Azioni di resistenza attiva

Si può ben dire che ormai da più di venti anni la scuola italiana è sotto attacco. Che il sistema educativo debba essere ridimensionato, e soprattutto definanziato, come ogni altra creatura dello Stato sociale, è cosa ovvia dal punto di vista del liberismo europeo. Statale uguale male. Privato uguale bene. Riformare per progredire uguale privatizzare. Difendere i beni pubblici dalle privatizzazioni uguale opporsi al progresso. Privati: produttivi, attivi, responsabili, risparmiatori. Statali: improduttivi, fannulloni, corrotti, spendaccioni. Chi è d'accordo ha ragione, è tornato alla realtà. Chi invece non ci sta è populista, è fuori dalla realtà, se non è fascista è comunista, e se non è protezionista è statalista, è comunque un nazionalista. Chi è nazionalista deve tornare alla realtà.
Non importa dire che queste semplici equazioni non avranno mai successo nel mondo della scuola, se non altro perché è un mondo quasi interamente statale, e non bisogna nemmeno rallegrarsi del fatto che le riforme ispirate da un simile "ritorno alla realtà" siano destinate a fallire. Se è vero, infatti, che falliscono proprio in quanto in contrasto con quella stessa "realtà" che continuamente invocano, è altrettanto vero che qualcosa rimane. La sintesi fondamentale, cioè "Mercato buono, no-Mercato no-buono", circolando in varie forme entra nelle teste, riempie i vuoti. E nelle teste ci sono molti vuoti. Questo riformismo è fallimentare, strutturalmente incompiuto, ma l'ideologia che lo ispira è dura a morire.

Resistenza passiva al riformismo incompiuto

Nell'ultimo ventennio la scuola ha subito vari e contrapposti tentativi di riforma, ma tutti di ispirazione neoliberista e assoggettati a severi vincoli di spesa euro-indotti, dal momento che l'Italia ha rinunciato a una politica economica e finanziaria autonoma. I tentativi non sono riusciti, o sono riusciti solo parzialmente e mai in modo convincente, perché incompatibili con la complessità (democratica) di un sistema costruito su altri principi, quelli della Costituzione. Un sistema che non si lascia scardinare rapidamente. Il personale scolastico si è di conseguenza abituato a lavorare in un clima di fallimento annunciato, di transizione infinita, di riformismo inconcludente per natura. Le scuole non si dirigono più applicando le norme approvate: quelle sono solo ipotesi, vaghe intenzioni, titoli di giornale, lontane promesse (o più spesso minacce) che per il momento, e per fortuna, non si sa come attuare, ma già si sa, in compenso, che non potranno entrare in vigore senza altre, preliminari riforme. Per il presente si fa allora come prima, e nel futuro, se ci sarà, in assenza di un quadro sicuro, ci rifaremo verosimilmente al presente. Si determina così un'abitudine all'incompiutezza, un galleggiamento tra leggi in conflitto, una stagnazione nell'indefinito: è l'immagine della deflazione, della scuola ai tempi della grande depressione.
Negli ultimi venti anni il sistema formativo ha imparato a difendersi prendendo tempo. La scuola va avanti e si autoriproduce né grazie al Miur né contro il Miur, ma nonostante il Miur. Le tentate riforme, che differiscono nei dettagli ma hanno in comune lo stesso obiettivo e le stesse parole d'ordine (vedi pagina introduttiva sulla pedagogia del gambero), sono solo un disturbo, per un mondo che sembra vivere di vita propria, che assorbe i danni e che va avanti da sé, nel bene e nel male, per interna inerzia. Più che di riforme stiamo parlando di fastidiosi incidenti, di "rogne" come le chiamano i burocrati. Ma una cosa è certa: non hanno le gambe per camminare e se non possono funzionare è perché, come si suol dire, "il difetto sta nel manico". Fanno perdere tanto tempo, questo sì, ma è meglio aspettare che si sgonfino da sé piuttosto che sprecare inutilmente energie in una faticosa battaglia, e se non provocano ribellioni è solo perché non vengono credute.
Questa è la resistenza passiva, il sentimento che si è impadronito delle scuole. Nessuno lo ha progettato come una strategia. Moltissimi lo stanno vivendo come una necessità, che si è trasformata in un'abitudine. Ma ci conviene?

Resistenza attiva alla pedagogia del gambero

La resistenza passiva non conviene alla scuola, perché, se è vero che le riforme non hanno successo e non vanno mai a regime, è anche vero che qualcosa rimane. Rimane il loro comune denominatore, l'accettazione dell'eteronomia, del vincolo esterno che l'Italia è costretta a sopportare, un vincolo finanziario che vede nell'istruzione una fonte di spesa improduttiva, che può e deve essere illimitatamente compressa. Alla scuola tocca dunque un destino di tagli che i governi sono chiamati a motivare, a consolidare e ad ampliare gradualmente, dimostrandone la necessità e l'utilità in vista di un bene futuro, di un risanamento senza fine, di una ripresa sempre annunciata come imminente ma sempre rinviata. La destra e la sinistra useranno allo scopo argomenti diversi (nel sistema di governance europeo i compiti della destra e della sinistra consistono appunto nel fare la stessa cosa con parole contrapposte, simulando una dialettica democratica), ma l'importante è che non si torni indietro sulle cose che contano, che non possono essere lasciate alla democrazia, con tutte le incertezze che ciò comporta. Che sia ben chiaro: i tagli, una volta fatti, devono essere mantenuti. Devono diventare (o meglio sembrare) scelte irreversibili.
La resistenza passiva non conviene, allora, perché lascia intatto il clima politico e culturale da cui nascono le riforme infinite e fallite, che hanno come primo obiettivo non il successo della volubile volontà riformatrice ma il mantenimento dell'attuale livello insufficiente di spesa pubblica per l'istruzione, che, nella prima metà degli anni Novanta, gli anni dei governi tecnici Ciampi, Amato, Dini, è scesa un punto di PIL al di sotto della media dei paesi europei (a loro volta impegnati, salvo rare eccezioni, in tagli neoliberisti) e qui si è stabilmente mantenuta, con poche oscillazioni, fino ad oggi.
Per tornare allo stesso rapporto tra PIL e spesa per l'istruzione del 1990 (5,4%) occorrerebbero più di 15 miliardi, una cifra improponibile. Dopo due decenni di propaganda governativa tesa a dimostrare che la scuola è uno "spendificio" (secondo una nota espressione usata dalla Gelmini) una simile richiesta viene considerata "fuori dalla realtà" nell'opinione corrente. Ed è appunto questa "realtà" dell'opinione corrente a costituire la base materiale e ideologica della pedagogia del gambero, che andrebbe attaccata e demolita, ma per farlo è necessario passare alla resistenza attiva.

Un progetto di resistenza attiva alla pedagogia del gambero deve a mio avviso svilupparsi lungo tre linee di azione: 
1. Gestione partecipata delle scuole, che significa organizzare una chiara opposizione sul campo alla governance di tipo aziendalista e di ispirazione neoliberista, culminata nella "Buona Scuola";
 2. Difesa dell'autonomia scolastica, che significa mantenimento e pieno esercizio degli spazi di autonomia ancora possibili, dal momento che la normativa vigente, per quanto sotto attacco, continua a consentirlo; 
3. Educazione alla cittadinanza italiana, che significa riconoscimento della distinzione, oggi andata perduta, tra il nazionalismo, che è un sentimento negativo (da contrastare), e l'interesse nazionale, che è un punto di partenza indispensabile per la democrazia (da coltivare), e consiste nella condivisione degli stessi principi e diritti costituzionali, che rappresentano il significato concreto della cittadinanza.
Nello sviluppo di quest'ultimo punto è inevitabile incontrare i temi dell'Europa e dell'euro, che, contrariamente a quanto affermato dall'apologetica europeista, non sono in armonia. L'euro, così com'è, si sta dimostrando disfunzionale per l'Unione europea e lavora per la sua disgregazione. Un pericolo di tale rilievo non può essere ignorato dall'educazione alla cittadinanza. Non si tratta di fare delle scuole una rampa di lancio per una campagna contro la moneta unica. Ma nemmeno si può permettere il contrario, come fino ad oggi è avvenuto, in tutte le pubblicazioni del Miur, in tutti i progetti, in tutte le iniziative sul tema, che sono pura propaganda, e di livello basso. Il sistema educativo statale non può rimanere un veicolo di indottrinamento acritico per il mantenimento di una situazione contraria all'interesse nazionale, attraverso un'apologia dell'esistente che penetra perfino nei sussidiari della scuola primaria, come accade nei regimi totalitari.
La moneta unica, in particolare, deve essere considerata senza nascondere il suo attuale processo di dissolvimento. Non si tratta di uscire unilateralmente dall'euro, ma di comprendere che, nel mantenimento dell'attuale situazione, il suo tracollo è inevitabile: non è il frutto dei nazionalismi e dei populismi, che ne sono casomai il risultato, ma dipende dalla sua stessa, insostenibile conformazione. La sua fine comporterà non solo conseguenze nell'economia, ma anche nel pensiero corrente e nella vita quotidiana, con un cambio di paradigma di grande portata, nella valutazione della storia recente, nella percezione dei diritti, nei rapporti sociali.
La scuola, almeno nella sua parte più consapevole, dovrà essere pronta al cambiamento, e perfino a favorirlo in forma pacifica e costruttiva. Ma per essere pronti occorre prepararsi.

1. Partecipazione contro governance

Riguardo al primo punto: va chiarito che una gestione democratica delle istituzioni scolastiche non è compatibile con una governance liberista, e in particolare con la cosiddetta "Buona Scuola".
L'attuale organizzazione della scuola è stata disegnata negli anni Sessanta e Settanta, sotto la spinta dei valori costituzionali. Mira alla costruzione di un ordinamento senza dispersione, che estenda a tutti un diritto sostanziale allo studio e alla formazione. Il modello di gestione è di tipo partecipativo, affidato a organi collegiali che rappresentano tutte le componenti della comunità scolastica. L'esigenza di garantire il successo formativo a un numero crescente di studenti rende il sistema necessariamente espansivo e inclusivo, e richiede un progressivo impegno statale (ovviamente anche finanziario) nella pubblica istruzione.
Da questo impegno è nata la scuola di massa, strutturalmente legata a investimenti crescenti, sul presupposto che l'istruzione, anche intesa come istruzione permanente o educazione degli adulti, sia un fondamentale fattore di sviluppo. Il liberismo avversa invece una simile impostazione, si propone di restringere l'intervento pubblico, di limitarne le spese e di indirizzare le risorse così recuperate (o distratte) verso impieghi che si considerano più produttivi.
L'austerità che ne deriva vede nella scuola una spesa improduttiva e nell'istruzione finanziata e organizzata dallo Stato un passivo generatore di debito. Un'idea che, nell'attuale contesto politico e sociale, non è però presentabile in forma così cruda. Ciò non sembra prudente, come insegna quanto è avvenuto negli ultimi anni, vista la forte opposizione alle ministre Gelmini e Giannini, con proteste diffuse che hanno raccolto una notevole partecipazione da parte dell'opinione pubblica.
A questa insidiosa partecipazione non deve perciò contrapporsi un'azione apertamente repressiva o autoritaria, ma una governance in apparenza disposta al dialogo, come quella tentata senza successo con la "Buona Scuola", che ha però come obiettivo la graduale riduzione del diritto allo studio e dell'autonomia progettuale e finanziaria delle istituzioni scolastiche, presentando tagli e limitazioni, controriforme e numeri chiusi, come decisioni tecniche, misure neutre di adeguamento alle esigenze di una moderna economia, scelte obbligate e di buon senso per garantire efficienza ed efficacia, e un premio ai meritevoli.
La gestione partecipata delle scuole chiarisce il senso di questa mistificazione, e il carattere ideologico e non semplicemente tecnico delle sue parole d'ordine.

2. Autonomia contro eteronomia

Riguardo al secondo punto: l'autonomia scolastica, che concepisce la formazione come un investimento produttivo e finanzia direttamente le singole unità scolastiche, è incompatibile con il regime di tagli alla spesa imposto alla pubblica istruzione.
L'autonomia, approvata alla fine degli anni Novanta e solo in parte sperimentata, prevedeva infatti per le scuole (e prevede, perché è ancora vigente, anche se disattesa) poteri e profili di organizzazione didattica, di ricerca e di spesa che comportano un potenziamento del sistema educativo, la sua articolazione in istituzioni democratiche dotate di personalità giuridica, un'azione di decentramento con nuovi investimenti per la formazione.
Avendo stimolato la progettualità, e soprattutto moltiplicato i punti di spesa, l'autonomia rappresenta di conseguenza un serio pericolo per la governance europea, in quanto inevitabilmente agisce come espansione di una domanda che si vuole invece reprimere, in obbedienza ai dogmi monetaristi e per il rispetto dei vincoli di bilancio determinati dalle politiche di austerità.
Da qui la contraddizione interna alla "Buona scuola", che è in contrasto con la sua stessa premessa: da una parte, non avendo politicamente la forza per sopprimere l'autonomia, subdolamente dichiara di esserne la "piena attuazione" e ne conferma l'impianto; dall'altra parte, nel medesimo tempo, cerca di sottrarre spazio all'iniziativa delle singole unità scolastiche, assoggettandole a controlli, limitazioni, condizionamenti, con il ritorno a pratiche e a forme organizzative obsolete, al centralismo burocratico e alla cultura dell'adempimento.
Questo intento restauratore, contrario all'autonomia e indirizzato ad accentrare gestione e spese, si sviluppa in due direzioni: verso il dirigente scolastico e verso gli organi collegiali.
Verso il preside aumentano a vista d'occhio le molestie burocratiche, le richieste ministeriali, le direttive, i monitoraggi, i questionari, le scadenze, le conferenze, gli aggiornamenti, le pubblicazioni, la compilazione di moduli, form, tabelle, relazioni, modelli. Un'incessante proliferazione degli adempimenti che porta il dirigente ad agire sempre più all'esterno dell'istituto, in risposta a stimoli provenienti dall'amministrazione centrale, privi di qualsiasi ricaduta pratica, e sempre meno in riferimento alle esigenze espresse dall'interno, dagli studenti e dagli insegnanti. La strada che si cerca di percorrere, con giustificazioni di tipo tecnocratico, è quella del ritorno al preside terminale del ministero e funzionario amministrativo, anche tentando di intimidire i più sprovveduti e i più inesperti con il peso delle responsabilità, sempre però collegate alla mera compilazione di qualcosa di preconfezionato (o form o modulo o modello), e perfino lasciando credere che il rifiuto delle vuote procedure moltiplicate dalla "Buona scuola" potrebbe comportare delle conseguenze sul piano della valutazione del merito (un merito che consiste, a sua volta, nel presentare documenti e compilare una serie di form).
Verso gli organi collegiali si percepisce invece un malcelato disprezzo, incapace tuttavia di tradursi apertamente in legge, a causa della già citata impotenza politica. Anche se a denti stretti, la gestione collegiale delle scuole viene dunque confermata, ma al tempo stesso disturbata.
A tale scopo, in sovrapposizione alla legittima (e vigente) autonomia scolastica, viene creato un mostriciattolo burocratico, tanto inconsistente sul piano giuridico quanto fastidioso nella cattiva pratica quotidiana: la rete di ambito territoriale calata dall'alto, priva di personalità giuridica e incapace di operare, ma destinataria di contributi ministeriali, vaghi compiti, incerte attribuzioni, al solo scopo di centralizzare i progetti, le funzioni amministrative, l'aggiornamento del personale. Si intende così ricondurre l'iniziativa delle istituzioni scolastiche a una governance esterna, all'eteronomia, dove la preoccupazione principale è contenere i costi.
Fare funzionare l'autonomia scolastica, che non è mai stata abrogata, non è però vietato. Nel farlo si è anzi dalla parte del diritto più di chi ha scritto il tormentato comma 69 (reti di ambito) della legge 107/15.
Pertanto: il concreto esercizio dell'autonomia, che è ancora possibile, non può che agire contro la cosiddetta "Buona Scuola", e ai sensi della stessa "Buona scuola". Strano ma vero.

3. Educazione alla cittadinanza italiana

Riguardo al terzo punto: l'educazione alla cittadinanza, che secondo le indicazioni nazionali è incentrata sulla Costituzione, deve metterne coerentemente in luce i principi, molto lontani da quelli di Maastricht. Non vi è compatibilità tra le regole dell'Italia e quelle dell'Unione europea. La continuità che si dà per scontata quando si usano espressioni come "cittadinanza italiana ed europea" viene propagandata nascondendo fratture e problemi ben lontani da una soluzione. Comunicare il senso di questa problematicità è il più importante obiettivo della disciplina.

Va in particolare studiata e smontata l'apologetica eurista, alla radice della confusione tra europeismo ed eurismo.
Un grande successo del cartello internazionale ordoliberista che ha imposto l'euro all'Europa, attraverso un processo non democratico e non trasparente, è rappresentato dalla confusione tra i due piani: euro ed Europa, eurismo ed europeismo, grazie alla propaganda, sono diventati un tutt'uno. L'Europa stessa sembra aver preso come iniziale, nell'immaginario collettivo, il simbolo monetario:
Europa = €uropa
e di conseguenza: Europeismo = €urismo
Non c'è più distinzione, e la cancellazione di questa differenza ha prodotto conseguenze molto gravi non solo nell'economia, ma anche nel nostro modo di vivere e di pensare.
L'euro viene così percepito come il naturale prolungamento di un sentimento di pace, che ha portato nazioni una volta nemiche a cooperare, finalmente, a riconoscersi e a unirsi all'interno di un solo spazio solidale. Moneta unica e cooperazione: le due cose vanno insieme, e se ne manca una viene meno anche l'altra. Non è previsto che qualcuno possa essere europeista e al tempo stesso contrario all'euro. Sarebbe un non senso.
Questa falsa percezione, costruita negli anni attraverso l'azione congiunta dei governi, della finanza, degli economisti di regime e degli opinionisti dei principali quotidiani, che generalmente coincidono, viene ormai percepita come un dato acquisito: vera, ovvia, reale. Anzi è la stessa realtà, confermata dagli pseudoscienziati. Non è più ragionevole metterla in discussione. Chi lo fa è scorretto, irresponsabile, negletto: è un populista, un nazionalista, anche un fascista, anzi no un vetero-comunista, di sicuro un neo-razzista, e comunque un animale.
La scuola è stata spesso usata dalla propaganda come veicolo per la diffusione di questa mistificazione. Le scuole sono luoghi ideali per la cooperazione, la solidarietà, il cosmopolitismo, la fratellanza universale, e quando insegnanti di nazionalità diverse si incontrano per lavorare insieme sentiamo parlare di cooperative learning, di inclusive education, di centralità dell'allievo nel progetto educativo. I docenti europei parlano lo stesso linguaggio, democratico e inclusivo. In questo clima culturale, internazionalista, cooperativo e solidale, è conveniente presentare l'euro come un prodotto affine, destinato ad agire nella medesima direzione. Assorti nei loro pensieri, a tutto interessati fuorché all'economia, i professori, gli educatori, le maestre possono facilmente cadere nella trappola, almeno all'inizio.
Ma l'euro, ingessato nei parametri di Maastricht, può essere tutto, fuorché cooperativo, solidale, inclusivo. L'ideologia ordoliberista che lo ha concepito si fonda infatti sull'idea contraria, irrigidita in una metafisica del denaro di stampo monetarista e in un'etica della competitività e della concorrenza: sarà perciò la rigorosa ricerca del proprio profitto (personale, aziendale, nazionale), e non certo la cooperazione, a determinare il migliore risultato per tutti, e a stabilire secondo i giusti rapporti di forza le legittime gerarchie; sarà la competizione tra stati, e non la solidarietà, la condizione per il mantenimento di una moneta comune; sarà lo stato più forte, più ricco e più disciplinato (e quindi la Germania) a dettare le regole agli altri.
Risorge nell'euro l'eurocentrica volontà di dominio, e in essa, giustificato e nascosto dietro il paravento europeista, il suo frutto più pericoloso: il nazionalismo tedesco, questa volta in versione leggera, mercantilista e non militarista (non panzer ma spread), ma (come le altre volte) irremovibile, lanciato verso un destino di iniziale conquista e di finale rovina (appunto come le altre volte), in questo caso con le armi dell'export e del surplus.
Una storia che nelle università e nelle scuole è ricordata meglio che altrove. La propaganda eurista, che spesso ha fatto breccia tra i professori, proprio qui trova un terreno insidioso, dove più efficacemente può essere riconosciuta e respinta; non sui giornali e in televisione, ma a scuola, nel sistema formativo, dove ancora riescono a riprodursi gli anticorpi della critica, della ricerca, della memoria.
Formazione contro propaganda: se non a scuola, dove?