Pedagogia del gambero

La pedagogia del gambero è in atto: che cosa è, come funziona, su quale ideologia si basa, quali interessi esprime e perché dobbiamo liberarcene.

Nell'ultimo ventennio una sola riforma di struttura: tagli alla scuola, all'università, alla ricerca

Lasciamo perdere la fabula riformista che da troppi anni ci viene propinata e saltiamo subito in medias res, sul denominatore comune dell'ultimo ventennio di riforme scolastiche incompiute: da sinistra a destra, da destra a sinistra, avanti e indietro. Fare e disfare, ma in definitiva solo e sempre di tagli alla spesa pubblica si tratta. Osservate con attenzione la successiva tabella:


Nel 1990 la spesa pubblica per istruzione, che allora stava nella media dei paesi UE, comincia a scendere, fino ad assestarsi un punto di PIL al di sotto dello standard europeo (dal 5,4% al 4,5%). Tra il 1992 e il 1995 si verifica il decremento maggiore. Diciamo subito che, almeno in questo caso, la colpa non è del solito Berlusconi. Sarà pure un diavolo ma qui non c'entra. Infatti, nel quadriennio in esame, ha governato solo per sei mesi. Molto di più hanno fatto Amato e Ciampi, e poi Dini.
So che è piuttosto pericoloso negare il pregiudizio, abbastanza consolidato a sinistra, che i tagli alla scuola li faccia solo la destra. Si rischia di diventare immediatamente qualunquisti o populisti, senza passare dal via. Ma bastano le tabelle elaborate da Eurostat e dalla Ragioneria dello Stato per comprendere che qualunquismi e populismi crescono su una base reale, e non partono da dati completamente inventati.
Mi sembra che il meccanismo per troppo tempo abbia funzionato così: la destra, che ritiene di non prendere molti voti tra gli insegnanti, fa il lavoro sporco (colpi di sciabola, con riduzione delle cattedre, delle classi, del tempo scuola, delle risorse); la sinistra lavora invece di fino, in punta di fioretto, e mentre revoca il 30% dei tagli approvati dalla destra, mandando nel frattempo a regime il restante 70%, completa il quadro in chiave neoliberista, per senso di responsabilità (occorre infatti rispondere alla sfida della competitività), e interviene sul piano legislativo, precarizzando il sistema (indebolimento dello stato giuridico del personale, limitazione delle garanzie, dissolvimento della collegialità). La Germania insegna: la sinistra, meno efficace nel tagliare le spese, è però imbattibile quando si tratta di comprimere i diritti del lavoro. La sinistra italiana, poi, ritiene che molti insegnanti siano suoi elettori (anche se ancora per poco) e si sente in dovere di guidarli, per il loro bene, verso l'euro-modernizzazione. Pensa che non se ne accorgano.

Due schieramenti  politici contrapposti per due decenni hanno cercato di dimostrare di avere idee diverse sulla scuola. Pretendevano che la gente ci credesse e che prendesse posizione, per gli uni o per gli altri, e dunque per  l'austerità  euro-imposta e per il suo progetto di svendita dello Stato sociale. Ne è nato uno stanco e ripetitivo gioco delle parti. A volte, però, si sono visti dei siparietti abbastanza divertenti e certamente illuminanti. Come in questo caso, il 19 aprile 2011, nel duello tra Enrico Letta e la Gelmini a Ballarò:


Letta denuncia pesanti tagli alla scuola: credeva che fossero finalmente finiti e invece, da un documento che il governo ha presentato a Bruxelles, ha appreso che nel prossimo triennio (2012/13/14) verranno tagliati ulteriori 4,5 miliardi all'anno, per un totale finale di ben 13,5 miliardi. E questo mentre gli altri paesi, nonostante la grave crisi, hanno compresso la spesa pubblica su tutto ma non sull'istruzione. Che vergogna! La Gelmini, all'oscuro dei fatti, si difende con argomenti suicidi. Le avevano spiegato che la scuola è uno "spendificio" e che bisogna risparmiare, ma non fino a questo punto.  No, non ci crede. "Il ministro Tremonti me lo avrebbe detto..." Non sono tagli, sono risparmi, sprechi tolti dal bilancio statale. Intervengono i servitori di palazzo, per confermare, tra l'ilarità generale, che è chiaro, sta scritto, si tratta di minori spese e non di tagli. Letta osserva trionfante la scenetta, ma intanto nasconde un particolare...
Non dice che il fascicolo che ha in mano è il DEF 2011, deliberato dal Consiglio dei ministri il 13 aprile 2011, e inviato a Bruxelles. Sono i "compiti a casa": ce li chiedeva l'Europa, anche questa volta, in riferimento al minaccioso Patto Euro Plus. Non si può però tacere sul fatto che il documento non predispone nuovi tagli ma, come si legge al suo interno, si limita a riportare le misure di contenimento della spesa scolastica approvate nel 2007 (dal governo Prodi II) e nel 2008 (dal governo Berlusconi IV):
"... in particolare nelle relazioni tecniche alla L. n. 244 del 2007 (commi 411 e 412) e al D.L. n. 112 del 2008 (art. 64, comma 6) sono previste economie di spesa per il personale pari a oltre 1.293 milioni per il 2009, 2.809 milioni nel 2010, 3.911 nel 2011 e 4.561 milioni a decorrere dal 2012."
I 4,5 miliardi all'anno incriminati sono dunque la somma dei tagli del 2007 e del 2008 (di centrosinistra e di centrodestra), che, andando a regime nel 2012, riprodurranno un identico risparmio negli esercizi successivi.
Abbiamo capito: da una parte c'è una sprovveduta, dall'altra un furbo.
Ma davanti a esponenti politici così spudorati nella manipolazione dei dati, o a ministri impreparati al punto di ignorare le basilari dinamiche di bilancio del proprio dicastero, non si può mai essere sicuri di nulla. Non è meglio approfondire? Come stanno effettivamente le cose?
Va detto, prima di tutto, che i tagli in questione discendono dall'art. 64 della legge 133/2008 (conversione del sopracitato D.L. 112/2008), dove, in aggiunta alle misure del precedente governo, sono previsti (comma 6) decrementi di spesa non inferiori a 456 milioni per il 2009, 1.650 milioni per il 2010, 2.538 milioni per il 2011. Con decorrenza 2012 si prevede la stabilizzazione del decremento in 3.188 milioni annui. Tutto ciò grazie alla riduzione del monte ore dei curricoli alle superiori e del tempo prolungato alle medie, e con la controriforma del tempo pieno alle elementari e il ritorno alla maestra unica.
Ma attenzione: i tagli comportano modifiche degli ordinamenti scolastici e richiedono perciò l'approvazione di vari regolamenti nei 12 mesi successivi all'entrata  in vigore della legge. Un faticoso percorso a ostacoli, con ritardi, imprevisti, possibili difficoltà e aggiustamenti.
Si tratta ora di capire, anche alla luce di quest'ultima considerazione, quale sia stata l'effettiva influenza dell'art. 64 della legge 133/2008 sulle spese dello Stato per l'istruzione. Ci può aiutare la successiva tabella, relativa all'andamento delle spese per missioni nel bilancio dello Stato, periodo 2008-2014, elaborata dal Servizio bilancio del Senato della Repubblica, su dati della Ragioneria Generale dello Stato:


Come si vede (missione 22, Istruzione scolastica) i decrementi previsti non si realizzano subito, per ritardi e forzati cambiamenti di rotta nell'approvazione dei regolamenti, per lo slittamento della revisione dei curricoli, per un risparmio inferiore alle aspettative alle elementari, causato da uno scarso gradimento della controriforma (molte maestre hanno difeso il tempo pieno e le famiglie le hanno seguite). Vista la legge, ci si aspetterebbe un consistente decremento di spesa tra il 2009 e il 2010. Vi è invece un aumento, anche se lieve (lo sapevate? Scommetto di no, anch'io sono rimasto sorpreso). I tagli si vedono solo nel 2011 (per circa 2 miliardi) e vanno a regime nel triennio successivo 2012-14 (per circa 3,2 miliardi annui rispetto al 2010), quindi dopo la cacciata dei Berluscones, con i governi Monti e... Letta! Proprio lui, quello di Ballarò. Chi lo avrebbe mai detto? Strano scherzo del destino.
La tabella ci dà un'altra importante informazione: nel periodo considerato scendono, in percentuale più che in ogni altra voce, le spese per università (missione 23, meno 10%) e ricerca (missione 17, meno 31% ). Un vero e proprio crollo, come registrato dal rapporto Ocse 2016 sul sistema formativo italiano.
Nella tabella non sono considerati gli effetti della cosiddetta "Buona scuola", successiva al 2014 (legge 107/2015). Aggiungendo comunque al dato del 2014 i 3 miliardi annui promessi dalla propaganda governativa renziana, si ritorna, all'incirca, alla spesa del 2010 (quella del primo biennio Gelmini), o poco più. Ciò esclude che con la sedicente "Buona scuola" possa essersi effettivamente verificata l'annunciata inversione di tendenza nel finanziamento dell'istruzione pubblica.
Nel periodo considerato l'azione congiunta di vari governi ha consolidato la tendenza al peggio. Va sottolineato che gli ultimi dati Eurostat disponibili ci dicono che il 4,4% di spesa in rapporto al PIL del 2008 (vedi tabella iniziale) si è ulteriormente abbassato al 4,1% del 2014, confermando il divario in negativo di quasi un punto di PIL rispetto alla media dei paesi UE, che pure hanno operato tagli all'istruzione in seguito alla crisi.
Il divario, determinatosi come abbiamo visto tra il 1990 e il 1995, e in particolare con i governi Amato e Ciampi del 1992/93/94, non è più stato colmato, ma sempre ribadito con trascurabili oscillazioni fino ai giorni nostri, da tutti i ministri che si sono succeduti negli ultimi 23 anni. Il dato va dunque preso per quello che è: un dato strutturale, ormai stabile e di sistema. Di conseguenza: per modificarlo non occorrerà un cambiamento di governo, ma di sistema, appunto.
Ma che è successo di tanto importante nel 1992, ai tempi di Amato e Ciampi, e della ministra Rosa Russo Iervolino, che, costretta ad approvare una politica scolastica fatta di soli tagli, minacciava le dimissioni senza darle?
Molte cose, ma una soprattutto. Abbiamo cominciato a vivere, per effetto del trattato di Maastricht, sotto il dominio delle regole politiche, dei parametri economici e dei condizionamenti sociali imposti ai cittadini europei in nome dell'unione monetaria, preludio all'euro. Da qui l'obbligo crescente di tagliare la scuola, la sanità, le pensioni, i servizi pubblici, i diritti. Da qui il primo "ce lo chiede l'Europa", origine di una serie insostenibile di vincoli esterni. Per questa via i popoli sono diventati scolari sottoposti a continui esami di ammissione e di riparazione, da parte di opachi precettori sovranazionali, custodi della moneta e dell'ortodossia finanziaria.

Come questo sistema, effetto e causa di squilibri, sia destinato a produrre ulteriore povertà, mi sembra ben spiegato in altri siti e blog.

Queste pagine, diversamente da quelle appena citate, non si occuperanno però di economia e di diritto, ma solo di scuola. Metteranno in luce, in particolare, la forma che il pensiero dei docenti e dei dirigenti scolastici è costretto ad assumere per adattarsi al vincolo esterno €uropeo. Tale vincolo, attraverso una sorta di eteronomia, chiede decisioni, scelte e comportamenti autolesionistici in contrasto con gli obiettivi che il sistema educativo italiano si è dato in decenni di democrazia. Ne consegue l'allontanamento della scuola dai principi costituzionali, in un lento ma continuo processo di arretramento, giustificato da uno pseudo-riformismo che è un ritorno al passato.
L'autonomia di cui parla il DPR 275/99 si rovescia così nel suo contrario, diventa eteronomia scolastica e pedagogia del gambero.

I quattro pilastri della pedagogia del gambero

La pedagogia del gambero non è una compiuta dottrina, non è una filosofia, ma solo un repertorio di parole d'ordine e di pratiche pseudo-riformatrici che, a partire da una serie di pregiudizi neoliberisti, costituiscono nel loro insieme l'atteggiamento mentale che bisogna assumere per adeguarsi all'eteronomia scolastica. I pilastri della pedagogia del gambero sono quattro:

1. Competitività
2. Meritocrazia
3. Produttivismo aziendalista
4. Svalutazione del sistema formativo

I quattro pilastri vanno studiati sia separatamente sia nella loro correlazione, e in riferimento al comune obiettivo, che consiste nello stabilire e nell'incrementare gradualmente un clima ideologico favorevole all'abbattimento della spesa pubblica per la scuola e l'università, presentato come un dato indiscutibile e necessario, senza però provocare un eccessivo malcontento e limitando eventuali conflitti.
La pedagogia del gambero (e ciò va posto in grande evidenza, per mettere a fuoco il problema) non mira, semplicemente, al trasferimento di finanziamenti dalla scuola statale alla scuola privata. Manovre simili, infatti, anche se auspicate in chiave antistatalista (un nome a caso: Mario Draghi), provocano solo uno spostamento di cifre all'interno del bilancio dell'istruzione. Rappresentano l'obiettivo iniziale. L'obiettivo finale, invece, è più ambizioso e consiste nella vera e propria eliminazione della fonte di spesa. Una spesa da considerarsi strutturalmente improduttiva, secondo il disegno eteronomista, comunque venga indirizzata. Non va pertanto ridistribuita, dal pubblico al privato, ma preferibilmente soppressa (meno scuola gratuita per tutti). Ovviamente non del tutto, almeno in questa fase storica, ma il più possibile e nel minor tempo possibile, compatibilmente con gli equilibri politici e con l'esigenza di mantenere l'ordine e la pace sociale.
Si tratta, in sintesi, di realizzare gradualmente una crescente opera di definanziamento e di denigrazione non tanto verso questo o quel tipo di istruzione, quanto piuttosto nei confronti della stessa idea di educazione e di formazione, come si è configurata nella seconda metà del secolo scorso (libera, pubblica, gratuita e inclusiva), sulla base dei principi costituzionali, grazie all'innovazione pedagogica e didattica, in un percorso di emancipazione e di espansione dei diritti. Un percorso che deve oggi essere reinterpretato in chiave svalutativa, e sottoposto a dura revisione, quale spreco di euro, fonte di debito e frutto di pericolosi egualitarismi, solidarismi, socialismi, laburismi, clientelismi, assistenzialismi, pietismi, buonismi, e così via.
L'impoverimento e la riduzione ai minimi termini dell'istruzione pubblica statale è un passaggio decisivo, anche per il suo elevato valore simbolico, verso lo smantellamento dello Stato sociale e il suo dissolvimento in una rete di monopoli finanziari privati, secondo un processo eterodiretto da organismi sovranazionali, sovrapolitici, sovrademocratici. Gli stessi che costituiscono la cosiddetta "governance" europea e condizionano i paesi coinvolti nel sistema, che comporta la preventiva accettazione di vincoli esterni in ogni ambito sociale (eteronomia globale), con l'irrevocabile adesione a una politica economica di stampo liberista e fortemente antipopolare (irrevocabile nel senso che non può essere revocata senza insieme revocare i vincoli €uristi, e quindi la stessa architettura della moneta unica).
Si può parlare, in questo quadro, di una concezione della società e del sistema monetario almeno tendenzialmente totalitaria, perché impone a chi la adotta regole non sottoposte al controllo democratico, ma destinate a incidere sulla vita dei cittadini ben più delle elezioni, della politica, dei partiti, dei congressi, e di altri simili giocattoli per €uro-scolari, bisognosi di €uro-tutela e ritenuti costituzionalmente incapaci di decidere il proprio destino.
Ma restiamo all'eteronomia particolare della scuola e andiamo per ordine...

1. Competitività

La premessa di ogni politica scolastica deve essere questa:
"La scuola e la società devono tornare ad essere competitive. C'è il bisogno di restituire competitività soprattutto alla società italiana che molta ne ha persa."
Stefania Giannini (ex ministra della Pubblica Istruzione)
Tornare e restituire sono i verbi della nostalgia, la chiave del disegno restauratore. Tornare indietro e restituire i privilegi che sembravano soppressi dalla scuola dell'uguaglianza. Va fatto, però, senza escludere in partenza nessuno (a maggior ragione quando il governo è di sinistra). Ci sarà dunque una trasparente, inclusiva, equa competizione aperta a tutti (democrazia), e alcuni la vinceranno, mentre gli altri saranno equamente esclusi in nome dell'inclusività (meritocrazia), perché la vita, da sempre e per sempre, funziona così.
Dice infatti (intervistato dal Foglio) il filosofo Dario Antiseri:
"Se all'interno del sistema formativo non si introducono linee di competizione, qualsiasi riforma della scuola si faccia sarà vanificata. La ricerca scientifica è una competizione serrata tra idee, la democrazia è una competizione tra proposte politiche, la libera economia è una competizione nell'offerta di merci e servizi. La concorrenza è il principio che anima scienza, democrazia e mercato..." [Testo tratto dal Foglio del 14.04.15; sottolineature mie].
Si è fatto largo un pensiero che fa dipendere l'efficacia dell'educazione dalla presenza della competitività. L'homo sapiens è sapiens solo in quanto competitor (infatti: sapienza = competizione serrata). L'essere è competitivo, e se smettesse una buona volta di esserlo, soprattutto sui giornali, ponendo fine all'odiosa e servile propaganda €urista (competitivitààààà!), che ne sarebbe del mondo? Il mondo stesso, in quanto mosso dalla competizione, si fermerebbe. In tal caso basta ricerca, politica, cultura, scienza, democrazia, libertà. Finito tutto. Ma la concorrenza (cioè ancora la competizione) se viene pensata in questo modo diventa il soffio rigeneratore che sostiene la vita, "anima mundi", o, secondo la tradizione cristiana, Spirito Santo, terza persona nel mistero della Trinità. E infatti la competitività, così intesa, è una religione, nella migliore ipotesi, e nella peggiore un feticcio, e quindi una superstizione omologa all'euro, che è la moneta della competizione tra stati.
Pensare che la scienza, la democrazia e il mercato, tre ambiti che nella vita complicata delle persone ragionevoli si presentano spesso in tragica opposizione, possano invece trovare un equilibrio spontaneo verso il meglio, rianimate dal principio benefico della concorrenza, è una di quelle semplificazioni ottimistiche che incutono timore. Ricorda altre semplificazioni ottimistiche del secolo scorso, di segno opposto, che hanno prodotto disastri diffusi, tra cui guerre mondiali. Com'è possibile, date le premesse, cascare ancora nella trappola della semplificazione? Chi c'è cascato, in genere, spiega di averlo fatto per amore della libertà, e proprio per mettersi al riparo dalle guerre, causate dallo Stato, che vuole sapere, fare, essere tutto. Basta Stato, allora. Ne ha combinate troppe. Meglio affidarsi, piuttosto, alla spontaneità degli agenti economici in lotta libera in un sistema aperto. E vedrai che, a forza di badare al proprio esclusivo tornaconto, e dai e dai, ciascun privato finisce suo malgrado per giovare alla società. Si potrà constatare, a consuntivo, come le risorse a disposizione abbiano spontaneamente assunto la migliore allocazione per tutti, e meglio che in qualsiasi welfare, esposto alla fallacia della pianificazione. Un miracolo. Ma sarà vero? Ma certo, rispondono i filosofi della competitività. Provvidenza a parte, lo dimostrano modelli teorici di grande rigore e austeri studi (rigore e austerità contro i poveri nell'ordoliberismo non mancano mai), e tanta economia matematica, roba da tecnici, di prima qualità.

Gli studi rigorosi dei tecnici della competitività sono senz'altro persuasivi, a giudicare dall'orientamento di una parte consistente dell'opinione pubblica e della quasi totalità della stampa (e infatti: competitivitààààà! a nove colonne). La pedagogia del gambero, a cominciare dal Miur, avrebbe il compito di estenderne l'influenza al sistema educativo, ma ciò non è accaduto, nonostante che per vent'anni si sia legiferato in tal senso, e non accade mai. La scuola sembra allergica alla competizione. Perché?
Succede che i piccoli consumatori astratti delle analisi economiche di mercato, quando escono dai modelli teorici che elogiano la concorrenza e vanno a scuola, si rivelano presto, nonostante la giovanissima età, esseri umani storicamente qualificati, con una lingua, una nazionalità, una famiglia e un insieme di esperienze pregresse su cui lavorare, che si combinano imprevedibilmente con quelle dei compagni. In questa nuova situazione è molto difficile che una maestra, per aiutarsi, possa ricorrere alla competitività. Almeno per due buoni motivi:
1. La gestione delle classi. Spontanee rivalità e contese su tutto sorgono continuamente tra i piccoli, accompagnate da incontrollate emozioni. Tanto che, in una classe lasciata a se stessa o mal diretta, in una classe senza pedagogia, non vi è nulla di più diffuso della competitività. L'osservazione del fenomeno fa perdere ogni illusione circa l'innata bontà dell'uomo e inorridire al pensiero di un ritorno allo stato di natura. La dinamica è particolarmente evidente nei piccolissimi. Tanto più innocente quanto più crudele. Tanto più spontanea quanto più distruttiva. Nella scuola dell'infanzia la mano della maestra di frequente deve trattenere il bambino, per evitare che possa nuocere a qualcuno o a se stesso, e poi abbracciarlo e invitarlo con dolcezza a pensare al compagno e al dolore che ha provato (in alcune sezioni esiste una seggiolina studiata apposta per questo e chiamata appunto "pensatoio", ma non è una regola fissa e il risultato è raggiungibile anche in altri modi). Accade che i bambini rispondano con grande partecipazione a questo invito, a cui sembrano in un certo modo già predisposti, come indirizzati da una seconda natura che si sovrappone alla prima, portandoli a condividere per contagio le emozioni dei compagni, a partecipare ai loro sentimenti, a rallegrarsi della loro felicità e a desiderarla, per il solo piacere di contemplarla, e nient'altro. Alcuni neuroscienziati hanno ipotizzato che una classe di neuroni (neuroni specchio) si trovi all'origine di questo processo e possa essere la sede neurobiologica del segreto dell'apprendimento in società, ma la teoria è controversa. Osserviamo comunque che al crescere della solidarietà e della reciproca simpatia cresce il benessere e la produttività del gruppo. La competitività tra i piccoli, e talvolta l'aggressività, non scompaiono del tutto, ma, se riemergono, diventano occasione per riconfermare la comprensione e l'appartenenza reciproca, e ciò si verifica massimamente nel gioco e nello sport. La sorveglianza della maestra, pronta all'intervento, c'è ancora, ma agisce come una mano invisibile attraverso il sentire comune. Perciò è da escludere che una docente esperta e capace si affidi alla competitività, che per lei rappresenta ogni giorno uno spunto ma anche un ostacolo, e lo stadio primitivo che deve essere superato in vista di una piena scolarizzazione. La competitività è la materia bruta e la socialità il prodotto finito. La competizione è il problema, la cooperazione è la soluzione.
2. La costituzione dell'apprendimento. Depone contro la competitività anche la struttura dell'apprendimento. Come forma che dà forma a se stessa, l'apprendimento cresce attraverso una regola che è dentro al suo sviluppo, e trova in sé il suo scopo. Nella competizione, al contrario, lo scopo risiede in un oggetto esterno che va conquistato superando gli altri. Ma la conoscenza non è un oggetto esterno, una cosa, ma piuttosto un processo interno, una costruzione e una relazione. La competitività è pertanto inefficiente e scarsamente efficace nell'educare allo studio, e raggiunge solo in superficie le sue mete, mancando di una motivazione profonda. L'eccellenza si alimenta invece in autonomia, non necessita di premi e di castighi, e trova nel suo procedimento la propria gratificazione. La ricerca riconosce la sua ricompensa nella scoperta, per il solo piacere di contemplarla, e nient'altro. Ciò avviene, secondo Aristotele, nella meraviglia, un sentimento per nulla competitivo, che sta all'origine e alla conclusione del sapere. Competitività ed eccellenza non solo non collimano, ma spesso si pongono in aperto contrasto: competitività contro eccellenza, come negli Stati Uniti, all'epoca della fallimentare politica scolastica di Bush.

Nell'esperienza degli insegnanti la competizione si è ripetutamente dimostrata poco utile a scuola, spesso dannosa, sia nella prospettiva del mantenimento della cosiddetta disciplina (costruzione di un clima di lavoro favorevole alla collaborazione e all'adozione di regole comuni e condivise), sia in vista della facilitazione dei processi di apprendimento e della produzione dell'eccellenza.
Dall'angolazione del dirigente scolastico, che si trova a gestire solo indirettamente le classi e gli studenti, ma direttamente i docenti e le scuole, l'inefficacia della competitività, ai fini di un miglioramento dei livelli di istruzione nella società, appare ancora più chiara. Ciò a cui tende l'autonomia scolastica non è certo il frazionamento del servizio pubblico in una miriade di punti di erogazione in competizione tra loro, magari impegnati a contendersi i clienti allievi attraverso contrapposte offerte e pubblicità, a sostegno di particolarismi, settarismi, ideologismi o confessionalismi vari, venduti come esempi di qualità e libertà. Le reti che le nuove tecnologie consentono di allestire, invece, mirano alla circolazione delle informazioni, allo scambio delle esperienze, alla crescita complessiva del sistema grazie alla condivisione delle risorse, al superamento delle contrapposizioni  attraverso la cooperazione. Siamo agli antipodi.

I competitivi, i fautori del metodo Bush, vorrebbero cancellare le impronte che alcuni grandi innovatori hanno lasciato nel sistema educativo. Attribuiscono alla loro presenza, all'influenza che ancora esercitano, il fatto che le pratiche didattiche più diffuse non siano abbastanza competitive. Insomma, se il principio della concorrenza ha finora raccolto tanti insuccessi nel mondo della scuola, ciò non dipende dalla sua inefficacia e inadeguatezza, dalla sua incompatibilità con i processi di apprendimento, ma è colpa di Don Milani e della Montessori. La Montessori, proprio lei, che fino a qualche anno fa incontravamo ogni giorno sulle mille lire, quando ancora la carta moneta rinviava alla storia e ai progetti di una nazione, e per fare la spesa non dovevamo chiedere in prestito banconote straniere, che raffigurano ponti che non collegano e porte e finestre che non si aprono.
A ben guardare, però, le pedagogie non competitive, fondate sulla simpatia, sulla solidarietà e sulla compassione, non sono un'invenzione del Novecento. Esistono da molto tempo. Consideriamo ad esempio che cosa già sosteneva un maestro scozzese, nel XVIII secolo:
"Per quanto egoista si possa considerare l'uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo spingono a  partecipare alle fortune altrui, e rendono per lui necessaria l'altrui felicità, per il solo piacere di contemplarla, e nient'altro. Allo stesso genere appartiene la pietà o compassione, l'emozione che proviamo di fronte alla miseria, quando la vediamo negli altri, oppure siamo portati a immaginarla con grande intensità."
Si tratta dell'incipit della Teoria dei sentimenti morali, di Adam Smith. Queste righe descrivono il sentimento della simpatia (possibili sinonimi o significati affini: empatia, compassione, consonanza, pietas). La "sympathy", che viene anche denominata "fellow-feeling" (cameratismo, sentire comune), è il principio che sta alla base delle sue opere, nell'analisi dei comportamenti sociali. Dunque simpatia e non competizione. La prima è più importante e più influente della seconda nell'agire umano, anche per lui, per Adam Smith, il fondatore dell'economia politica.
Fa piacere saperlo, smentendo l'interpretazione marginalista del suo pensiero. Anche Adam Smith, di fronte alla competitività, che considerava un sentimento primitivo e inferiore al cameratismo e alla simpatia, ha pensato come certe maestre a una mano invisibile che potesse distogliere l'uomo dall'egoismo e condurlo verso scopi collettivi (per esempio la felicità del maggior numero di persone o il benessere di una nazione). Essendo uno spirito religioso ha attribuito questa funzione all'azione della Provvidenza divina, intesa però non come un determinismo sociale, ma come un'ispirazione interna alla libertà umana e diretta a sollecitarla.
L'azione cooperativa, per Adam Smith, è disinteressata e solidale, ispirata da una provvidenziale "sympathy". Non dipende tanto dall'attesa di una ricompensa proveniente dall'esterno, quanto piuttosto dal giudizio che chi agisce dà di sé, dopo essersi specchiato negli altri e avere incontrato in loro il proprio io. Niente a che fare, quindi, con la ricerca della migliore utilità individuale che, grazie alla concorrenza libera, porterebbe secondo necessità all'ottimo sociale, come nel paradigma neoclassico in economia.
La riduzione all'utilitarismo di Adam Smith, e di tutta l'economia politica, è un equivoco storicamente importante che bisognerebbe analizzare meglio, ma non oggi e non qui.

2. Meritocrazia

Continuamente la pedagogia del gambero fa ricorso alla categoria del merito, e all'esigenza di porlo al centro del sistema come misura unica del valore dello studente, del docente, della scuola (meritocraziaaaaa!). Ma il merito, evocato in astratto, è solo una parola vuota, che si presta a secondi fini. Come la verità, come l'operosità, come l'onestà, può incontrare il favore di chiunque, e godere di un consenso generalizzato, proprio grazie al fatto di essere un vuoto contenitore, che ciascuno riempie a suo piacimento, e spesso con le tesi più errate, dopo essersi ovviamente accreditato, anche a sproposito, tra i meritevoli, i saggi, gli operosi, gli onesti. Onestààààà! Vi sembra un buon programma? Direi di no, è troppo vago. L'esaltazione della meritocrazia, magari insieme a quella della gemellata onestocrazia, è un esempio di demagogia che non dice nulla, se non questo: devono comandare i meritevoli e chi merita o sono io o è chi dico io. Ma in una simile logica, se tutti finiscono per pensarla così, a prevalere non è il merito ma la forza. Non l'onestà ma la prepotenza.
Sugli appelli alla meritocrazia (la sgualdrina dialettica degli sfruttatori) un Pedante ha scritto appunti che consiglio di leggere con molta attenzione.
Anche Mario Ambel, in una nota dedicata ai colleghi affetti da "meritonite", ha spiegato come la meritocrazia si basi su un'antiquata idea dei rapporti fra lavoro e cittadinanza, fra economia e diritti.
Due meritocrati, invece, sul Corriere della sera, a conferma del nesso tra meritocrazia e sfruttamento scoperto dal Pedante, in pochi paragrafi sono riusciti a condensare il peggio del peggio sul tema.
Il passaggio dedicato alla scuola e all'università è interessante perché, spiegando "che cosa significhi oggi difendere i poveri e gli svantaggiati", chiarisce la funzione che il richiamo al merito svolge nella pedagogia del gambero:
"In quel pamphlet [si fa riferimento a Il liberismo è di sinistra, Alesina-Giavazzi, Milano, Il Saggiatore, 2007] sostenevamo che «la meritocrazia è di sinistra». Certo che lo è. Una scuola e un'università rigorose che premiano chi si impegna e puniscono chi non studia, che promuovono e retribuiscono gli insegnanti in base al merito e non all'anzianità, facilitano la mobilità sociale. Uno studente povero assistito da una borsa di studio (possibile se la smettessimo di regalare l’istruzione universitaria ai ricchi) se può frequentare una buona scuola e una università severa ed efficiente, magari lontana da casa, può farsi avanti. Invece una università sotto costo per tutti, ricchi compresi, senza competizione e appiattita al basso per garantire «uguaglianza» blocca la mobilità sociale. Invece i sindacati («di sinistra»?) si oppongono a valutazioni volte ad accertare la professionalità degli insegnanti." [Tratto dal Corriere della sera del 27.02.17; sottolineatura mia].
Senza lasciarsi distrarre dal tono moralistico, o impietosire dallo studente bisognoso che non avrà una borsa di studio perché manca la competizione, occorre badare alla struttura del ragionamento, e al suo unico bersaglio finale: la retribuzione dei docenti, che costituisce una voce importante nel bilancio dello Stato (ovviamente da tagliare come spesa improduttiva).
La riflessione si apre con la riesumazione di un'idea di formazione che da molti anni è scomparsa dal pensiero pedagogico e dalla didattica praticabile in una democrazia. Si ritorna al pregiudizio che, in una scuola e in un'università "rigorose", un apprendimento efficace dipenda dall'entità dei premi e delle punizioni, e che la motivazione allo studio dei presunti meritevoli consista nel "farsi avanti", e scavalcare i concorrenti nel nome della mobilità sociale. La moderna pedagogia, ma anche l'economia politica di Adam Smith, come si è detto, nascono invece dal rifiuto di spiegare l'impegno dei bravi e dei capaci a partire da interessi così miserabili, e trovano, alla radice dei comportamenti sociali che producono valori e cultura, sentimenti più profondi, che si sforzano di coltivare, per migliorare non solo il sistema educativo ma la società nel suo insieme, di cui università e scuola dovrebbero rappresentare un momento di avanzamento. Dunque non lo specchio del fariseismo di regime e la replica dei suoi vizi.
Posto il preconcetto reazionario, si passa a dire che l'università che si propone di garantire l'uguaglianza costa troppo, è appiattita e fa regali a tutti, perfino ai benestanti. E qui compare l'argomento di sinistra: basta regali ai ricchi! E cosa si propone per porre fine all'ingiustizia? Vanno soppressi, per amore del merito, gli scatti di anzianità, che per i docenti rappresentano oggi, visto il blocco (incostituzionale) dei contratti, l'unica possibilità di incremento salariale.
Tiriamo le somme: per non fare dei regali ai ricchi dobbiamo tagliare gli stipendi ai poveri, secondo il meritocrate Giavazzi. Il che non sembra un grande omaggio alla logica, ma ci permette di capire perché la meritocrazia, secondo il Pedante, è la sgualdrina degli sfruttatori.

3. Produttivismo aziendalista 

Secondo i meritocrati tagliare gli stipendi degli insegnanti è giusto perché obbediscono a sindacati che si oppongono alla valutazione e alle verifiche della professionalità.
Lasciamo perdere il consueto riferimento ai sindacati nemici del merito (boicottano i controlli di qualità per tutelare i fannulloni, lo sappiamo già, è inutile ripeterlo), e concentriamoci piuttosto sulla presunta assenza di valutazione e di verifica della professionalità nelle scuole. Si tratta di un pregiudizio e il fatto che venga ripetuto spesso non basta a riscattarlo dalla sua falsità.
Non solo la valutazione è presente nel sistema scolastico in varie forme, ma occorre sottolineare che viene abitualmente praticata nella scuola più che in qualsiasi altra organizzazione. Ciò accade perché il processo fondamentale, che giustifica e determina la stessa esistenza dell'istituzione, è il processo di insegnamento-apprendimento, che, non potendo svolgersi secondo regole predeterminate e sempre uguali (come ad esempio avviene nella fabbricazione di un manufatto in una linea di montaggio), si deve reinventare di volta in volta, adattandosi alla situazione (a seconda dei bisogni individuali, della classe, del contesto sociale, delle risorse disponibili, ecc.). Questo adattamento continuo si realizza per prova ed errore, promuovendo alcuni comportamenti e correggendone altri. La valutazione gli è dunque essenziale, ne costituisce il motore interno. Si tratta di un valutare che non si limita a ricercare nell'allievo, attraverso un criterio prestabilito, un risultato già noto (nel qual caso sarebbe semplice misurazione o registrazione di prestazioni), ma che addirittura scopre in lui un valore e insieme lo alimenta, nel medesimo tempo, là dove prima non si manifestava, non veniva percepito, o non era in grado di agire in modo da farsi percepire, dunque non c'era.
Una simile valutazione, che è un far valere e un valorizzare, si identifica con la stessa azione educativa, dal punto di vista dei docenti è insegnamento, dal punto di vista degli studenti è apprendimento, e costituisce il prodotto della scuola: la formazione. La qualità della formazione, come risultato di un processo che è andato a buon fine, viene spesso definita "successo formativo", con un'espressione usata anche in documenti e disposizioni ministeriali per indicare l'obiettivo di sistema della scuola italiana, che ciascun istituto è chiamato a precisare autonomamente. Il successo formativo, all'inizio visibile solo all'interno del rapporto maestro-allievo che lo produce e lo riconosce, richiede dunque un riconoscimento ulteriore, prolungando il movimento della valutazione ed estendendolo alle altre componenti scolastiche, e a una comunità via via sempre più ampia.
La scuola, di conseguenza, non può non valutare, perché è essa stessa valutazione, produzione di valore sociale, e qualora ciò non appaia, per una carenza di consapevolezza o di organizzazione, si può comunque parlare di una valutazione implicita che deve essere esplicitata, per potersi correggere e migliorare.
Per questo motivo, contrariamente a quanto pensano i meritocrati, le istituzioni scolastiche, per loro struttura, sono molto interessate alle metodologie e ai progetti diretti a sviluppare e a certificare la qualità dei servizi.

Poste queste premesse, si comprende bene perché numerose scuole abbiano sperimentato, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, i progetti nati intorno al concetto di "qualità totale", sviluppato in Giappone e negli Stati Uniti e introdotto in Italia da varie grandi aziende, a cominciare dalla Fiat. Tali esperienze si proponevano di raccogliere intorno a uno scopo finale (missione) il consenso e la mobilitazione di tutte le componenti presenti in un'organizzazione, per la realizzazione di un prodotto condiviso e ottimizzato, attraverso l'analisi dei processi e la loro scomposizione in procedure verificabili, capaci di garantire l'incremento qualitativo e il miglioramento continuo.
Proprio questa lunga sperimentazione, anche accompagnata dalla ricerca di strategie per la valutazione e per l'incentivazione del personale, ha posto in luce l'insufficienza dei modelli aziendali applicati alla complessità della scuola. Gli insegnanti sperimentatori hanno infatti quasi sempre rilevato che le rigide indicazioni dei manuali della qualità riescono a incidere positivamente solo su aspetti marginali del servizio. Consistono in una miriade di adempimenti, descritti con minuziosa precisione. Ma la somma di tutte queste procedure non restituisce il processo, nella sua viva dinamica, che resta inesplorata. Non viene efficacemente toccato, in particolare, quello che, come si è detto, costituisce il cuore del problema: la qualità dell'insegnamento-apprendimento; che rinvia al successo formativo; che a sua volta rinvia alla produzione di valori, validi dapprima in una comunità ristretta e successivamente in un più ampio contesto locale e nazionale.
L'analogia scuola-azienda funziona e non funziona. Funziona, e può tornare utile, quando si tratta di definire strategie su obiettivi circoscritti e problematiche limitate, affrontabili con criteri prevalentemente quantitativi, quali ad esempio: gestione di servizi interni; corretta pianificazione di orari, mansionari, adempimenti obbligatori (sicurezza, igiene, prevenzione sanitaria); organizzazione di attività di supporto (biblioteca, ristorazione, viaggi di istruzione, ecc.). Non funziona, invece, quando si pensa alla scuola nel suo significato più specifico e proprio, come organismo democratico produttore di valori collettivi, che sono in primo luogo valori sociali e solo in secondo luogo valori economici. Nel senso che il successo formativo (prodotto scolastico e valore sociale) acquista, sul mercato, anche un valore economico, mentre non necessariamente avviene il contrario (non è detto che un valore stabilito dal mercato conservi una validità anche sul piano formativo).
In altre parole: sfugge all'aziendalismo scolastico il senso della scuola come istituzione (istituzione locale: singolo istituto scolastico; istituzione statale: la scuola come organo costituzionale).
Dal momento che la pedagogia del gambero non accetta questa visione, anzi consiste nel negarla, riducendo il formativo a una funzione dell'economico, sarà opportuno sottolinearne la portata, citando un celebre discorso di Piero Calamandrei, che di recente è stato da più parti giustamente ripreso da docenti orgogliosamente contrastivi:
"La scuola, come la vedo io, è un organo costituzionale. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola l’Ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il Presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell'organismo umano hanno la funzione di creare il sangue." [Dal discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN); Roma, 11 febbraio 1950; sottolineature mie].
Per questa visione, fortemente radicata nel mondo della scuola, verso la fine degli anni Novanta, con le elaborazioni teoriche connesse all'avvio dell'autonomia scolastica, i progetti sulla qualità cambiano fisionomia.
L'indirizzo aziendalista sopravvive, ridimensionato, nelle proposte di enti privati che forniscono consulenza alle scuole, in genere per l'ottenimento delle certificazioni della famiglia ISO 9000, utili per acquisire punteggio per la partecipazione a progetti europei (fondi sociali) o regionali. Parallelamente si fanno però strada modelli che mirano allo studio della dimensione cooperativa, agli snodi funzionali specifici del sistema scuola, inteso come insieme di istituzioni democratiche autonome, parti di un più ampio organismo nazionale.
Per la costruzione di questa prospettiva è stato fondamentale l'apporto di Piero Romei, purtroppo scomparso prematuramente nel 2006, con il progetto Sistemi di qualità, che non prevedeva alcuna valutazione esterna, e si basava unicamente sulla facilitazione dei processi interni tipici delle scuole e sulla sollecitazione delle dinamiche di rinnovamento, con speciale attenzione alla qualità dell'insegnamento, cuore e motore del prodotto scolastico e del suo riconoscimento sociale.
Lo stesso modello RAV (rapporto di autovalutazione), definito dal Sistema Nazionale di Valutazione, documento che tutti gli istituti compilano oggi insieme al piano di miglioramento, sembra avere conservato qualcosa dell'impostazione nata in quegli anni. Ma quei sistemi (al plurale) nascevano da iniziative interne alle scuole, che definivano attraverso strumenti autoprodotti la propria identità progettuale, organizzativa, e anche istituzionale e politica, in quanto espressione di mediazioni tra enti e agenzie territoriali. Tutto ciò, nel ricorso a una modulistica predefinita e a una procedura standardizzata nazionale, va inevitabilmente perduto.
Si può dire, allora, che il RAV abbia preso molto dai migliori modelli di autovalutazione messi a punto durante la sperimentazione dell'autonomia scolastica, tranne l'essenziale, cioè l'autonomia scolastica.

Questi sviluppi, critici verso l'aziendalismo e impegnati a ribadire che democrazia e qualità sono inscindibili nella scuola, rappresentano il primo bersaglio dei meritocrati e della pedagogia del gambero. L'ultra-liberismo, infatti, non ammette valore al di fuori del valore di mercato, e a questo principio, che prima di essere economico è metafisico, ideologico e addirittura religioso, vuole piegare il sistema formativo. Le istituzioni scolastiche, e lo stesso Stato, devono diventare aziende tra le altre, come le altre, senza altra finalità che quella di soddisfare il cliente (o il committente), o meglio la richiesta dei mercati, o ancor meglio l'interesse di chi nei mercati è abbastanza forte per imporre il proprio punto di vista, naturalmente pagando.
Così com'è la scuola italiana non si presta a un simile progetto. Si tratta allora di modificare le sue leggi eliminando, in primo luogo, il controllo democratico del suo prodotto, che deve essere sottratto alle singole unità scolastiche autonome e rimesso alla discrezionalità dell'acquirente, che si attende un servizio conforme ad aspettative individuali, svincolate da qualsiasi interesse collettivo, un interesse visto anzi con fastidio, e percepito come un impedimento ai legittimi diritti dell'utente pagante e all'affermazione di sé nel mondo della concorrenza. Ciò determina importanti conseguenze sul piano organizzativo: la valutazione formativa, e qualitativa, deve essere abbandonata a vantaggio di un accertamento meramente quantitativo delle prestazioni, passando a una concezione produttivistica della scuola, con conseguente riduzione del momento dell'interpretazione dei bisogni rispetto a quello predominante della misurazione della performance. Ne deriva, per quanto riguarda il lavoro dei docenti, il ridimensionamento delle scelte educative cooperative e condivise (e collegiali), da subordinare alla domanda del mercato. Dal punto di vista del dirigente scolastico perde importanza la costruzione del consenso, mentre l'obiettivo diventa un aumento della produttività, preferibilmente legato a indici numerici. La partecipazione attiva di studenti e famiglie non è più richiesta, ma prevale l'atteggiamento tipico del fruitore di un servizio, del consumatore.
Questa involuzione antidemocratica, richiesta dal vincolo esterno eurista, costituisce la versione scolastica del "ce lo chiede l'Europa" che ormai imperversa in tutti gli ambiti della convivenza civile, riducendo in ogni campo garanzie e diritti, oppure, dove ciò non sia ancora politicamente possibile, svuotandoli con gradualità fino a renderli inesigibili. In una simile prospettiva, la discesa verso una scuola a misura di euro, ferma restando l'esigenza prioritaria del taglio della spesa, già ampiamente praticata con successo, e proseguendo nella negazione dell'autonomia scolastica e nella demolizione dello stato giuridico del personale, di cui alla legge 107/2015, potrebbe essere perfezionata attraverso tre provvedimenti di grande impatto: 
1. Controriforma degli organi collegiali, con soppressione del loro carattere democratico, derivante dai decreti delegati del 1974, da raggiungersi attraverso l'attribuzione di funzioni solamente consultive e la riduzione del numero dei membri eletti (e parallela costituzione di un nuovo organismo, simile a una specie di consiglio di amministrazione, dipendente dal dirigente scolastico, a sua volta subordinato al dirigente regionale).
2) Abolizione del valore legale dei titoli di studio, che, realizzando un antico sogno di Luigi Einaudi, finalmente toglierebbe allo Stato il potere di riconoscere il valore di lauree e diplomi, non certo sopprimendo tale funzione, che è ineliminabile, ma attribuendola naturalmente al mercato (e a chi se no?) e passando così dal valore legale (perché democraticamente controllato) al valore illegale (perché mercificato senza controllo) dei titoli di studio.
3) Estensione del buono scuola a sostegno degli istituti privati, da realizzare mediante voucher attribuiti alle famiglie, da intendersi non solo e non tanto come un aiuto alle scuole parificate (che potrebbe anche realizzarsi in altre forme), quanto piuttosto come strumento per il raggiungimento di un risultato prima di tutto politico e culturale, ribadendo il principio ideologico neoliberista che attribuisce agli utenti paganti, proprio perché paganti, e soltanto perché paganti, la capacità di migliorare i servizi, secondo la mistica che vede nell'immediato perseguimento dell'utile personale, o presunto tale, l'unica vera forza reale capace di indirizzare il mondo, identificata con la stessa libertà (mistero della fede).
Chi ha seguito negli ultimi anni il dibattito politico sugli infelici tentativi di riforma, non faticherà a riconoscere l'influenza di questo produttivismo aziendalista reazionario sulle proposte di legge presentate dai vari governi europeisti con alterna fortuna.

4. Svalutazione del sistema formativo

Una competitività in contrasto con i processi di apprendimento e con l'insegnamento cooperativo; un'ideologica e inconsistente meritocrazia, incapace di tradursi in criteri applicabili e utilizzata soltanto per giustificare i tagli alla spesa pubblica; un aziendalismo incompatibile con il carattere democratico delle istituzioni scolastiche: non sembrano strumenti con cui si possa fare molta strada nella scuola italiana. E in effetti, con questi ingredienti, raccomandati dalla ricetta ultra-liberista che l'euro impone agli europei per sopravvivere ai suoi squilibri, la cucina riformista degli ultimi vent'anni ha concluso ben poco, e mai niente di duraturo. Il sistema è evidentemente più solido di quanto pensino i suoi detrattori, e possiede anticorpi che gli permettono di sottrarsi alla demolizione. Da Luigi Berlinguer alla Giannini si è assistito così a un incessante fare e disfare, con il succedersi di improbabili riforme destinate a svanire in pochi mesi, insieme ai loro improvvidi autori. Nella sfilata dei riformatori, che all'esordio sempre si atteggiano, anacronisticamente, a novelli Gentile, con incauti proclami ("riforma epocale"; "svolta storica"; "riparte l'Italia"; "adesso il futuro"), vi è qualcosa di farsesco. E già dalle prime battute, come in certe scenette, dai soliti, noti indizi si può intuire l'inevitabile fine del guitto, da riformista a riformato e... "avanti il prossimo". L'unica costante, il vero carattere dell'epoca del riformismo infinito e incompiuto, come dimostrano i grafici sulla spesa pubblica, è la stabile sottrazione di risorse all'istruzione.
Dobbiamo rallegrarci di questi meritati fallimenti?
Direi di no. In quanto solo se presi singolarmente sono fallimenti.
Sono insuccessi di destra quando governa la destra e di sinistra quando governa la sinistra, che nel loro insieme certificano il complessivo fallimento del sistema politico bipolare e maggioritario italiano, incapace di produrre qualcosa di duraturo (ma anche tale sistema si è sviluppato con l'Europa di Maastricht e ciò fornisce un importante suggerimento circa le sue finalità). Questi insuccessi ripetuti, tuttavia, nella prospettiva del mantenimento dell'euro, assumono un significato ben diverso e funzionale allo scopo.
Infatti, il continuo rincorrersi di leggi di riforma destinate a un rapido deperimento e presto abrogate, o peggio affiancate da altre norme di segno contrario, ha determinato i seguenti effetti:
1. Incertezza del diritto scolastico. Dal "Mosaico" di Berlinguer, al "Punto a capo" della Moratti, al "Cacciavite" di Fioroni, e così via, diverse e incoerenti visioni hanno modificato il diritto scolastico, senza raggiungere un risultato preciso, con la sovrapposizione di quadri incompleti e incompatibili. La normativa, allo stato attuale (anno scolastico 2017/18), più che alla metafora del mosaico rinvia a quella del colabrodo, mentre la stratificazione di norme in contraddizione alimenta il lavoro dei tribunali, a giurisprudenza variabile. Il buon preside di venti anni fa, di fronte a una lite, poteva dimostrare la propria bravura citando in scioltezza gli articoli di legge che bastavano a dirimerla. Il dirigente scolastico di oggi, al contrario, deve guardarsi bene dal citare anche un solo comma con troppa sicurezza. Dovrà piuttosto saggiarne criticamente l'efficacia, e spesso coglierne l'interna contraddizione, o valutarne il conflitto con altri regolamenti di pari livello o superiore, e la probabile soccombenza della pubblica amministrazione in caso di contenzioso, a causa dell'imperizia del legislatore. Da questo punto di vista la legge 107/2015 ha battuto ogni record.
2. Indebolimento dello stato giuridico del personale. Alle incertezze del legislatore si sono aggiunte le difficoltà di bilancio, che hanno determinato il blocco dei nuovi contratti, la mancata applicazione di quelli vigenti, un arretramento nel riconoscimento dei diritti sociali. I governi di destra e di sinistra, per ridurre le spese, approvano misure restrittive sullo stato giuridico del personale. Successivamente, nel gioco delle parti, se le rinfacciano. Gli uni smontano le leggi degli altri, ma mai completamente, e senza vere inversioni di tendenza, in modo tale che, sotto la superficie di un conflitto apparente, si determina un lento ma costante peggioramento delle condizioni di lavoro e di studio.
3. Precarizzazione del sistema. Le continue modifiche del sistema di reclutamento dei docenti, mai portate a termine, hanno impedito i concorsi, rallentato le immissioni in ruolo, complicato i percorsi di formazione in modo irragionevole, alimentato il precariato. La legge 107/2015, che aveva promesso di risolvere il problema, sta ulteriormente ingarbugliando la materia, attraverso errori che nei prossimi  anni sarà molto difficile correggere.
L'incertezza delle norme, la riduzione delle garanzie, l'aumento della precarietà, tutto questo concorre al raggiungimento di un altro importante obiettivo, il quarto pilastro della pedagogia del gambero: la svalutazione del sistema formativo, o deflazione scolastica.

Svalutare il sistema, dimostrare che non funziona, che per proprio demerito ha rifiutato le riforme, è una buona giustificazione per procedere a nuovi tagli. Del resto, nel caso dell'istruzione pubblica, essendo la spesa del settore quasi interamente composta dagli stipendi del personale, per obbedire ai vincoli di bilancio europei esiste una sola fonte di risparmio percorribile: la deflazione salariale.
Svalutare il sistema formativo per svalutare il lavoro dei docenti, comprimendo, quindi, le retribuzioni.
L'obiettivo può essere perseguito in vari modi: 1) Blocco degli stipendi, motivato da emergenze tali da giustificare il mancato rinnovo dei contratti nazionali (tipicamente: la dichiarata insostenibilità del debito dello Stato); 2) Non applicazione degli accordi vigenti, con la sospensione degli scatti di anzianità e la sottrazione di altre risorse; 3) Riduzione del MOF, l'insieme dei compensi accessori destinati al miglioramento dell'offerta formativa; 4) Affossamento del sistema di reclutamento, con conseguente ampliamento del precariato, e un maggior utilizzo dei contratti a tempo determinato, ovviamente meno costosi; 5) Non riconoscimento della retribuzione estiva anche ai precari in servizio su posti privi di un titolare, e quindi da ritenersi vacanti; 6) Sistematici ritardi nel pagamento dei supplenti, senza stanziamento dei relativi fondi. Tutti questi accorgimenti vengono utilizzati da tempo, e simultaneamente, producendo notevoli risparmi, ma anche disfunzioni che si traducono in danni.
Occorre allora sostenere, per deviare il malcontento, che una corporazione di sindacalisti, di funzionari, di baroni, di precari, rema contro. Se le norme sono incerte e mal scritte, se il personale lavora in una situazione di instabilità, se interventi distruttivi hanno bloccato l'autonomia scolastica, non è solo per colpa del governo, o dei governi che si sono succeduti nel gioco sterile delle parti, senza reagire al vincolo esterno che strozza lo Stato. La responsabilità va attribuita, invece, principalmente ai docenti (che non insegnano) e agli studenti (che non studiano). Non a caso bisogna ridurre gli stipendi dei primi e il valore dei titoli di studio da attribuire ai secondi, che dovranno rassegnarsi a entrare nel mercato del lavoro senza troppe pretese, magari sperimentando, già sui banchi di scuola, periodi obbligatori e non retribuiti di educazione al precariato. 
Viene presentato un piano per il riconoscimento della professionalità, che non riconoscerà alcunché perché è scritto da incompetenti? La responsabilità non è di chi pensa di poter valutare gli insegnanti ignorando ogni ricerca sul tema, ma di una scuola che boccia il merito.
Presidi e professori, letta la legge 107/2015, si sforzano di spiegare perché le norme maldestre sulla dirigenza e sul reclutamento non potranno mai funzionare? Impossibile, non sono ascoltati come esperti del settore, che giustamente spiegano come andrà a finire, ma diventano vietcong che minano la riforma.

Svalutazione del sistema e di chi, nonostante il Miur, ancora riesce a farlo funzionare, spesso anche bene. Svalutazione accompagnata da odio ideologico, fino alle goffe conclusioni di Piero Ichino, un denigratore della scuola di Stato in nome del liberismo economico, che sul Corriere della Sera del 10 ottobre 2013 enuncia la soluzione finale:
"All'iniquità di una situazione che punisce chi lavora con impegno e premia invece chi la prende come una comoda rendita, bisogna rapidamente porre fine. Lo Stato italiano ha ampiamente dimostrato di non essere in grado di farlo. È bene allora che, pur conservando il ruolo di finanziatore e regolatore delle scuole pubbliche, lasci ad altri il compito di gestirne le risorse umane e finanziarie."

Pedagogia del gambero e vincolo europeo

La pedagogia del gambero quanto più si allontana dal dettato costituzionale tanto più esalta la sottomissione al vincolo europeo come moderna, aggiornata, necessaria finalità dell'educazione e della scuola.
L'euro impone ai paesi che lo hanno adottato continui sacrifici, tagli a pensioni, lavoro, scuola, sanità, non accompagnati da benefici. Dopo la crisi nessuna ripresa, nessun miglioramento di vita, ma solo un lento sprofondare nell'impoverimento e nella deflazione, grazie alle politiche neoliberiste a lungo propagandate dai Giavazzi e dagli Ichino. Vorrebbero curare una malattia economica che invece aggravano, e più il tempo passa più la medicina si rivela tossica. E più la spirale della tossicità si avvita e cresce su se stessa più i partiti che a suo tempo hanno incautamente appoggiato la nascita dell'euro negano, negano, negano. E più negano più aggravano la loro posizione, e insieme il malcontento di lavoratori dipendenti, precari e disoccupati, che si allontanano dai negatori professionisti e privi di una rappresentanza politica si rivolgono altrove.
In questo clima di sfiducia la fabula europeista cerca di rilanciarsi riproponendo il racconto che nei primi anni del secolo veniva diffuso a reti unificate per giustificare le riforme neoliberiste, e il collegato programma di radicale riduzione del welfare. Nel successivo brano, tratto da un articolo di Padoa Schioppa, pubblicato sul Corriere della Sera nel 2003, il disegno reazionario viene spiegato in poche righe, con una sintesi certamente efficace.
Si tratta di un brano molto famoso e commentato, ma più da un punto di vista economico che pedagogico. Un'analisi approfondita del testo è invece importante anche a scuola, perché aiuta a comprendere la provenienza politica della pedagogia del gambero, e a quali interessi sia collegata la denigrazione dei principi e dei diritti costituzionali, ricondotti all'accidia, al demerito, alla degenerazione dei costumi:
"Quando la corsa dell'economia americana cessò di far crescere tutti, le magagne di ciascuno divennero evidenti e il bisogno di curarle urgente. Francia e Germania si ritrovarono con disoccupazione e disavanzo pubblico pesanti; da severi maestri della stabilità divennero scolari senza il compito fatto. Non restavano che le riforme strutturali, eterno ritornello di quelle che Luigi Einaudi chiamava le sue prediche inutili: lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l'intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione. Nell'Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev'essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l' individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità. Cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute, dono del Signore; la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l'apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell'uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e di fortuna. È sempre più divenuto il campo della solidarietà dei concittadini verso l'individuo bisognoso, e qui sta la grandezza del modello europeo. Ma è anche degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato[Testo tratto da "Berlino e Parigi ritorno alla realtà", Corriere della Sera del 28.08.03; sottolineature mie].
Sono passati ormai quasi quindici anni all'insegna di simili "riforme strutturali", ma questo testo mi sembra ancora attuale per l'esemplificazione, in pochi e riusciti tratti, della psicologia europeista e dell'intossicazione ideologica eurista (vocabolario, mitologia, grammatica, segni particolari, c'è tutto). L'unico indizio di invecchiamento è costituito dal riferimento alla Francia, che non può più essere presa a modello, visto il deficit di bilancio stabilmente al di sopra del 3% e il debito pubblico prossimo al 100% del PIL. La situazione, grazie a una crisi aggravata dalle ricette liberiste, è ben più preoccupante che nel 2003. Per il resto vediamo all'opera l'intero repertorio del gergo eurista. Troviamo gli "scolari senza il compito fatto" (che naturalmente sono gli stati in competizione); domina l'immagine onnipotente del mercato "über alles" (più che Francia e Germania, direi Germania e Germania); non deve mancare un riferimento al fannullone che ancora non ha fatto "ritorno alla realtà", e pretende, addirittura, il rispetto dei diritti costituzionali al lavoro, alla salute, all'istruzione, e in questo caso è "un accidioso individuo", in un altro caso sarà un "bamboccione".
Faccio osservare la semplicità del racconto, che ripetuto incessantemente dai media penetra nella psicologia comune, come cosa ovvia e, appunto, "ritorno alla realtà", e cuore della fabula riformista: c'era una volta l'America, che faceva crescere tutti, ma non poteva tirare la carretta per sempre; e così, finita la cuccagna, costretti a camminare da soli, paesi che si credevano forti si ritrovano pieni di magagne; ritornano allora coi piedi per terra e prendendo esempio dalla maestra Germania dovranno fare le "riforme di struttura". La favoletta insegna che abbiamo bisogno di diventare come le formiche tedesche, con le riforme. E come sono fatte queste riforme della Germania? Coincidono con le prediche inutili che per anni e anni il saggio Einaudi ha rivolto inascoltato agli italiani, cicale riluttanti e sprecone, e consistono nel "lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l'intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento".
Tenendo presente che Padoa Schioppa ha svolto un ruolo significativo nella costruzione e nella teorizzazione dell'euro, e che è stato ministro delle finanze nel secondo governo Prodi (2006/2008), mi sembra importante analizzare con una certa attenzione (e con altrettanta preoccupazione) quest'ultima frase.
Il compito della politica consisterebbe nel lasciar funzionare le leggi del mercato, sta scritto. Ciò implica: 1) L'esistenza, nel mercato, di leggi indipendenti non stabilite dall'uomo; 2) La capacità, interna a tali leggi, di funzionare per il meglio; 3) L'incapacità, da parte dell'uomo, di inventare soluzioni migliori di quelle già contenute nelle leggi del mercato.
Ma allora, se le premesse sono queste, la politica è pura inerzia e passività? No, diceva nel 2003 il nostro futuro ministro delle finanze del 2006, deve esserci un intervento pubblico, ma ridotto al minimo, un minimo che è quanto strettamente richiesto ancora dalle medesime leggi (sempre quelle), per poter funzionare. Sono di nuovo le leggi a determinare gli interventi "minimi" (o le riforme).
Riepiloghiamo. Da chi dipende dunque il minimo, cioè l'intervento della soggettività umana nel mercato? Dalle leggi. Da chi dipende tutto il resto, cioè il massimo, il concreto e oggettivo funzionamento del mercato? Dalle leggi. Soggetto e oggetto, minimo e massimo dell'economia politica sono di conseguenza le leggi. Esisterebbero leggi di mercato autosufficienti, che da sole sarebbero capaci di determinare il proprio funzionamento, cioè di autoaffermarsi e di autoindirizzarsi attraverso l'uomo, nella coincidenza di soggetto e oggetto, di minimo e massimo. A questo punto, occupando l'identica posizione della Totalità in una metafisica oggettiva e di Dio in una teologia descrittiva, Leggi e Mercato vanno scritte con la maiuscola. Padoa Schioppa non lo fa per pudore, ma, rispetto alle sue stesse premesse, sbaglia.
Altre conseguenze: accettate tali premesse, l'economia non c'entra con la democrazia, in quanto viene collocata in una sfera teologica, superiore all'esistenza e alle facoltà umane; chi dunque assume decisioni in campo economico ricopre una funzione non politica ma sacerdotale (o tecnica, ma solo se si vede nella tecnica una manifestazione dell'assoluto); il pensiero di Padoa Schioppa è un pensiero totalitario, assolutista, e ciò, purtroppo, è piuttosto difficile da capire, perché, muovendo da un insieme di idee vagamente liberali, ha buon gioco nello spacciarsi per democratico, in un contesto culturale abituato ad associare liberalismo economico e democrazia (ma l'associazione non è sempre corretta, attenzione, e dipende dai casi); il modello metafisico-economico che supporta l'euro è anch'esso totalitario; le regole dell'euro, le regole di Maastricht, sono un esempio di vincolo esterno assoluto, di eteronomia totale, cioè il contrario dell'autodeterminazione e dell'autonomia degli stati, dei popoli, delle nazioni; l'euro è un progetto autoritario: dal punto di vista delle democrazie è una malattia degenerativa iniettata nelle istituzioni dei paesi europei attraverso il virus della moneta unica.
Passiamo ora ad esaminare le riforme derivanti da questa teologia economica, con annessa santificazione del denaro: non potranno che essere avverse ai diritti costituzionali. In effetti, secondo Padoa Schioppa, il riformismo europeista deve lasciarsi guidare da "un unico principio": attenuare le protezioni che nel secolo scorso hanno allontanato il cittadino dalla "durezza del vivere". Bisogna insomma ridurre lo Stato sociale, rimettere l'uomo davanti alle difficoltà della vita, in un confronto che in passato era sentito come "prova di abilità e di fortuna". Così da più di venti anni si interviene sulle pensioni, sul lavoro, sulla sanità, sulla scuola, sforbiciando a nome e per conto dell'Europa. Ce lo chiedono da Bruxelles.
E perché mai? Perché diminuire le garanzie e la sicurezza sociale? Dal momento che la tecnica ha reso più produttivo lo sforzo umano verso il benessere sembra ingiustificato un ritorno all'Ottocento. Da dove arriva, allora, questa anacronistica voglia di vivere pericolosamente, o meglio di far vivere pericolosamente gli altri, da parte di un funzionario pubblico super protetto e super garantito da prestigiosi incarichi presso il Fondo monetario internazionale, la Commissione europea, la Bce? Il pericolo arriva, per l'appunto, da questi organismi sovranazionali, sovrademocratici, sovrastatali, dove una burocrazia sfuggita al controllo degli elettori, a partire da idee socialisteggianti o liberaloidi, si è piano piano autoconvinta di trovarsi al centro di una missione superiore, di obbedire a un disegno illuminato, come un sovrano assoluto che non ha bisogno del consenso dei cittadini, certo di agire per il bene di tutti e per la pace universale (come ogni despota).

L'euro-racconto del ministro dell'economia di Prodi sembra rispecchiare la visione del mondo di un esaltato, ed è molto improbabile che una persona normalmente educata, cresciuta secondo i valori di un qualsiasi paese europeo, possa concordare sulla proposta di un volontario ritorno alla "durezza del vivere", senza provare un disgusto immediato, accompagnato da una sana diffidenza verso una simile, odiosa idea.
La pedagogia del gambero entra a questo punto in gioco, con la propaganda e con la denigrazione, per realizzare il suo progetto svalutativo: svalutazione della nazionalità, sempre confusa con il nazionalismo, svalutazione dello Stato, dei diritti e soprattutto del cittadino. In mezzo a una crisi può essere conveniente svalutare il denaro per venire incontro agli uomini, ma non nel regime eurista, che della stabilità dei prezzi ha fatto il suo totem. Bisognerà allora trovare delle buone ragioni, in qualsiasi crisi, per svalutare gli uomini a vantaggio del denaro.
Svalutare il lavoro (con la flessibilità) per mantenere inalterato il valore della moneta unica (con la stabilità): è questo, in sintesi, il solo principio morale che l'Europa sa affermare, e che intende trasformare in un sentimento diffuso, in una nuova e deviata forma di cittadinanza e di senso civico, obiettivo finale della pedagogia del gambero.
Non conviene, almeno all'inizio, denigrare apertamente lo Stato sociale, che rinvia a principi ormai connaturati al comune modo di pensare degli elettori di tutte le tendenze. Si andrebbe incontro a un sicuro insuccesso. Meglio ripiegare, allora, secondo la linea Padoa Schioppa, su un farisaico omaggio alla "grandezza del modello europeo", che consisterebbe nel "campo della solidarietà dei concittadini verso l'individuo bisognoso". Ben presto, però, si comprende che questo grandioso modello, evidentemente concepito per bisognosi destinati a rimanere tali, viene elogiato solo per annunciarne la prossima liquidazione, in quanto degenerato in "campo dei diritti", per opera di un altro individuo, privo di meriti e di senso del dovere, e perciò accidioso.
Ma chi è l'accidioso, il pigro che, invece di piegarsi riconoscente alla "pubblica compassione", si permette di pensare al lavoro, all'assistenza sanitaria e all'istruzione, come a diritti che lo Stato deve garantire a tutti per rendere effettiva la democrazia? Sembrerebbe proprio il soggetto consapevole che incontriamo nella Costituzione, e anche nelle linee di indirizzo del sistema educativo italiano, quando fanno consistere la prima finalità della scuola dell'obbligo nella "formazione dell'uomo e del cittadino".

Non dovrebbe essere difficile, giunti a questo punto, intuire perché la pedagogia del gambero sia in realtà un'antipedagogia, e il riformismo che abbiamo conosciuto negli ultimi anni un controriformismo eurista, diretto ad affermare, con l'eteronomia scolastica, l'assoggettamento della scuola italiana a finalità che le sono estranee.