Alla scuola degli organi collegiali e della partecipazione, nata dai decreti delegati del 1974, e all'autonomia teorizzata e sperimentata nel corso degli anni Novanta, la legge 107/15 ha sovrapposto il progetto di un dirigente tecnocrate, incompatibile con la democrazia scolastica e risultato di un'involuzione autoritaria, che propone il ritorno alla cultura dell'adempimento e della subordinazione gerarchica: non autodeterminazione delle scuole ma obbedienza a vincoli esterni (mercato, concorrenza, profitto, €uropa); non collegialità ma governance aziendalista; non autonomia ma eteronomia.
Una simile, improponibile figura non può che essere respinta al mittente, e chi aspira a darle corpo si prepari ad essere sconfitto e posto ai margini della comunità scolastica proprio grazie a quel metodo democratico che intende sopprimere. Questa pagina spiega come ciò stia già accadendo, visti gli insuccessi della sedicente Buona Scuola, e come una dirigenza orientata all'autonomia convenga al sistema formativo italiano, per rientrare nel solco della Costituzione, ponendo fine alla lunga stagione della pedagogia del gambero.
Una simile, improponibile figura non può che essere respinta al mittente, e chi aspira a darle corpo si prepari ad essere sconfitto e posto ai margini della comunità scolastica proprio grazie a quel metodo democratico che intende sopprimere. Questa pagina spiega come ciò stia già accadendo, visti gli insuccessi della sedicente Buona Scuola, e come una dirigenza orientata all'autonomia convenga al sistema formativo italiano, per rientrare nel solco della Costituzione, ponendo fine alla lunga stagione della pedagogia del gambero.
Dal preside manager al preside Pontifex
Tullio De Mauro in una delle sue ultime interviste (potete trovarla qui) ha osservato che con la legge 107/15 si delineava per il dirigente scolastico, in passato già promosso manager, un potere paragonabile a quello del pontefice (Pontifex) nella Chiesa Romana. Il preside si trovava ad amministrare soldi con cui premiare questo o quello, a decidere sulle materie di insegnamento, a stabilire che cosa devono fare i professori, senza contrappeso di sorta, come un organo monocratico con un potere assoluto. Un piccolo papa. "Una trovata curiosa," ha aggiunto l'ex ministro della Pubblica Istruzione, "che in un pezzo dello Stato ci sia un signore che è padrone di una fetta consistente di realtà. Non succede da nessun'altra parte..."
In effetti nel primo testo della proposta di legge presentata in Parlamento si leggeva:
"Nell'ambito dell'autonomia dell'istituzione scolastica, il dirigente scolastico ne assicura il buon andamento. A tale scopo, svolge compiti di gestione direzionale, organizzativa e di coordinamento ed è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio nonché delle scelte didattiche, formative e della valorizzazione delle risorse umane e del merito dei docenti."
Mancava qualsiasi riferimento all'esistenza degli organi collegiali della scuola. Più che collocarsi nell'ambito dell'autonomia scolastica la figura del dirigente sembrava prenderne il posto, sopprimendola a proprio vantaggio. L'intenzione risultava palese considerando quel che veniva previsto a proposito del piano dell'offerta formativa, il documento fondamentale che, secondo il regolamento DPR 275/99, è costitutivo dell'identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche autonome:
"Il Piano triennale è elaborato dal dirigente scolastico, sentiti il collegio dei docenti e il consiglio d’istituto, nonché con l’eventuale coinvolgimento dei principali attori economici, sociali e culturali del territorio."
Qui non possono esserci dubbi, è inequivocabile, anzi papale, vista la premessa: il piano che comprende un po' tutto, progetto educativo, linea della scuola, impiego delle risorse umane e finanziarie, lo decide e lo scrive il preside, punto e basta. Tutti gli altri (docenti compresi) vengono solo sentiti ed eventualmente coinvolti a discrezione della dirigenza.
Nell'ambito dell'autonomia, l'autonomia è di fatto soppressa.
Dal preside Pontifex all'eteronomia dirigenziale
Ora, chiunque conosca dall'interno il funzionamento della scuola, sa bene che questi testi non possono diventare legge. Ma se anche lo diventassero, e venissero approvati sovvertendo ogni sensato pronostico, si dimostrerebbero inapplicabili, perché in contrasto con il resto del diritto scolastico e con il sistema, la mentalità, le aspettative, l'orizzonte costituzionale, i valori diffusi che si sono affermati nei decenni e che costituiscono la nostra storia.
La legge 107/15, nella sua definitiva versione, compressa in un unico e disordinato articolo, si è vista pertanto costretta ad abbassare il tiro. Contrordine: niente preside Pontifex e restituzione del piano dell'offerta formativa al collegio dei docenti (che lo elabora) e al consiglio di istituto (che lo approva). Conseguenza: compiti del dirigente ridefiniti, nel comma 78, "nel rispetto delle competenze degli organi collegiali".
Tuttavia, nonostante questa poco lusinghiera retromarcia, la Buona Scuola non si è rassegnata a mantenere la figura del preside dentro i vecchi confini delineati dal testo unico 297/94, e per ribadire la volontà di potenziarla, mantenendo la promessa iniziale, in obbedienza all'ideologia tecnocratica e centralistica (e dunque né democratica né autonomistica) che pervade la legge, ha inserito nel testo del comma 14 un'ambigua formulazione, prevedendo che il piano venga elaborato "sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal dirigente scolastico".
Si tratta di una tendenziosa ridondanza, possibile fonte di equivoci. Infatti una volta che si è detto che il collegio elabora il piano, che il consiglio lo approva, che il dirigente svolge il suo ruolo nel rispetto delle competenze di questi due organi, si è detto tutto. Si è ribadito che il collegio stabilisce gli indirizzi didattici, il consiglio gli indirizzi più generali, mentre il preside, presente in entrambi gli organismi, ha compiti di coordinamento (e specifiche responsabilità gestionali e amministrative). Ma si sapeva già. La scuola continua a funzionare come funzionava già. Perché la Buona Scuola, nonostante la fuga in avanti iniziale poi rientrata, da questo punto di vista niente ha innovato.
E invece no, secondo alcuni. Un'interpretazione diffusa, ma sbagliata, dice infatti che la legge ha cambiato la posizione del dirigente. Adesso sarebbe finalmente lui, rafforzato dalla Buona Scuola, a definire gli indirizzi, mentre prima ciò non avveniva. Ma si tratta solo di un equivoco, che rivela in chi lo compie una scarsa dimestichezza con i principi del diritto. Va spiegato, invece, che il dirigente, se ci tiene, può definire oggi come in passato gli indirizzi della scuola, può riassumerli, può disegnarli, può anche cantarli se crede di avere una bella voce, o più modestamente scriverli nelle sue circolari, ma sempre tenendo conto che per esistere devono essere approvati, dal collegio e dal consiglio, che ne hanno la competenza.
Ammettiamo che in una sua circolare il preside definisca indirizzi della scuola diversi da quelli approvati nella delibera del consiglio di istituto. Il conflitto è presto risolto: vale quel che ha stabilito il consiglio. Prevale l'atto dell'organo competente. Prospettiamo invece il caso contrario. Il consiglio non approva il piano dell'offerta formativa presentato e ne respinge gli indirizzi. La decisione è pienamente legittima e il dirigente non ha strumenti per imporre la propria volontà diversi dalla persuasione e dalla ricerca del consenso. Prevale ancora l'organo competente.
Tutto ciò dovrebbe far comprendere che l'ambigua formulazione introdotta nel comma 14 lascia il tempo che trova. Chiaro?
E invece no. Se la legge 107/15 ha inserito nel suo testo questa superflua ambiguità è perché, nonostante le difficoltà incontrate nella difesa della sua prima e insostenibile versione, ha voluto mantenere l'obiettivo di una nuova dirigenza, non più orientata alla collegialità, all'autonomia e alla costruzione del consenso, ma ispirata a un modello di governance di matrice liberista ed europea, che presuppone l'azione di tecnocrati che, nel nome dell'efficienza, dell'austerità e della competitività, rispondono ad altri tecnocrati, nel consueto aggiramento dei controlli e delle regole della democrazia.
All'autonomia scolastica la Buona Scuola sovrappone il dirigente dell'eteronomia, un tecnico che definisce gli obiettivi in rapporto a vincoli esterni di funzionamento e di spesa, un burocrate subordinato a un direttore generale che gli assegna priorità e traguardi, desunti da ordini che a sua volta riceve dal ministero, in un ritorno a una visione centralistica e gerarchica del sistema formativo.
Più importante è osservare, invece, come i dirigenti scolastici non abbiano gradito il "nuovo" ruolo che la legge 107/15 ha previsto per loro, che spesso viene a coincidere con quello del parafulmine. Ne sono nate azioni spontanee di rifiuto. Ad esempio, riguardo all'obbligo di fornire l'atto di indirizzo per l'elaborazione del piano dell'offerta formativa, da consegnare tra i documenti previsti per la valutazione, si è sviluppata una reazione che possiamo classificare in tre tipi di comportamento: muro di gomma; disobbedienza civile; resistenza attiva.
Ammettiamo che in una sua circolare il preside definisca indirizzi della scuola diversi da quelli approvati nella delibera del consiglio di istituto. Il conflitto è presto risolto: vale quel che ha stabilito il consiglio. Prevale l'atto dell'organo competente. Prospettiamo invece il caso contrario. Il consiglio non approva il piano dell'offerta formativa presentato e ne respinge gli indirizzi. La decisione è pienamente legittima e il dirigente non ha strumenti per imporre la propria volontà diversi dalla persuasione e dalla ricerca del consenso. Prevale ancora l'organo competente.
Tutto ciò dovrebbe far comprendere che l'ambigua formulazione introdotta nel comma 14 lascia il tempo che trova. Chiaro?
E invece no. Se la legge 107/15 ha inserito nel suo testo questa superflua ambiguità è perché, nonostante le difficoltà incontrate nella difesa della sua prima e insostenibile versione, ha voluto mantenere l'obiettivo di una nuova dirigenza, non più orientata alla collegialità, all'autonomia e alla costruzione del consenso, ma ispirata a un modello di governance di matrice liberista ed europea, che presuppone l'azione di tecnocrati che, nel nome dell'efficienza, dell'austerità e della competitività, rispondono ad altri tecnocrati, nel consueto aggiramento dei controlli e delle regole della democrazia.
All'autonomia scolastica la Buona Scuola sovrappone il dirigente dell'eteronomia, un tecnico che definisce gli obiettivi in rapporto a vincoli esterni di funzionamento e di spesa, un burocrate subordinato a un direttore generale che gli assegna priorità e traguardi, desunti da ordini che a sua volta riceve dal ministero, in un ritorno a una visione centralistica e gerarchica del sistema formativo.
A un'attenta analisi, però, questo preside dell'eteronomia scolastica è stato posto dalla legge 107/15 in una ben scomoda posizione. Se l'intenzione era quella di potenziarne la figura, il risultato sembra diretto in senso contrario. La Buona Scuola fa spesso pensare all'eterogenesi dei fini, ottiene effetti opposti a quelli che si propone (e questo è in fondo il suo unico pregio).
Il dirigente, secondo il comma 14, deve "definire gli indirizzi" della scuola, e quest'atto sarà decisivo ai fini della sua valutazione, di cui al comma 92, e avrà ricadute sulla retribuzione di risultato. Ciò farebbe presumere che sia nel suo interesse conformarsi alle aspettative del proprio superiore gerarchico, il direttore regionale. D'altra parte, però, se gli indirizzi così definiti piacessero al direttore, ma non ai competenti organi collegiali, in un eventuale contenzioso le delibere dei secondi prevarrebbero sulle opinioni del primo in punto di diritto, e il preside avrebbe comunque torto ai sensi del comma 78. E non è una bella situazione.
La legge pretende un dirigente che impone con forza i "suoi" indirizzi (che devono poi coincidere coi "loro", cioè coi vincoli imposti dell'amministrazione centrale), ma non avendo la forza politica per smantellare la scuola della collegialità e dell'autonomia, lo pone tra due fuochi: da un lato un direttore che gli attribuisce responsabilità in materie su cui non ha autorità legale (o competenza giuridica), e su questo presupposto può anche aumentargli lo stipendio (oppure diminuirlo), dall'altro organi collegiali che in caso di conflitto possono smentirlo a buon diritto, delegittimandolo davanti alle altre componenti del sistema: è una vitaccia.
Da una parte un preside eteronomo, ma dall'altra una scuola ancora autonoma: è un pasticcio. Non potrà funzionare.Il dirigente, secondo il comma 14, deve "definire gli indirizzi" della scuola, e quest'atto sarà decisivo ai fini della sua valutazione, di cui al comma 92, e avrà ricadute sulla retribuzione di risultato. Ciò farebbe presumere che sia nel suo interesse conformarsi alle aspettative del proprio superiore gerarchico, il direttore regionale. D'altra parte, però, se gli indirizzi così definiti piacessero al direttore, ma non ai competenti organi collegiali, in un eventuale contenzioso le delibere dei secondi prevarrebbero sulle opinioni del primo in punto di diritto, e il preside avrebbe comunque torto ai sensi del comma 78. E non è una bella situazione.
La legge pretende un dirigente che impone con forza i "suoi" indirizzi (che devono poi coincidere coi "loro", cioè coi vincoli imposti dell'amministrazione centrale), ma non avendo la forza politica per smantellare la scuola della collegialità e dell'autonomia, lo pone tra due fuochi: da un lato un direttore che gli attribuisce responsabilità in materie su cui non ha autorità legale (o competenza giuridica), e su questo presupposto può anche aumentargli lo stipendio (oppure diminuirlo), dall'altro organi collegiali che in caso di conflitto possono smentirlo a buon diritto, delegittimandolo davanti alle altre componenti del sistema: è una vitaccia.
La resistenza all'eteronomia dirigenziale
Tralasciamo per il momento i pochi presidi al servizio dell'eteronomia dirigenziale, convinti di essere diventati più potenti grazie alla Buona Scuola. Ci sono, ma si tratta di una minoranza, in genere appartenente a una famiglia politica che va progressivamente assottigliandosi (dunque dei piddini parleremo un'altra volta).Più importante è osservare, invece, come i dirigenti scolastici non abbiano gradito il "nuovo" ruolo che la legge 107/15 ha previsto per loro, che spesso viene a coincidere con quello del parafulmine. Ne sono nate azioni spontanee di rifiuto. Ad esempio, riguardo all'obbligo di fornire l'atto di indirizzo per l'elaborazione del piano dell'offerta formativa, da consegnare tra i documenti previsti per la valutazione, si è sviluppata una reazione che possiamo classificare in tre tipi di comportamento: muro di gomma; disobbedienza civile; resistenza attiva.
La strategia del muro di gomma è certamente la forma di resistenza passiva più diffusa nella pubblica amministrazione. Consiste nel fingere di ottemperare agli obblighi indesiderati, ma in modo tale da svuotarli di significato, trasformandoli in meri adempimenti formali privi di contenuto e di conseguenze pratiche, tanto che, alla fine, la norma di partenza è completamente vanificata, e tutto è rimasto come prima. Nel caso in esame l'atto di indirizzo per l'elaborazione del PTOF è diventato un lungo elenco di premesse (vista la legge... il comma... la circolare... considerato che... atteso che... ritenuto che...) seguito da un copia-incolla di proponimenti. La diffusione di prestampati, modulistiche e facsimile, da parte di gruppi e associazioni, ha molto favorito questo approccio al problema.
Più coraggiosi e coerenti, nella resistenza passiva, sono stati i colleghi che hanno rifiutato la compilazione e l'invio del documento di indirizzo, e degli altri scartafacci richiesti per la valutazione, con un atto di disobbedienza civile. Una forma di lotta suggerita da alcuni sindacati, che ha fatto registrare un buon seguito, se si considera che ben il 33% dei dirigenti scolastici in servizio non ha soddisfatto le richieste dall'amministrazione, nonostante i ripetuti inviti ad ottemperare.
Chi scrive ha optato per una forma di resistenza attiva alla pedagogia del gambero, cogliendo la redazione delle linee di indirizzo del dirigente come un'occasione per contrastare la Buona Scuola, usando lo spazio di autonomia che non è stato abrogato e di cui le scuole ancora dispongono. Ne è nato il documento seguente, condiviso con gli organi collegiali, allegato ai verbali del collegio e alle deliberazioni di aggiornamento del PTOF nel 2016/17, e confermato nel corrente 2017/18, dove si definisce una linea di scuola opposta all'impianto ideologico che ha ispirato la legge 107/15:
Linee di
indirizzo per l’elaborazione del PTOF
Comunicazione
del DS al collegio dei docenti e al consiglio di istituto
La scuola è ancora un'istituzione democratica
(almeno per il momento e fino a nuovo ordine)
1. Definizione del problema
Nel corso
dell’anno scolastico 2014/2015 una previsione contenuta in una proposta di
legge (la prima stesura della 107/15) ha determinato forti proteste nel mondo
della scuola. Il testo in questione riguardava il ruolo del dirigente
nell'elaborazione del piano dell’offerta formativa, come descritto, in
particolare, nel seguente passaggio:
“Il Piano triennale è elaborato dal dirigente scolastico, sentiti il collegio dei docenti e il consiglio d’istituto, nonché con l’eventuale coinvolgimento dei principali attori economici, sociali e culturali del territorio.”
La
formulazione, ispirata dall'ideologia aziendalista, dirigista e liberista,
che da alcuni anni imperversa nella pubblica amministrazione, sottraendo l’elaborazione
e l’approvazione del piano agli organi collegiali (che venivano solo sentiti)
e rimettendola a un dirigente locale subordinato a un dirigente centrale,
liquidava di fatto la scuola della partecipazione e dell’autonomia, la scuola
intesa come comunità educativa.
Pur
mantenendo nominalmente un’autonomia di facciata, le unità scolastiche cessavano
di essere istituzioni pubbliche chiamate ad autodeterminarsi nell'unità delle
proprie componenti e uscivano dall'orizzonte democratico, inclusivo e
partecipativo, in cui
Contro questo
disegno reazionario e antidemocratico si sono pronunciati in molti. Tullio De
Mauro, in una delle sue ultime interviste, ha criticato con asprezza la
“novità” riguardante il dirigente scolastico, osservando che il suo ruolo era
simile a quello del pontefice nella Chiesa Romana:
“Il preside si trova ad amministrare soldi con cui premiare questo o quello, a decidere sulle materie di insegnamento, a stabilire che cosa devono fare i professori, senza contrappeso di sorta, come un organo monocratico con un potere assoluto… Una trovata curiosa che in un pezzo dello Stato ci sia un signore che è padrone di una fetta consistente di realtà. Non succede da nessun’altra parte..."
A ben
guardare, però, questa proposta di legge, incautamente autodefinitasi “Buona
Scuola”, finiva col delegittimare e indebolire anche la posizione del
preside, mentre dichiarava subdolamente di volerla rafforzare. Recidendo
infatti il suo legame con le altre componenti scolastiche e con gli organi
collegiali passava in secondo piano la principale fonte di influenza per il dirigente,
rappresentata dal consenso.
Nella “Buona
Scuola” il preside “pontefice” diventava un burocrate, o nella migliore delle
ipotesi un tecnico, che decideva da solo su materie che richiedevano la
partecipazione di molti, e che alla resa dei conti poteva rappresentare solo
se stesso, o nella migliore delle ipotesi la sola amministrazione.
Molto
diverso, e ben più influente, è chi, legittimato dal profilo istituzionale e
dal consenso, parla e agisce a nome di un organismo statale autonomo, per conto
di famiglie, studenti, docenti, personale scolastico. Grazie a queste
componenti il suo peso politico, la sua forza contrattuale e il suo ruolo
sociale possono essere molto più incisivi. Soprattutto quando, come spesso è
accaduto negli ultimi anni, si tratta di resistere a tagli, controriforme,
arretramenti sul piano normativo, organizzativo e didattico.
Il testo
della legge (e non poteva essere altrimenti) non è stato approvato nella sua
prima e improponibile formulazione, ma ha subito numerosi e controversi
rimaneggiamenti, fino a raccogliersi in un solo articolo, composto da molti
commi, con un testo inevitabilmente mal scritto, disordinato e in più punti
contraddittorio, e conseguentemente esposto a disparate e opposte
interpretazioni.
La formulazione
definitiva, riguardo al piano dell’offerta formativa, è la seguente:
"Il piano è elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal dirigente scolastico. Il piano è approvato dal consiglio d’istituto."
Contrordine,
insomma. Gli organi collegiali vengono rimessi al loro posto. Ciò vuol dire
che:
A. L’organo
competente per l’adozione del piano dell’offerta formativa è ancora il
consiglio di istituto. Il consiglio di istituto lo approva (o, qualora
non lo ritenga approvabile, lo respinge). L’atto che conclude l’iter di
approvazione del piano è una delibera del consiglio di istituto: niente
delibera, niente piano adottato.
B. L’organo
tecnico competente nell'elaborazione del piano è il collegio dei docenti.
Perché il piano possa considerarsi elaborato ci vuole pertanto una delibera
del collegio, prima della sua presentazione in consiglio, e anche
qui: niente delibera, niente piano da presentare.
C. Il
dirigente scolastico può definire quel che vuole su scelte e indirizzi della
scuola, ma, finché gli mancano le due delibere approvate, finché
cioè non abbia costruito il consenso intorno al progetto della scuola, nella
forma e nei modi previsti, resta un incompetente (in senso tecnico e
giuridico) che non può adottare alcunché.
D. Sulla
base delle due delibere il dirigente sviluppa la propria azione, e dà
esecuzione a quanto deciso nelle sedi competenti, con poteri di
direzione e di coordinamento che si svolgono pertanto nel rispetto delle
attribuzioni degli organi collegiali, come la stessa 107/15 riconosce del
resto espressamente, in un altro punto del suo disordinato testo (comma 78):
“Per dare piena attuazione all'autonomia scolastica e alla riorganizzazione del sistema di istruzione, il dirigente scolastico, nel rispetto delle competenze degli organi collegiali, fermi restando i livelli unitari e nazionali di fruizione del diritto allo studio, garantisce un’efficace ed efficiente gestione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali, nonché gli elementi comuni del sistema scolastico pubblico, assicurandone il buon andamento.”
Ma già nella
prima stesura del Regolamento dell’autonomia (1999) le cose stavano così. E ancor
prima nel Testo unico dell’istruzione 297 del 1994. E ancor prima nei Decreti
delegati del 1974, anche se qui non si parlava ancora di piano dell’offerta
formativa ma di indirizzi generali della scuola, di criteri per la
programmazione educativa, di sperimentazioni. Allora, come ora, il potere di
indirizzo era del consiglio di istituto; la competenza nella didattica era
del collegio dei docenti. Allora proprio come ora.
Resta a
questo punto solo un ultimo problema, così definibile:
L’espressione
“sulla base degli indirizzi per le attività
della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal
dirigente scolastico”, riferita al quadro in cui si svolge l’azione dei
due organi competenti per legge, il consiglio di istituto e il collegio dei
docenti, come va interpretata?
La soluzione
del problema così impostato è preliminare rispetto al lavoro di adattamento e
di modifica del piano triennale dell’offerta formativa.
2. Conferma senza modifiche del ruolo del
dirigente scolastico nell'elaborazione e nell'approvazione del piano
dell’offerta formativa
Si potrebbe da
subito concludere che la legge 107/15 non ha introdotto novità sul tema e che
il disegno reazionario non ha trovato una maggioranza che lo approvasse.
Tutto rimane pertanto come prima.
Persiste
tuttavia un’interpretazione, ripresa da varie fonti interessate, che afferma
che la cosiddetta “Buona Scuola”, prevedendo che gli organi collegiali
elaborino e approvino il piano "sulla
base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di
gestione definiti dal dirigente scolastico", estenderebbe i poteri
e le responsabilità del preside, trasformandolo nell'organo monocratico
che definisce (nel senso di decide, determina, statuisce) la
linea della scuola, a cui i docenti (il collegio) e il consiglio (tutte le componenti
scolastiche) dovrebbero conformarsi.
Ciò è
sicuramente falso. Vediamo il perché.
Intanto va
subito chiarito che la definizione degli "indirizzi
per le attività" e delle "scelte
di gestione" da parte del preside non è una novità introdotta dalla
sedicente "Buona Scuola", ma una consuetudine ampiamente
consolidata, che va però correttamente inquadrata nella vigente normativa.
Presiedendo il collegio dei docenti, il dirigente normalmente e
legittimamente ne imposta i lavori, definisce le linee da adottare e perfino
il testo delle corrispondenti deliberazioni, personalmente o coordinando
gruppi o commissioni, o anche delegando a singoli collaboratori liberamente
scelti. Questo lavoro di preparazione, tanto più complesso quanto più un
istituto è organizzato, produce indubbiamente documenti utili, anzi
indispensabili sul piano pratico, che hanno però solo il valore di proposte
presentate all'organo competente. Niente di più. Ovvio che le proposte
abbiano bisogno di un’approvazione collegiale per diventare operative.
Ciò premesso,
non è sbagliato dire che il dirigente "definisce" la linea del
collegio, oppure "stabilisce" i criteri della programmazione, dopo
avere sentito questo o quello, purché sia chiaro che tali azioni, che si
concretizzano in proposte, vanno ricondotte a compiti di organizzazione e di
coordinamento, amministrativo e didattico, e non a un potere decisionale
esercitato monocraticamente.
Lo stesso
vale per gli indirizzi generali del piano dell’offerta formativa, di
competenza del consiglio di istituto. Il dirigente, presiedendo la giunta che
prepara i lavori, può predisporre, autonomamente o valendosi di
collaboratori, gli atti da adottare: ad esempio, in riferimento ai punti all'ordine
del giorno, il testo di delibere da allegare ai verbali. Tali atti, però, se
non vengono approvati dal consiglio non hanno alcun valore, e vanno
considerati "tamquam non essent", come dicono i giuristi,
cioè incapaci di produrre effetti giuridici.
Il preside
definisce pertanto la linea della scuola nella misura in cui gli organi
competenti gliela approvano. Niente approvazione, niente linea, come è
pacifico che sia in un organismo di carattere democratico, fondato sulla
partecipazione e sul consenso.
Ma allora
sono gli organi collegiali, come già sapevamo, a stabilire gli indirizzi:
indirizzi generali nel caso del consiglio di istituto; scelte metodologiche e
didattiche nel caso del collegio dei docenti. Mentre la definizione di
obiettivi, criteri, indicazioni da parte della dirigenza è doverosa, anzi
indispensabile, ma rientra nell'iter, quale opera di facilitazione di un
processo democratico autonomo, che si realizza facendo convergere le
varie componenti del sistema sul medesimo progetto di scuola.
Quindi il problema
impostato in premessa viene così risolto:
1. Se si
considera attentamente il diritto scolastico nel suo complesso, liberi da
intenti propagandistici e da servilismo, appare chiaro che la cosiddetta “Buona Scuola” non ha
ampliato i poteri del dirigente scolastico, né ridotto quelli degli organi collegiali,
ma ha finito per confermare il quadro
esistente.
2. Dopo la
legge 107/15 (come del resto prima), aggiornando il piano dell’offerta
formativa, il dirigente continuerà legittimamente
a comportarsi secondo le regole dell’autonomia scolastica, che nella
sostanza rimangono inalterate.
Colgo dunque
l’occasione per ribadire che la cultura dell’autonomia, affermatasi negli
ultimi anni nel nostro e in molti altri istituti, assegna al dirigente il
ruolo di facilitatore di processo.
Tale espressione
nasce dall'idea che ogni scuola sia simile a una specie di organismo, che,
influenzato da molte e diverse spinte, intenzioni ed esigenze, tende ad
assumere un suo equilibrio, una sua specifica fisionomia, che non si
identifica immediatamente con il progetto di un singolo individuo, e meno
che mai con un indirizzo introdotto gerarchicamente dall'esterno, da un
tecnico, da un burocrate, da un amministratore, ma si sviluppa secondo la sua
regola interna, una regola che non preesiste all'azione formativa ma va trovata,
scoperta, sviluppata nel percorso, che è perciò lo stesso processo
democratico di autodefinizione e di autocostruzione dell’identità
organizzativa e progettuale di un istituto (piano formativo della
scuola), frutto di complesse e spesso imprevedibili mediazioni e interazioni
tra componenti e soggetti diversi.
Come facilitatore
di questo processo il preside è:
Costruttore
di consenso. Non impone la linea della scuola ma la fa maturare. Il
servizio scolastico, d’altra parte, essendo prima di tutto insegnamento e
apprendimento, è per sua interna costituzione legato alla volontà personale e
alla motivazione. Adesione e consenso sono le uniche forze in grado di
sviluppare il clima di lavoro favorevole all'autonomia scolastica,
all'inclusione, al successo formativo.
Mediatore
di conflitti. Non ha il compito di reprimere i conflitti, quanto
piuttosto l’abilità di portarli allo scoperto, ben distinguendo tra quelli di
carattere personale, che possono essere mediati, e quelli di carattere
metodologico, ideale, pedagogico, che devono invece essere vissuti non come
problemi da risolvere ricorrendo al compromesso (o ancor peggio alla
concorrenza, o alla competizione sollecitata dall'ideologia meritocratica), ma
come differenze da valorizzare. Non si tratta perciò di stabilire quale debba
essere l’impostazione della scuola, ma di organizzare la scuola come un
contenitore di molteplici impostazioni.
Catalizzatore
di idee. Le sue azioni sono dirette non tanto a mantenere e a
regolamentare l’esistente, quanto piuttosto a introdurre nuovi stimoli alle
iniziative personali e all'abolizione degli adempimenti superflui che le
limitano.
3. Conferma senza modifiche degli
indirizzi per l’elaborazione e per l’approvazione del piano dell’offerta
formativa
Sulla base
dell’impostazione fin qui illustrata, in previsione dell’aggiornamento del
piano dell’offerta formativa, non posso in conclusione che suggerire il
mantenimento delle scelte operate al momento della sua stesura, in quanto
risultato di un percorso condiviso.
Visto l’attacco
ideologico che la scuola sta subendo da anni, da parte di un aziendalismo di
stampo neoliberista che mira a restringere i diritti degli studenti, a
limitare l’autonomia dei docenti e a comprimere la spesa per l’istruzione, ritenuta
tendenzialmente improduttiva e mai considerata un investimento, segnalo in
particolare le seguenti esigenze.
Queste esigenze,
temporaneamente in primo piano, si ricollegano a quella fondamentale: la
presenza nel territorio della scuola, non come azienda o come terminale
periferico di un apparato amministrativo, ma come istituzione pubblica
autonoma, che lavora nell'orizzonte costituzionale, in vista di scopi
definiti collettivamente, all'interno di una comunità e nella coesistenza di
molte, legittime volontà.
Il
dirigente scolastico
Bruno Dagnini
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