giovedì 19 luglio 2018

Atto di indirizzo con autogol

Anche quest'anno, insieme alle ferie, torna il portfolio. Ci hanno fatto sapere, però, che la documentazione da produrre sarà più semplice e "snella". Preparatevi al peggio quando sentite questo aggettivo. Infatti gli allegati non sono affatto diminuiti, e nella rosa dei preferiti spicca ancora l'Atto (atto di indirizzo al Collegio docenti per l’elaborazione del PTOF). L'Atto ci vuole. Il Sistema Nazionale lo richiede. Sembra indispensabile per la valutazione del dirigente. Conta almeno quanto la tesina alla maturità e le tavole di artistica e tecnica all'esame del primo ciclo. Chi aspira a una bella pagella non può quindi dimenticarlo a casa. Sì, pagella, come dice il neo-ministro, in sorridente continuità con chi lo ha preceduto.
La richiesta dell'Atto, giustificata da uno dei commi più controversi e mal scritti della legge 107, mi riporta in un tempo lontano, alle prime sperimentazioni dell'autonomia scolastica. Ma sono passati vent'anni... eppure il ricordo ha resistito.

Ricordando l'autonomia del tempo che fu...
Nel 1998 collaboravo a Milano, in via Dandolo, a uno sportello di consulenza e di documentazione sull'autonomia. Si incontravano presidi e docenti, in genere per avviare progetti finanziabili ex legge 440/97 (finanziamenti che oggi non ci sono più). Insieme ad altri colleghi rispondevo a quesiti sul tema (il Regolamento dell'autonomia scolastica ancora non esisteva e sarebbe stato approvato l'anno seguente). Le domande venivano da interlocutori già informati, non erano banali e rendevano questo lavoro piuttosto interessante, e talvolta gratificante.
Un giorno, però, un vecchio e pittoresco preside, che qualcuno (crudelmente) aveva ribattezzato Capoccia, si è presentato per assillarci con un problema a suo dire davvero inquietante: con quale atto, legittimo e inattaccabile, il dirigente avrebbe potuto ordinare al collegio dei docenti di scrivere il POF, o di riscriverlo se non fosse venuto bene, mettendo in riga gli eventuali docenti contestatori? Con una semplice circolare? Troppo poco. Un incarico cumulativo? Proprio no. Una determina dirigenziale? Non è il caso. Un ordine di servizio? Meno che mai. Un appello, o esortazione, o richiamo? Improbabile. Magari un decreto? Impugnabile. Meglio una direttiva, allora? Forse sì, forse no. Morale: non esisteva un atto appropriato che il preside potesse autorevolmente invocare a tutela della scrittura del POF. E quando manca l'Atto, l'Atto consacrato dalla Legge, l'Atto con la A imperativamente maiuscola, il "vulnus" è insanabile, secondo la cultura dell'adempimento e di quel mondo di scartafacci da cui Capoccia proveniva. Delle due l'una, concludeva, o il nodo sarà sciolto o l'autonomia scolastica non funzionerà.
Non ricordo che cosa ho risposto quella volta a Capoccia, ma penso che alla fine qualcuno gli abbia detto che l'autonomia stava appunto nascendo per cancellare questo genere di problemi. Lascia perdere, Capoccia, l'Atto non serve, meglio invece cambiare la testa prima della legge.

Il ritorno del preside Capoccia
Ho ripensato al lontano episodio tempo fa, quando, nell'elenco dei documenti da allegare al portfolio del dirigente di cui alla Buona Scuola, ho letto, in prima posizione: "Atto di indirizzo al Collegio docenti per l’elaborazione del PTOF". Ho riflettuto su questa circostanza. Ma è tornato Capoccia? Lo hanno messo a coordinare il Sistema Nazionale di Valutazione adesso? Ma non era andato in pensione 16 anni fa?
Va sottolineato che, dal punto di vista dell'autonomia scolastica, oggi come ai tempi di Capoccia, un simile Atto è un non senso, che dimostra di per sé, per il solo fatto di esistere, una mancata comprensione del problema (e del tema: la direzione della scuola quale organizzazione complessa e impresa collettiva). E questo dirò nell'allegato al portfolio, un tentativo di resistenza attiva alla pedagogia del gambero. Riprenderò una mia comunicazione dell'anno scorso agli organi collegiali, scritta a partire da una presa di posizione di De Mauro, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche (forse proprio l'ultima). Chi vuole trova tutto in questa pagina introduttiva del blog, dedicata al ruolo del dirigente.
Ora, però, si tratta di spiegare in modo più sintetico e diretto perché cadere nella trappola dell'Atto rappresenta per il preside un vero autogol.

Un autogol alla moviola
Dal punto di vista dell'autonomia scolastica un dirigente che emana l'Atto, che definisce e comunica gli indirizzi del piano formativo prima di convocare gli organi collegiali, è un masochista, vuole fare autogol. Questa intenzione, oltre che pericolosa, è immotivata se si considera che il consiglio di istituto e il collegio dei docenti, ciascuno per la sua parte, sono competenti in materia, in senso tecnico e giuridico. Tanto che, in caso di conflitto, per giurisprudenza consolidata è il preside a soccombere. Il diritto che vige nei nostri istituti funziona ancora così, e la legge 107, pur pasticciando sul punto, non è riuscita a demolire il principio della collegialità, che continua a costituire la base della democrazia nelle scuole. Chi ha qualche dubbio si legga la pagina consigliata.
Ma anche se ciò non fosse vero, se anche fosse consentito dalla legge, a un incauto dirigente, di stabilire in modo unilaterale la linea del proprio istituto, a chi gioverebbe questa novità? Chi se ne avvantaggerebbe? Chi ne uscirebbe indebolito?
Una simile azione, rivista al rallentatore sul campo dell'autonomia scolastica (alla moviola), porta a un autogol del preside, e a una perdita della sua influenza a vantaggio degli apparati (amministrativi e sindacali). Va perciò valutata e analizzata nelle sue conseguenze con molta attenzione.
Il senso dell'autonomia si esprime soprattutto nella definizione di un piano formativo di istituto. Il piano non consiste nell'applicazione di una serie di regole, come una decisione tecnica, ma nasce dall'incontro di una pluralità di esigenze e di soggetti, come un percorso di crescita civile e democratica. In questa prospettiva il dirigente diventa un "facilitatore di processo", così si diceva una volta: un animatore di gruppi di ricerca, un costruttore di consenso, un mediatore di conflitti, e insomma il leader educativo e democratico capace di far nascere un progetto di scuola, in cui si riconoscono una comunità e un territorio. Dopo di che, una volta che la linea abbia preso forma nelle deliberazioni degli organi collegiali, il preside ne garantirà l'attuazione con autonomi poteri di coordinamento e di direzione, ma durante e dopo il processo, e non prima, con un atto unilaterale.
Se l'operazione ha successo deve apparire, all'interno e all'esterno dell'istituzione, che gli indirizzi del piano formativo non sono la linea del dirigente, ma della scuola, impresa collettiva. Uso il termine "impresa" non in senso aziendalista ma nel significato che gli ha attribuito Piero Romei, come viene spiegato qui.
Da questa legittimazione collettiva deriva l'influenza del preside, e, se vogliamo, il suo effettivo "potere": l'autorevolezza di chi, costruito il consenso, parla e agisce a nome di un organismo statale autonomo, per conto di famiglie, studenti, docenti, personale scolastico. Grazie alla convergenza di queste componenti il suo peso politico, la sua forza contrattuale e il suo ruolo sociale possono essere incisivi. 
Se tutto ciò viene meno, se nel progetto di istituto c'è solo la volontà del preside (l'Atto), o un mero sapere tecnico veicolato dall'amministrazione, la sua funzione perde quasi tutto il suo valore. Non resta che l'appartenenza a un apparato. Diremo allora che il dirigente è un tecnocrate che rappresenta bene se stesso, quando è bravo, oppure che è un passacarte oppresso dai regolamenti e dalla burocrazia, quando è meno bravo, ma in un caso e nell'altro sarà figura di apparato.
Anzi di apparati, perché alla fine saranno il Miur e i sindacati, contrattando, a decidere per lui.

Perché questa insistenza sull'Atto?
Eppure, nonostante l'Atto non giovi al prestigio e all'autorevolezza del dirigente, il Sistema Nazionale di Valutazione si ostina a richiederlo. Ha promesso di semplificare e di alleggerire tanta inutile documentazione, ma l'Atto no, l'Atto deve rimanere. Come Capoccia, ci tengono proprio. E perché mai?
La risposta, secondo me, non riguarda la pedagogia, né la teoria delle organizzazioni complesse. Mi sembra invece che il problema sia il solito: il contenimento della spesa pubblica. E d'altra parte, da vent'anni, questo è il solo, vero punto all'ordine del giorno del Miur, e per completezza anche degli altri ministeri, raccolti nel dicastero unico dell'euro-miseria e austerità: come tagliare, dove tagliare, perché è bello tagliare, e come si fa a dimostrare che è progressista e innovativo tagliare, e come dire che non si è tagliato abbastanza per potere domani di nuovo tagliare...
Posta la tagliente premessa, voglio farvi un piccolo test (metodologia InFalsi).
Immaginate di essere a capo di un paese che, a seguito di un ambizioso ma incauto accordo internazionale, ha agganciato la propria economia del Sud ad altre più competitive e aggressive del Nord, e ha accettato, addirittura, di adottare la loro moneta, credendo, sulla base di un ragionamento temerario, di guadagnarci. Ma ormai è chiaro, non si guadagna alcunché, anzi si paga, perché a guadagnarci sono solo loro, quelli del Nord (e d'altra parte mai avrebbero accettato l'accordo, da una posizione di forza, se non fossero stati sicuri, fin dall'inizio, che sarebbe andata così). Credevate di essere molto furbi ma la storia ha dimostrato che non lo siete affatto. Potreste arrendervi e dichiarare il vero ("scusate tanto se abbiamo fatto l'ennesima cazzata per somigliare ai tedeschi"), ma avete paura a confessarlo e magari temete che qualcuno (un populista?) vi appenda a testa in giù in una piazza (e non è una semplice ipotesi, è già successo). Come cavarsela?
Un tempo, per recuperare competitività di fronte ai disciplinati lavoratori teutonici pronti a qualsiasi sacrificio, si poteva svalutare la moneta. Ma da quando la moneta è comune (o meglio da quando noi abbiamo adottato incautamente la loro, e dobbiamo farcela imprestare a caro prezzo) non si può più. Non resta che svalutare il lavoro, gli stipendi e le pensioni, e ridurre i servizi, la sanità e la scuola, le spese dello stato e gli investimenti per i progetti, e dunque anche il PTOF.
E veniamo adesso alla domanda del test. Dovendo tagliare il PTOF, chi preferireste avere di fronte, come controparte?
a) Un dirigente che parla a nome di un territorio, in riferimento a indirizzi condivisi, seguiti da mille famiglie, da 150 insegnanti, dagli studenti, da un'amministrazione comunale e da svariate associazioni.
b) Un tecnico che rappresenta principalmente se stesso, e che risponde della propria linea svincolato dall'ambiente in cui lavora, ma supportato e valutato da voi, sulla base di obiettivi e di procedure di cui avete il pieno controllo.
Barrare la casella che interessa. Ma, è evidente, si tratta di una domanda retorica, che già contiene la risposta.

Considerazione conclusiva (triste)
Chi ricorda le ragioni dell'autonomia non può cadere nella trappola dell'Atto, che conduce a un autogol.
Ciò suggerisce però una conclusione ben triste, in quanto il puro e semplice funzionamento dell'autonomia scolastica, in applicazione di alcune vecchie leggi e di un regolamento ancora vigente nonostante tutto, è diventato oggi un'azione di resistenza attiva alla pedagogia del gambero. Vent'anni fa, invece, chi illustrava queste posizioni in via Dandolo (sede del Nucleo provinciale di Milano per l'autonomia) veniva visto come un ortodosso funzionario dello Stato, un po' noioso e forse troppo fedele all'ufficio che gli assicurava il pane. Ah, come cambia il mondo, procedendo a grandi passi (all'indietro). Chi lo avrebbe mai detto nel 1998?
Ma non dimentichiamo che allora l'Italia riusciva ancora a crescere, non valevano le attuali regole di bilancio (o sbilancio) europee, e non c'era l'euro. Vivendo in un paese autonomo sembrava normale parlare di autonomia. Anche se, bisogna riconoscerlo, l'aggancio del 1997 della lira all'ECU, cioè al marco travestito, che per noi rappresentava una dolorosa rivalutazione della moneta e per i tedeschi una comoda svalutazione pro export futuro, cominciava già a darci qualche problema. Noi, però, facendo consulenza in via Dandolo, parlando quasi esclusivamente di scuola e non avendo letto né Stiglitz né De Grauwe, non ce ne accorgevamo, usi ad "ardere d'inconsapevolezza nelle distese pianure", almeno dal punto di vista macroeconomico, come Ungaretti prima della Grande Guerra.

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