martedì 29 gennaio 2019

Ordoeuropeismo e scuola


"Il futuro politico dell’Unione Europea ha una sola dimensione umana, sociale e politica: la solidarietà! Per questo ogni giovane cittadino europeo si deve sentire responsabile nel promuovere una vera cultura della solidarietà a favore della persona umana e del bene comune." Così si legge nella pagina introduttiva del sito di una benemerita associazione che produce studi internazionali  "verso una nuova Europa del cambiamento: cooperazione, sicurezza, sviluppo e solidarietà".
Parole chiave: solidarietà, cooperazione, persona umana, bene comune, pace.
Ma è davvero questo il pensiero guida dello "spirito europeo"? Ma è proprio questa la linea a cui si fa riferimento quando si parla di "educazione europea"?
Chi è tentato di rispondere di sì è invitato a leggersi i documenti UE sul tema, cosa che ben pochi europeisti hanno fatto (la retorica europeista, infatti, non parte mai dalla lettura analitica delle norme e dei regolamenti, ma si limita a generiche affermazioni di principio dal sapore vagamente umanitario). Queste righe si propongono di fornire i primi strumenti per colmare la lacuna.

L'educazione ordoeuropea
Che cosa debba intendersi, secondo la UE, per "educazione europea" lo apprendiamo dalla cosiddetta strategia di Lisbona, di cui si è già parlato qui. Prima fonte di diritto per comprendere questa visione ideologica (utilitarista, scientista e neoliberale) della conoscenza e della formazione è il documento adottato dal Consiglio Europeo del 23 e 24 marzo 2000. Ne riporto l'obiettivo fondamentale, definito "strategico" e posto al centro di un "nuovo metodo di coordinamento" destinato a coinvolgere tutti i paesi UE:
Diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.
Il principio della competitività, secondo il vecchio dogma liberista, è ritenuto il motore della crescita e del miglioramento sociale. Anche la conoscenza deve adattarsi a questa convinzione. Anzi, nelle società e nelle economie dominate dalla scienza e dalla tecnica, conoscenza e istruzione diventano gli strumenti più importanti per il potenziamento della competitività. Non mancano riferimenti alla difesa dell'occupazione ("nuovi e migliori posti di lavoro") e alla "coesione sociale" (dunque a forme di cooperazione e di solidarietà), ma questi secondi obiettivi dipendono dal primo, in quanto derivanti dal livello di competitività che un paese è capace di raggiungere.
Questa insistenza sulla competizione, vista come principale fattore del progresso sociale, potrebbe andar bene per qualsiasi forma di liberalismo economico, scelta a caso tra le varie che, con diverse sfumature, si sono presentate nella storia delle ideologie. Nel contesto delle norme europee fa però riferimento a qualcosa di più preciso e va interpretata tenendo presente quanto si legge nel Trattato dell'Unione Europea (art. 3.3):
L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico.
Qui l'economia sociale di mercato, non solo competitiva ma "fortemente competitiva" e caratterizzata dall'idea che uno sviluppo equilibrato non possa sussistere senza stabilità dei prezzi (stabilità dei prezzi = obiettivo guida della politica economica), viene indicata come scelta costitutiva e fondante dell'Unione. Economia sociale di mercato quale condizione preliminare per il conseguimento del progresso sociale e per il miglioramento della qualità della vita.
Occorre a questo punto sapere che l'economia sociale di mercato, altrimenti detta "ordoliberalismus" (dalla rivista tedesca che ha promosso tale ideologia e che si intitolava, appunto, Ordo), non predica una generica fiducia nei mercati, non è un liberismo ingenuo. Nasce piuttosto, in Germania, dalla consapevolezza del fallimento dei mercati e dei governi liberali, e dalla tragica esperienza dei totalitarismi che ne sono derivati.
L'ordoliberalismo ha perso l'incondizionata fiducia nel mercato che caratterizzava i liberisti dell'Ottocento, non crede che l'iniziativa economica lasciata a se stessa possa spontaneamente garantire benessere e progresso. Continua però a vedere nella concorrenza e nella competitività le uniche forze capaci di provocare un miglioramento, e intende perciò preservarle, creando artificialmente un ordine favorevole alla loro libera espansione. L'ordine dei mercati non si afferma da solo, ma va, appunto, "instaurato", come dice il Trattato dell'Unione, cioè costruito e difeso intrecciando le regole dell'economia con quelle del diritto, demolendo i monopoli, incentivando la competizione e assicurando il mantenimento di equità e giustizia attraverso l'intervento pubblico. Le regole prima di tutto, nel rigore tipico della mentalità tedesca: l'orrore per l'inflazione che erode i capitali (da cui il totem della stabilità dei prezzi), l'ossessione del pareggio del bilancio statale (schwarze Null), la convinzione che il non contrarre debiti costituisca prova di superiorità morale.
Attraverso il rigore tedesco l'ideologia ordoliberale è entrata nei trattati UE, diventandone il pilastro economico e giuridico e operando come una specie di religione della competitività, professata nell'edificio sovranazionale (e antinazionale) del diritto comunitario. L'imprenditorialità è stata posta al di sopra di ogni altro valore, insieme al profitto.
Che ne è, allora, dello spirito europeo solidale e cooperativo da cui siamo partiti? Come si può scrivere, se si conoscono i trattati, che "il futuro politico dell'Unione Europea ha una sola dimensione umana, sociale e politica: la solidarietà"? Si tratta di un mero artificio retorico per deviare l'attenzione dalla sostanza, dal significato dei regolamenti e dalla natura dei programmi.
Al centro del progetto politico europeo non troviamo la solidarietà ma la competitività ordoliberale con il suo sistema di regole tedesche, le stesse dell'Unione e dell'euro. Tanto che, da qui in poi, per evitare gli equivoci e l'ingiustificata retorica, eviteremo il termine "europeismo" per utilizzare quello, più appropriato, di ordoeuropeismo.
Obiettivo della strategia di Lisbona è l'educazione ordoeuropea.

Che cosa chiede l'ordoeuropeismo alla scuola
La scuola ordoeuropeista vuole mettersi al servizio del mercato e delle aziende, vuole anzi diventare, essa stessa, un'azienda, impegnata a formare il capitale umano necessario a rispondere alle nuove sfide della globalizzazione e della concorrenza mondiale. Chiede perciò agli stati membri di conformarsi a queste intenzioni, mirando alla costruzione di competenze misurabili e certificabili, che siano funzionali agli interessi dell'Europa, come richiesto dalla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l'apprendimento permanente:
Tali obiettivi comprendono lo sviluppo di abilità per la società della conoscenza nonché obiettivi specifici per promuovere l'apprendimento delle lingue, sviluppare l'imprenditorialità e rispondere all'esigenza generalizzata di accrescere la dimensione europea nell'istruzione.
La subordinazione del sistema formativo all'impresa è il presupposto indiscusso su cui si sviluppa il testo. Nel sistema si entra per conformarsi, adattarsi, adeguarsi alle richieste della produzione, e ci si rimane per tutta la vita. Mai, nemmeno per un istante, sorge il sospetto che nella scuola possa anche nascondersi qualcosa di diverso:
Il quadro di azioni per lo sviluppo permanente delle competenze e delle qualifiche adottato dalle parti sociali europee nel marzo 2002 ribadisce la necessità che le imprese adattino le loro strutture più rapidamente per poter rimanere competitive. L'accresciuto lavoro di squadra, l'appiattimento delle gerarchie, la maggiore responsabilizzazione e una crescente necessità di mansioni polivalenti portano allo sviluppo di istituzioni formative. In tale contesto la capacità delle organizzazioni di identificare competenze, di mobilitarle e riconoscerle e di incoraggiarne lo sviluppo tra tutti i lavoratori rappresenta la base per nuove strategie competitive.
E quali sarebbero queste forze da "mobilitare" e sviluppare in vista dell'affermazione di sempre nuove strategie competitive? Si tratta, come è noto, delle otto competenze chiave europee: comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare a imparare; competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità; consapevolezza ed espressione culturale.
E c'è un'avvertimento finale: le competenze vengono considerate ugualmente importanti e non sarebbero disposte secondo un ordine gerarchico, anche se ciò non trova conferma nella struttura del testo, che sembra invece suggerire precisamente quel che l'avvertenza esclude, in un crescendo che va dall'apprendimento della propria lingua all'imprenditorialità, valore supremo.
Alla scuola dell'ordoeuropeismo ci si iscrive per imparare a imparare a farsi imprenditori di se stessi, in un percorso di istruzione permanente, che sollecita "l'adattamento dei sistemi di istruzione e formazione in risposta alle nuove esigenze di competenze mediante una migliore identificazione dei bisogni occupazionali e delle competenze chiave contestualmente ai programmi di riforma degli Stati membri" [vedi premessa n. 12 alla sopracitata raccomandazione europea], che è poi un modo per descrivere e legittimare, attraverso reticenti e tortuose circonlocuzioni, una completa e sottomessa adesione alle richieste del mercato, in una perenne condizione di precariato.

La competenza chiave
Riepilogando: il compito che l'ordoeuropeismo assegna alla scuola e a noi insegnanti è quello di crescere una generazione di "senza lavoro compiuti", cioè privi di una collocazione sociale riconosciuta, sans-papiers, ma felicemente adattati  alla condizione di eterni apprendisti in cerca di mutevoli occupazioni, all'interno di una concezione del diritto e dell'economia che conferisce a questa perdita dei diritti sociali l'aura di una gloriosa e stimolante avventura, vissuta come una sfida globale per imparare a imparare a cavarsela da sé, obbedendo agli stimoli del mercato, quali imprenditori di sé stessi, della propria precarietà e costitutiva miseria.
Tutte le abilità acquisibili a scuola potrebbero essere così riassunte in un'unica competenza chiave di cittadinanza ordoliberale: l'adattabilità al mercato. Virtù tanto importante da meritarsi le stigmate della verità, della realtà, dell'oggettività. E talmente oggettiva da poter essere pesata, misurata e addirittura certificata, e poi posta sul mercato per ricevere la corrispondente quantificazione in euro, talvolta come un credito formativo da riscuotere, più spesso come un debito da ripagare al prezzo di duri apprendistati, offrendo servizi svalutati e privi di un adeguato riconoscimento sociale.

martedì 15 gennaio 2019

Occupability


Come promesso di recente, in ampliamento del dizionario dei luoghi ingannevoli in inglese compatto, oggi parliamo di occupability, termine approssimativamente traducibile con l'italiano occupabilità, ma solo per rendere vagamente l'idea, ferma restando l'inevitabile perdita di significato che certe parole sensibili devono purtroppo subire nel passaggio dall'inglese all'italiano.
L'occupability, da non confondersi con l'anacronistica "occupazione fissa", spesso coniugata con un desueto "diritto al lavoro" tipico dell'assistenzialismo statale, mira al superamento dello studente tradizionale, passivo e pretenzioso (choosy, direbbe la Fornero), convinto che un titolo di studio possa garantirgli un posto fisso (e magari a carico di un ente pubblico) come un tempo avveniva nelle società chiuse e protezionistiche. A questo arretrato quadro, in una moderna economia della conoscenza aperta al mercato e intenzionata a diventare la più competitiva del mondo, in ottemperanza alla strategia europea di Lisbona deve contrapporsi un nuovo soggetto più dinamico e flessibile, in perenne formazione, occupabile in vari modi, anche attraverso canali diversi dall'assunzione e dalla connessa, spesso ingiustificata retribuzione anteposta alla formazione. 
L'occupability, appunto, indica la capacità delle persone (o, per meglio dire, delle risorse umane) di essere occupate o di saper cercare attivamente, di trovare e di svolgere temporaneamente lavory (o lavoretty, o lavoricchy), e al limite di inventarsely, senza troppo gravare sul sistema e anzi adattandosi prontamente alle esigenze della collettivity (dagli stakeholder alle aziende, dalle aziende alle banche, dalle banche alle banche, e così via dinamicamente). Si riferisce dunque all'abilità di ottenere un impiego (un primo o un nuovo impiego) quando necessario, effettuando transizioni da una condizione di non lavoro a un'occupazione qualsiasi, o, viceversa, da un'attuale condizione di precariato a una successiva esperienza di disoccupatybility, da intendersi però non come licenziamento e/o perdita di reddito (come accade ai semplici povery), ma come positiva opportunità di crescita professionale, nel quadro (dinamico) di un processo di formazione continua orientato al miglioramento e all'acquisizione di ulteriore competency, per tutta la vyta (life learning). Insomma "basta con la noia del posto fisso", come ha efficacemente teorizzato il senatore a vyta Monti.
Accrescere l’occupability è naturalmente un obiettivo prioritario delle politiche per l’occupazione dell'Unione europea, a cui sono diretti molti interventi cofinanziati dal Fondo sociale europeo (cofinanziati nel senso che il 50% ce lo mettiamo noi, mentre il restante 50%, cioè il presunto contributo europeo, è circa la metà del 100% che l'Italia dà all'UE per consentirle di fare, appunto, l'UE). Il che esalta l'importanza dell'obiettivo, dopo aver saputo che "ce lo chiede l'Europa" e noi paghiamo per due volte.
Ciò introduce un nuovo tema: il laboratorio di occupabilità.
I laboratory di occupability sono infatti previsti dalla Buona Scuola, e precisamente dai commi 60 e 61 della legge 107/2015.
Comma 60:
Per favorire lo sviluppo della didattica laboratoriale, le istituzioni scolastiche, anche attraverso i poli tecnico-professionali, possono dotarsi di laboratori territoriali per l’occupabilità attraverso la partecipazione, anche in qualità di soggetti cofinanziatori, di enti pubblici e locali, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, università, associazioni, fondazioni, enti di formazione professionale, istituti tecnici superiori e imprese private...
In altre parole: vengano avanti gli stakeholder, e tra questi non potevano mancare le mitiche imprese, per creare mitologiche sinergie tra pubblico e privato. E i privati "possono" intervenire "anche" in qualità di soggetti cofinanziatori. Anche sì. Ma anche sì vuole anche dire non necessariamente sì, e magari no. E ve lo dice uno che ha gestito vari progetti FSE, e sempre con sorpresina finale al momento del rendiconto. Dunque no. In modo tale che, ai sensi del comma 60, paghiamo noi per la terza volta.
Il comma 61 dice invece che "i soggetti esterni che usufruiscono dell’edificio scolastico per effettuare attività didattiche e culturali sono responsabili della sicurezza e del mantenimento del decoro degli spazi". Pure gli spazi (comprensivi di energia elettrica, supporto logistico e riscaldamento) si pigliano, 'sti stakeholder, a sbafo. E che l'ultimo spenga almeno la luce e chiuda la porta.

Nei laboratory di occupability gli studenti imparano comunque a destreggiarsi nella precarietà. Sarebbe offensivo dire che la scuola di stato li addestra (o istiga) a vivere di espedienti. Ma bisognerebbe anche ricordare che l'istruzione e l'educazione partono da presupposti diversi.
Insensibile a queste preoccupazioni, tuttavia, l'occupability continua ad allargarsi nei nostri istituti, occupando aule e laboratori, come una competency più promettente delle altre, a sua volta composta da un insieme di abilità e competenze minori, assetate di vita e di un lavoro che non c'è più. Ma ciò ci conduce nel mondo scintillante delle soft skill, per cui sarà necessario un post ad hoc.