Precari

In questa pagina vengono descritti e analizzati gli errori compiuti dalla Buona Scuola nel reclutamento dei docenti, attraverso la progettazione di un sistema ideologico di formazione del personale, che non ha funzionato e che non potrà andare a regime, e che tuttavia  provocherà ugualmente ulteriori e più gravi danni se non riusciremo a smantellarlo tempestivamente.

Che sarebbe stato un disastro si è subito capito...

Proprio così. Che l'ambizioso piano della Buona Scuola contro la piaga sociale della "supplentite" sarebbe stato un disastro per la pubblica istruzione, si è subito capito.
Vediamo com'è andata.
Nell'anno scolastico 2014/2015, prima dell'avvio della Grande Riforma, con l'ennesima "svolta epocale" sul reclutamento del personale, ho partecipato, con alcuni colleghi dirigenti, a un incontro con due parlamentari piddini, che sulla carta erano venuti per "confrontarsi con i DS" e per "misurarsi con le esigenze del territorio", ma in realtà per spiegarci cos'è la scuola e come funziona il mondo (i piddini sono fatti così).
In particolare: come ti faccio sparire il precariato in tre mosse, e da qui in poi... in ruolo solo per concorso, meritocraziaaaaa, rottamazione delle supplenze, e basta graduatorie per anzianità, competitivitààààà, e adesso il futurooooo, e via renzeggiando.
Prima mossa: immissione in ruolo di tutti i precari delle graduatorie ad esaurimento; seconda: concorsi per soli abilitati TFA e PAS; infine, dopo avere fatto piazza pulita, eliminando sovraffollate graduatorie, la terza mossa (quella fatale): istituzione di un canale unico per l'accesso al ruolo, con concorso e tirocinio triennale.
Un programma devastante, che, privo di memoria storica, assommava tutti gli errori compiuti nell'ultimo quarantennio in materia di reclutamento dei docenti, e colpiva per il suo velleitarismo ingenuo, con un misto di irritante presunzione e di ignoranza delle dinamiche degli organici e delle graduatorie.
Si dimostrava inoltre completamente sprovvisto del "senso della complessità".
Il senso della complessità è un requisito indispensabile per chi vuole introdurre modifiche nell'organizzazione scolastica senza mettersi nei guai. Nelle tentate riforme dell'ultimo ventennio, sempre fallite, è stato purtroppo assente, coi risultati che vediamo. Il sistema della scuola di massa è caratterizzato dalla smisuratezza, è attraversato da molteplici intenzioni, da finalità e indirizzi non omogenei, da variabili incontrollabili. Sfugge a una razionalità assoluta, che intenda dominarlo dall'esterno e dall'alto di una visione piena. Non si lascia ridisegnare in base alle convinzioni del ministro di turno, o al programma di una maggioranza. Per la sua complessità, chi intende cambiarlo si espone perciò a una sorte imprevedibile: più facile che riformarlo è esserne riformati. Eppure la scuola si modifica continuamente, come il costume, la lingua, il diritto, ma in un senso che sfugge a riformisti, riformatori e progettisti di formazione. Questo cambiamento è certamente il risultato dell'interazione di varie e diverse progettualità, ma non si riduce a nessuno dei progetti in campo. Rinvia dunque a una tendenza più profonda.
Il senso della complessità, distogliendo gli occhi dai desideri e dalle convinzioni di ogni singolo riformatore (o aspirante tale), consente di oltrepassare lo strato superficiale delle intenzioni, anche quando politicamente influenti, per scorgere quello sottostante delle caratteristiche strutturali del sistema, che si sviluppano su tempi molto lunghi e in una profondità non raggiungibile da parte di una sola, passeggera volontà politica.
Adottato per scelta di metodo, questo quadro di complessità diventa un indispensabile tutor e uno strumento efficace per prevenire i danni. Impone, prima di qualsiasi scelta affrettata, la comprensione storica delle strutture che si vorrebbero modificare. Ciò sarebbe bastato a scongiurare vent'anni di disastri, da Berlinguer (Luigi) alla Giannini, passando per la Moratti e per la Gelmini.
Il senso della complessità ci libera dalla pedagogia del gambero e dalla Buona Scuola.

Il doppio canale come sistema strutturale di reclutamento dei docenti

Posta la premessa di metodo, consideriamo il sistema di reclutamento dei docenti. Negli ultimi anni, dal punto di vista politico, è stato attraversato da riforme incostanti e contrapposte, nella convinzione che debba (e possa) essere radicalmente riformato. Dal punto di vista della complessità è (sarebbe) invece un sistema tendenzialmente stabile e coerente, anche se è stato fatto tutto il possibile per non farlo funzionare, e purtroppo con successo, e per lunghi periodi.
Va detto subito che il reclutamento degli insegnanti è influenzato da una serie di fattori strutturali che non possono essere modificati per decreto. Ecco i principali:
1. Squilibrio Nord-Sud. Come è noto gli aspiranti docenti al Sud sono in grande esubero in rapporto ai posti disponibili per supplenze, mentre al Nord mancano insegnanti. Da ciò deriva, inevitabilmente, un movimento di precari dal Sud al Nord, e viceversa un successivo ritorno di docenti di ruolo (ex precari stabilizzati) dal Nord al Sud. Un movimento circolare che non può essere arrestato per scelta politica dal Miur e che va invece gestito al meglio.
2. Impossibilità di soddisfare il fabbisogno solo attraverso concorsi per esami. I posti messi a concorso devono essere certi e vacanti. La loro individuazione precede di mesi l'indizione dei concorsi e si svolge, per non creare soprannumerarietà, secondo criteri di prudenza e tendenzialmente restrittivi. L'aggiornamento degli organici, in aderenza ai bisogni effettivamente presenti (e non ai calcoli sbagliati influenzati dalla politica), richiede tempi tecnici e non è immediato. Di conseguenza non può (e nemmeno deve) accadere che i posti messi a concorso riescano a coprire l'intero fabbisogno delle scuole. E ciò non per scelta governativa, ma per impossibilità pratica.
3. Presenza costante di precari con consistenti titoli di servizio. Alla quota fisiologica di supplenze brevi, non eliminabili e non prevedibili, si aggiungono i posti disponibili non messi a concorso, per la ragione indicata nel precedente punto. Accade così che senza un numero consistente di docenti non di ruolo la scuola non possa funzionare. Nel tempo si crea dunque un precariato con pluriennali esperienze di insegnamento, e con titoli di servizio che chiedono un legittimo riconoscimento. Questa non deve essere presentata come un'anomalia ma, se mantenuta entro limiti ragionevoli, come una costante di sistema. Non va pertanto combattuta, ma governata con equità, costituendo anche un'occasione di formazione in servizio.
4. Necessità di concorsi per titoli ed esami. A tutti coloro che possiedono il prescritto titolo di studio non può essere negata la possibilità dell'immissione in ruolo attraverso un concorso per esami, indipendentemente dall'anzianità di servizio come precari. Ma d'altra parte, in vista di una stabilizzazione, non possono essere ignorati i titoli di servizio di chi ha acquisito una consistente esperienza di insegnamento grazie a una serie di contratti a tempo determinato, più volte reiterati.
5. Tutele di legge. Le leggi e i principi costituzionali tutelano entrambe le posizioni sopra descritte, e il mancato riconoscimento dell'una o dell'altra è destinato a produrre lunghi contenziosi, con prevedibile soccombenza dell'amministrazione (guardando al passato pressoché certa).
6. Graduatorie sulla base di criteri nazionali. Perché il sistema possa funzionare devono essere compilate varie graduatorie, per le supplenze e per i concorsi, sulla base di criteri stabili e validi su tutto il territorio nazionale. Si tratta di una prassi radicata non solo nelle leggi in vigore, ma nel comune senso di giustizia che ne costituisce la premessa, mentre l'indebolimento delle graduatorie e l'incertezza dei criteri (vedi chiamata diretta) non solo non produce una maggiore efficienza e una semplificazione amministrativa, ma complica ulteriormente le procedure e determina insicurezza, sospetti (spesso fondati) e ricorsi (spesso vincenti).
L'azione combinata di questi fattori fa sì che il sistema italiano di reclutamento dei docenti consista, da quando esiste la scuola di massa, in un doppio canale: concorsi per esami, per chi è in possesso del solo titolo di studio; concorsi riservati per titoli di servizio, per chi ha raggiunto un certo numero di anni di insegnamento come supplente. Le due forme tendono ad alternarsi. Se si svolgono a cadenza biennale, ma in anni diversi, annualmente vi sono nomine in ruolo sui posti liberi. Nel primo anno vengono assunti i vincitori del concorso per esami, nel successivo quelli provenienti dal concorso riservato, e così via. Questa frequenza dei concorsi, se venisse mantenuta nel tempo, riuscirebbe a evitare la formazione di sacche di precariato troppo ampie, assegnando con relativa tempestività tutte le cattedre via via disponibili, nel rispetto dei tempi tecnici di cui si è detto, necessari per la gestione degli organici.
Ciò, da parecchi anni, non avviene. O meglio: avviene male. Perché il doppio canale è strutturale, è il risultato delle dinamiche che costituiscono la scuola, e non può essere abolito da un governo. Più governi possono però decidere di sospenderlo, di farlo funzionare a singhiozzo, di danneggiarlo. Fino a sopprimerlo per legge. In questo caso, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra, come già varie volte è accaduto, a furor di popolo, in seguito all'esplosione del precariato oltre i suoi limiti fisiologici e accettabili.
Ripetutamente si sono dunque approvate, non tenendo conto delle caratteristiche del sistema, norme ideologiche dirette a imporre un canale unico di reclutamento (nel caso della legge 107, per esempio, solo concorsi per esami: meritocrazia, competitivitààààà). Un errore variamente immaginato e programmato, ma sempre abbandonato a seguito di fallimenti. La Buona Scuola non farà eccezione. Ad ogni buon conto quel che sta avvenendo, alternanza di concorso per esami (concorsone 2016) e concorso riservato 2018 (fase transitoria) è una conferma del doppio canale, anche se snaturato e inutilmente complicato, e presentato come un momento di passaggio verso una forma unica (concorso + FIT) che ripete i peggiori esperimenti del passato e non andrà mai a regime.
In sintesi: nella scuola italiana, per ragioni strutturali che non possono essere cancellate da un singolo governo, si entra in  ruolo attraverso le due modalità sopra descritte. Così è stato in passato, così è nel presente e così sarà in futuro. Quel che un singolo governo può invece fare è negare questa evidenza e progettare un sistema di reclutamento che non tiene conto di come è fatta la scuola (e nemmeno di come, prima della scuola, è fatta l'Italia nella geografia, nell'economia e nel diritto). Tale sistema, frutto di imprevidenza, comunque venga concepito fallisce sempre e a un doppio canale si ritorna per forza e malamente, attraverso disordinate sanatorie, dopo ritardi, disservizi, conflitti e interminabili contenziosi. Così è accaduto, sta accadendo e purtroppo accadrà ancora.
Resta ora da spiegare perché i governi della Buona Scuola, al termine della stagione delle riforme incompiute e fallite, abbiano sabotato con tanta improvvida ostinazione un sistema di reclutamento funzionante in base ai caratteri costitutivi della complessità scolastica.

Le facili previsioni dei gufi

Ho iniziato ricordando un incontro tra presidi e parlamentari renziani, svoltosi qualche mese prima dell'approvazione della Buona Scuola. L'episodio mi è parso interessante per due motivi: il primo è che i dirigenti scolastici presenti, sulla base della propria quotidiana esperienza di nomine, contratti e graduatorie, hanno facilmente previsto il disastro che sarebbe derivato dal piano di assunzioni che si profilava (nel gergo renziano erano quasi tutti gufi); il secondo è che i deputati intervenuti, e in particolare la renzina che nei mesi successivi avrebbe imperversato nelle televisioni per placare le masse, si sono dimostrati impermeabili al dubbio, manifestando una fiducia illimitata nei consulenti del Miur di nomina politica, insieme a scarse conoscenze di prima mano, e a una forte propensione alla parola ma non all'ascolto (i piddini vengono programmati così).
Le facili profezie dei dirigenti hanno riguardato gli effetti collaterali perversi poi derivati dall'immissione in ruolo dei docenti delle graduatorie ad esaurimento, che, nelle intenzioni della Buona Scuola, dovevano essere interamente svuotate per porre fine alla "supplentite".
Il quadro è apparso subito pericolosamente chiaro. Chi ogni giorno aveva a che fare con gli organici, conoscendo la composizione delle graduatorie ad esaurimento, ha immediatamente intuito quello che stava per accadere. Le assunzioni avrebbero prodotto danni ovunque, ma, tenendo presente l'asimmetria tra Nord e Sud a cui si è già fatto riferimento, i disagi si sarebbero distribuiti diversamente, a seconda delle regioni e delle classi di concorso. Al Nord, negli insegnamenti con il maggior numero di cattedre libere (ad esempio matematica, materie letterarie, sostegno), le graduatorie ad esaurimento erano pressoché esaurite. Contavano invece ancora molti aspiranti in altre classi di concorso (ad esempio arte, musica, educazione fisica, discipline giuridiche), dove i posti scoperti erano però pochissimi. Conseguenza: le scuole che chiedevano, per coprire cattedre esistenti, docenti di matematica o di italiano o di lingua straniera, non avrebbero ricevuto una positiva risposta. In compenso sarebbero arrivati professori di arte o musicisti o avvocati, su cattedre inesistenti, ma create in soprannumero per sistemare i precari. Giustificazione: l'obiettivo di potenziare l'offerta formativa (organico di potenziamento). E i posti rimasti vuoti, che si riferivano al fabbisogno corrente e non potenziato, anzi insoddisfatto? Quelli sarebbero andati ad altri precari, naturalmente.
Ma i parlamentari piddini non sembravano consapevoli di un altro importante fatto. I docenti immessi in ruolo sui posti di potenziamento, creati ad hoc e prima inesistenti, non uscivano dal nulla. Molti di loro, da vari anni, non ricevendo incarichi nella propria classe di concorso, lavoravano sulle cattedre di sostegno, dove avevano acquisito una certa esperienza. Nel passaggio in ruolo, inevitabilmente, avrebbero lasciato i loro allievi e le loro scuole. E a chi sarebbero andate quelle cattedre di sostegno rimaste scoperte? Ma a nuovi precari con minore esperienza, naturalmente.
I dirigenti mettevano in guardia il renziano e la renzina. Ma siamo proprio sicuri che sia conveniente immettere in ruolo i vecchi precari su posti finti, per poi crearne dei nuovi sui posti veri? Una domanda facile facile, che le indicazioni e i dati provenienti dal piddì e dai suoi consulenti non consentivano però di comprendere.
Non solo. In questo carosello di docenti con rigenerazione finale del precariato, il noto squilibrio Nord-Sud, dovuto alla distribuzione asimmetrica dei posti e degli aspiranti, si sarebbe inserito con un preoccupante effetto indesiderato, molto difficile da tenere sotto controllo e perfino da quantificare in termini numerici. Una cosa era comunque certa: molti docenti del Sud sarebbero stati nominati in ruolo al Nord, passando da una supplenza vicina a casa a un posto di potenziamento un migliaio di chilometri lontano, magari in una scuola dove la classe di concorso per cui erano abilitati nemmeno esisteva. Come avrebbero reagito? Accettando la dura prova con rassegnazione? Rinunciando? Rinviando? Costituendo un nuovo sindacato? Ricorrendo al giudice del lavoro? O ricorrendo piuttosto alla legge 104 per evitare un indesiderato trasferimento? O alla peggio mettendosi in malattia? Di lì a pochi mesi avremmo osservato questi comportamenti, tutti insieme: la gamma completa delle possibili reazioni, dalle più nobili alle più ignobili, in un interessante quanto involontario esperimento di sociologia.
Di più. Non tutti gli inclusi nelle graduatorie ad esaurimento erano precari in servizio nella scuola. Molti, anni prima, ottenuta un'abilitazione all'insegnamento ma non una cattedra, avevano optato per diverse occupazioni e preso altre strade. Ora sarebbero stati nominati in ruolo, ope legis. Una nomina sorprendente, rivolta a non docenti, che non avevano mai insegnato o che da lungo tempo erano estranei all'ambiente scolastico. Avrebbero accettato? E, se sì, con quali risultati? Ma soprattutto: avevano un senso simili nomine, specialmente se giustificate con l'esigenza di combattere la "supplentite" e di premiare il merito, sancendo il principio che nella Buona Scuola si entra solo per concorso?
Che cosa si nascondeva dietro questa contraddizione?
I piddini non capivano la domanda.
L'anno seguente, tuttavia, facendo fronte al malcontento diffuso e crescente, ma sopratutto leggendo i giornali, compresi il Corriere, Repubblica e Il Sole 24 Ore, si sarebbero resi amaramente conto che le facili previsioni dei dirigenti scolastici si erano realizzate, andando oltre il pessimismo dei peggiori gufi.
I piddini, oggi, ammettono che qualcosa non ha funzionato. Forse certi calcoli erano sbagliati... Sono stati commessi degli errori di comunicazione... Non si è saputo parlare nel modo giusto, "allaggente" e "coiggiovani"...
Tuttavia continuano a non comprendere le ragioni del fallimento (della Buona Scuola e del piddì).
Il fatto è che il reclutamento dei docenti non è un problema di comunicazione, ma un'operazione complessa, che non può riuscire senza una piena conoscenza delle caratteristiche del sistema, libera da condizionamenti ideologici.

La precarizzazione diffusa come risultato finale della lotta contro il precariato

Il piano di assunzioni della Buona Scuola è un esempio di come l'ideologia del merito (meritocraziaaaaa), uno dei pilastri della pedagogia del gambero, raggiunga alla fine l'esatto contrario di quel che ufficialmente si propone. La meritocrazia è moralistica e moralizzatrice (onestààààà), ma anche efficientista  e tecnocratica, e vorrebbe trovare un criterio di giustizia e di scienza, oggettivo e inoppugnabile, per premiare i meritevoli ed escludere i non meritevoli, secondo una procedura selettiva. La selezione, però, dovrà essere rigorosa, equa e indiscutibile, altrimenti non sarebbe meritocratica.
Come raggiungere questo ambizioso obiettivo? Si comincia col mettere sotto inchiesta i meriti comunemente riconosciuti (chi ci garantisce che siano veramente inoppugnabili e oggettivi?) e subito dopo i correlati diritti acquisiti (chi può dimostrare che davvero rispecchino criteri di onestà e di giustizia?). Ne consegue che i titoli che stanno alla base dei meriti accertati e dei diritti consolidati non sono mai abbastanza oggettivi. Occorre legarli a prove più serie, a requisiti più aggiornati, naturalmente più oggettivi di quelli abitualmente presi in considerazione. Una critica corrosiva si sviluppa così intorno a ogni presunto meritevole, e possessore di ingiustificati diritti. Di fronte al ruolo che ciascuno occupa e alla funzione che svolge la domanda è una sola, e sempre quella: A QUALE TITOLO?
Una volta che il ragionamento venga accettato senza limiti, fino a costituire un saldo principio di metodo (l'unico, in fin dei conti, sicuramente inoppugnabile e certo, perché mai messo in discussione), tutte le funzioni e tutti i ruoli finiscono per essere svolti sulla base di un titolo che non è oggettivo come dovrebbe. Benissimo, è questa la situazione meritocratica per eccellenza. La ricerca dei meritevoli è l'artificio retorico, ma in primo piano, oggettivamente, sono visibili solo i demeriti (per scelta di metodo, appunto).
La meritocrazia è un processo deflattivo. 
La deflazione è la perdita generalizzata di valore, la diminuzione dei prezzi delle merci e del lavoro delle persone. La meritocrazia ne è il rispecchiamento a livello etico e morale.
La meritocrazia come specchio della deflazione, sparata così a bruciapelo, potrebbe apparire un concetto troppo astratto e forse oscuro. Per renderlo più comprensibile ricorrerò a un esempio concreto noto a molti: il concorso 2016 per abilitati TFA e PAS, seconda mossa del piano di assunzioni della Buona Scuola.
Anche gli abilitati del concorsone 2016 erano, e per la maggior parte ancora sono, precari di origine controllata col pedigree. I tieffini (orrido neologismo per indicare gli abilitati TFA) avevano superato una preselezione nazionale, poi una selezione per esami predisposta dalle università, poi un corso annuale con altri cinque esami, laboratori e tirocinio, poi l'esame finale abilitante. I passini (altro orrido neologismo per indicare gli abilitati PAS) erano stati ammessi, sulla base dei titoli di servizio (un triennio di insegnamento), a un percorso analogo al TFA (stessa trafila). Tutto questo, che per le precedenti generazioni aveva significato l'assunzione in ruolo, nella Buona Scuola è diventato un tortuoso percorso per conseguire finalmente il diritto a... partecipare al concorso.
Una preselezione che ammette a un concorso che ammette a un corso che, previo esame, ammette al concorso. Era questa la seconda mossa contro la "supplentite". Ed è questo un efficace esempio di deflazione scolastica e concorsuale, dove esami che un tempo garantivano l'ingresso nei ruoli dello Stato vengono svalutati, fino a diventare prove che per valere richiedono altre prove, che però non valgono in assenza di verifiche ulteriori. In modo tale che, esaurito il percorso, comunque vada, oggettivamente non esistano più i diritti indiscutibili e i meriti comprovati, perché, appunto, mancano le prove.
Tutto ciò sarebbe insopportabile se non intervenisse, per renderlo accettabile e credibile, la meritocrazia, che non svolge il compito di oggettivare i meriti, rendendo visibili i meritevoli, ma ha piuttosto la funzione di accrescere la percezione sociale dei demeriti, con il senso di un disvalore diffuso e di una colpa di sistema, premessa e giustificazione per una riduzione del valore della scuola, e per la sua svalutazione.
E in questo senso svalutativo ha funzionato anche la prova scritta del concorsone, che doveva essere innovativa e aderente alla realtà dell'insegnamento, e che invece si è dimostrata non scientifica e inattendibile, costruita contro le regole della docimologia e affidata all'arbitrio di commissioni svalutate, perché non selezionate, non stabili e non pagate (il che, trattandosi di svalutazione, appare perfettamente in linea e coerente con lo scopo). Per l'approfondimento di questo punto rinvio al mio articolo su Orizzonte Scuola.
Nel ventennale percorso deflattivo culminato nella Buona Scuola, nel nome di un malinteso merito e di un falso rigore, sono stati svalutati: i titoli di studio e di servizio, i diritti degli studenti e dei docenti, gli stipendi del personale, le garanzie, le graduatorie.
Nonostante la lotta al precariato, anzi proprio attraverso l'ideologia che intende giustificarla, tutto deve diventare più precario, deflattivo, recessivo, svalutato e definanziabile, a cominciare dalle retribuzioni del personale: precarietà diffusa.

La Buona Scuola come precarizzazione del sistema formativo

Che l'ideologia della Buona Scuola, completamente appiattita sulla pedagogia del gambero, sia strumento di precarizzazione dell'intero sistema formativo, appare ancora più chiaro considerando la terza e conclusiva mossa del piano di reclutamento "anti-supplentite", quella fatale: il concorso + FIT.
Questo sistema, che insensatamente aspira ad essere l'unica forma di immissione in ruolo (cosa impossibile per il motivo che spiegherò), si rivolge al neolaureato e per dargli il benvenuto nel mondo della docenza lo trasforma in un "senza titolo". Gli mancano i crediti (evidentemente l'università non lo ha preparato), e dovrà acquisirli se vuole partecipare al concorso. Se lo vince, a differenza dei laureati d'altri tempi (tempi meno €uropei), non diventerà un docente di ruolo ma un precario FIT, inserito in un percorso triennale, con verifiche periodiche: per un anno, per abilitarsi, sarà retrocesso all'università (la stessa che non prepara), e per due dovrà fare il supplente, a salario variabile (una "variabilità" a forte rischio di incostituzionalità e perciò non chiarita, ma appena ventilata, che potrebbe verosimilmente consistere nell'essere pagato meno degli altri per fare lo stesso lavoro).  Fino a un contratto a tempo indeterminato, ma senza titolarità su una scuola e con incarico per un solo triennio, subordinato alla valutazione del preside sia per la prima chiamata che per un successivo rinnovo. Basta insomma con questa vecchia storia pretenziosa delle cattedre che hanno una sede. Flessibilitààààà. E che noia il posto fisso, come diceva l'europeista Monti, dopo avere accettato uno scranno da senatore che infatti, coerentemente, non è solo fisso ma addirittura a vita.
L'idea che sta alla base di questo tortuoso iter non tende tanto a facilitare una rapida assunzione dei capaci e dei meritevoli, che viene infatti ritardata e disturbata oltre ogni ragionevole complicazione, ma mira piuttosto a una modifica dello stato giuridico del personale: meno tutele, meno autonomia, meno stabilità, da estendere gradualmente a tutti gli insegnanti. Anche quelli già di ruolo, pertanto, secondo la Buona Scuola, in caso di trasferimento dovrebbero perdere la titolarità sull'istituto per entrare nel regime degli incarichi triennali organizzato su ambito territoriale, previa chiamata del dirigente.
Più flessibilità per tutti e precarizzazione diffusa delle varie posizioni.
Anche di quella del preside, a ben guardare, che messo a capo di un'istituzione che sta gradualmente perdendo tutte le prerogative dell'autonomia, dovrebbe facilmente capire che ciò che la Buona Scuola gli sta proponendo non sarà per lui un buon affare, come è spiegato nella pagina dei dirigenti.
Ma che cosa non funziona, sul piano strettamente tecnico, in questa farraginosa trafila? Non si è abbastanza ragionato sul fatto che le cattedre destinate ai FIT, soprattutto nelle classi di concorso più grandi (per esempio materie letterarie, matematica, sostegno), in analogia con quanto già accaduto per TFA e PAS, qui accentuato dalla maggiore durata del percorso, non saranno mai sufficienti a coprire tutte le supplenze necessarie al funzionamento delle scuole. Parallelamente ai FIT, dedicati a precari con titolo e con garanzia di immissione in ruolo, si svilupperà perciò un nuovo e insoddisfatto precariato, di supplenti "senza titolo" e senza garanzie, ma con una crescente anzianità di servizio. Tra conflitti e proposte di sanatorie, difficilmente realizzabili nel groviglio delle norme e delle contraddizioni, la "supplentite" tornerà ad aggravarsi. Finché un prossimo governo, prendendo atto della difficile situazione, e magari delle condanne dei tribunali, sarà costretto a intervenire, quando i danni prodotti dai FIT saranno ormai tanti e tali da imporne la soppressione.
Quali conclusioni trarre dal piano di assunzioni di cui alla legge 107, articolato in tre irresistibili mosse, con scacco matto finale alla Buona Scuola? Se il suo obiettivo, come dichiarato, fosse davvero la lotta contro la "supplentite", rientrerebbe nel novero degli autogol. Ma è così?
Nell'Europa dell'euro la stabilizzazione dei precari, la piena occupazione, la difesa del potere d'acquisto delle retribuzioni, il mantenimento delle garanzie riconosciute ai lavoratori, non sono più priorità (come invece erano nella Costituzione che ha appena compiuto settanta anni). Prioritaria è al contrario la revisione della spesa pubblica, la riduzione dello Stato sociale, il definanziamento dei servizi per i cittadini, che va di pari passo con l'indebolimento della posizione di chi lavora per assicurarli, sia esso medico o insegnante, bidello o infermiere, funzionario o dirigente. Per conseguire gli obiettivi europei, quelli di Bruxelles e di Berlino, occorre, insieme al mantenimento di un congruo tasso di disoccupazione, una parallela pressione su chi conserva un lavoro, che va messo nella condizione di accettare salari bassi e sottrazione di diritti, giustificati dalla percezione di un demerito collettivo, che gli uni rinfacciano agli altri.
In questo quadro va considerata la legge 107 della cosiddetta Buona Scuola. Le scelte inspiegabili, le decisioni irrazionali e gli errori incomprensibili si rivelano allora molto più logici di quanto possano a prima vista sembrare. Ma non si tratta di una logica formativa, interna al sistema scolastico e alle sue dinamiche, e rinvia piuttosto a un condizionamento esterno, all'eteronomia €uropea, e alla dannosa cura dimagrante che lo Stato sociale ha subito e dovrà ancora subire, almeno finché non verrà modificata l'architettura della moneta, insieme al suo sistema di regole assurde e recessive.