare di ancorare il piano al mero conseguimento di mete espresse con indici numerici, scambiando i mezzi per i fini, e l’autovalutazione per semplice automisurazione.
Il calcolo delle medie e delle percentuali, anche se indicativo, non esprime la qualità di insegnamento e apprendimento.
C
O
M
U
N
 I
C
A
Z
 I
O
N
E
Semplicità, brevità, incisività:
Il piano deve essere un documento semplice, conciso, non prescrittivo e redatto in un linguaggio in cui possano riconoscersi tutte le componenti scolastiche, allievi e genitori compresi.
Il Pdm comunica a tutti le priorità generali della scuola e le azioni in corso a cui si attribuisce  particolare importanza, con definizione dei risultati attesi da conseguire in tempi brevi.

Non ricorrere a un linguaggio eccessivamente tecnico o dirigistico, ed evitare la prolissità, che si traduce in perdita di efficacia comunicativa.
La scuola non ha bisogno di doppioni e già dispone di documenti programmatici, che trattano anche da un punto di vista tecnico le principali questioni organizzative, finanziarie, didattiche.
Se così non è la lacuna è seria, ma non potrà essere colmata solo attraverso la redazione del piano.


Ampia diffusione:
Il Pdm viene diffuso in tutta la scuola, attraverso una circolare o un volantino.
A tal fine è meglio che sia schematico e concentrato in una tabella accompagnata da un breve testo di commento (risparmio di spazio e di parole per non disperdere l'attenzione e facilitare la diffusione).

Evitare che il piano resti confinato all'interno di una ristretta cerchia di docenti (che sono in genere gli stessi che lo hanno scritto e gli unici che ne conoscono interamente il contenuto e ne condividono con il dirigente l’impostazione).
La scarsa comunicazione è sicuro indice di non condivisione.
V
E
R
 I
F
 I
C
A

Test di verifica:
Un efficace test è rappresentato dalla seguente domanda, rivolta a chiunque, a qualsiasi titolo, faccia parte della scuola:

“Che cosa è importante raggiungere quest’anno secondo il Pdm?”

Se la maggioranza sa rispondere esattamente è molto probabile che il piano sia efficace.


Se pochi sanno rispondere alla domanda di verifica il piano è quasi sicuramente inefficace.
Ancor peggio se quelli che riescono a rispondere sono costretti, per farlo, a consultare un opuscolo articolato, comprensivo di programmi, regole, prescrizioni, scadenzario.
Ciò sarebbe sicura dimostrazione di inadeguatezza del Pdm. Infatti l'autovalutazione è un processo sempre aperto e mai una procedura costituita da adempimenti.

Risultati attesi:
I risultati attesi di breve periodo (anno scolastico) devono essere definiti da inequivocabili descrizioni di stati finali o situazioni desiderate, formulate in modo che a ciascuna si possa rispondere con VERO o FALSO.

Nel descrivere le mete evitare la sovrapposizione di obiettivi e la convergenza di più indicatori disomogenei, che rendono oscure le situazioni da verificare.
Gli indicatori sono, appunto, indicazioni per la riflessione, e non coincidono immediatamente con l'autovalutazione, che è sempre frutto di interpretazione.


Non è il caso di analizzare qui le modulistiche che si stanno diffondendo nelle scuole per la compilazione dei PdM, ma è inevitabile osservare come rispecchino più gli indicatori della seconda colonna che quelli della prima, seguendo la tendenza della Buona Scuola, che svuota l'autonomia trasformandola in adempimento.
Perché non siano piani di peggioramento occorre dunque cambiare registro ("verso" diceva qualcuno, che non ha avuto molta fortuna).