venerdì 29 giugno 2018

WUNDERBAR

Un'educativa lezione di economia (ma in tedesco)

A volte, seguendo i dibattiti televisivi sull'euro, dove le ragioni degli €uristi vengono in genere fatte apparire ben più convincenti di quelle degli italiani (ma ancora per poco), si incontrano economisti che sono in realtà cabarettisti. Ce n'è in particolare uno (una collaudata macchietta neoliberista) che appare su varie reti con abiti sgargianti e stupefacenti, provenienti dal guardaroba del presentatore del Circo Togni.
Accade però anche il contrario. Esistono infatti cabarettisti che sono veri economisti, come Max Uthoff e Claus von Wagner, nel formidabile programma televisivo tedesco Die Anstalt, dove l'anno scorso (maggio 2017) hanno efficacemente spiegato il surplus commerciale della Germania, con un bellissimo sketch, che vi invitiamo a vedere (dura solo dieci minuti).
Anche Prodi ci ha parlato spesso dello stesso argomento, seriamente, ma arrivando a conclusioni diverse e completamente diseducative. Dopo avere criticato il mercantilismo tedesco finisce infatti, invariabilmente, con l'accettarne la logica e i ricatti. Tutto si risolve sempre, infatti, con la "seria politica della formica", di provata inefficacia. Una resa all'austerità teutonica.
Le ragioni che rendono l'euro economicamente insostenibile, tra le risate del pubblico, grazie a due cabarettisti risaltano invece molto meglio, e altrettanto bene si comprende come la cultura della competizione, che ha ispirato e regolamentato la moneta unica, sia il principale, insormontabile ostacolo alla sua riforma.
Visitando il canale di Youtube Tiffy T.F., da cui il video proviene, con sottotitoli in italiano, si scoprono tante cose sulla Germania. La prima è che non tutti i tedeschi pensano come noi pensiamo che pensino. Cioè come Prodi.


E allora ci è venuta un'idea. Dal momento che le linee di indirizzo per l'insegnamento dell'economia politica nel secondo biennio degli istituti tecnici (fascia di età 17-18 anni) prevedono, tra le conoscenze, "scambi internazionali e caratteristiche del mercato globale", e tra le abilità il saper "individuare e riconoscere le interdipendenze tra sistemi economici e le conseguenze che esse determinano in un dato contesto", il video è pienamente in tema. Può essere un bello spunto, oltre a tutto divertente, per introdurre con la LIM un'unità didattica sul commercio internazionale, che prima o poi va fatta.
L'idea centrale è elementare: surplus e deficit solo l'uno lo specchio dell'altro. Perché un paese sia in surplus un altro deve essere per forza in deficit. Pretendere che tutti siano in surplus è una follia. Un sistema costruito su questa idea (è bene essere in attivo mandando gli altri in passivo attraverso una crescente competitività) tende alla propria disgregazione ed è determinato da una pulsione autodistruttiva.


Quanto allo stratagemma utilizzato nello sketch, l'altalena basculante dell'asilo (o meglio della scuola dell'infanzia, per evitare un termine che le nostre maestre giustamente rifiutano): è un sussidio didattico che funziona sempre, con grandi e piccoli.
E alla fine, se la classe si documenta e lavora bene, qualcosa sarà chiaro: che la "seria politica della formica", imposta dal nazionalismo mercantilista tedesco, non è la soluzione ma il problema.

martedì 26 giugno 2018

In morte della chiamata diretta


Dunque è ufficiale. Com'era prevedibile scompariranno dai siti scolastici gli avvisi di chiamata per competenze, di cui all'art. 1, comma 79, della legge 107/15, la cosiddetta "chiamata diretta" dei docenti secondo il rito della Buona Scuola, che il preside pontefice ufficialmente spiegava cosi: "Nel mio istituto, finalmente, gli insegnanti me li scelgo io, sulla base del curriculum e non dell'anzianità, per le esigenze del PTOF e non della graduatoria".
Valori di riferimento: competitività, meritocrazia, efficienza, convenienza, e insomma tutto l'ambaradan della pedagogia del gambero, che nella Buona Scuola ha raggiunto la fase acuta.
Ma il presagio della morte prematura di questa curiosa "innovazione" era nell'aria. Da alcuni segnali, ufficiosamente, si era già capito, infatti, che non se ne sarebbe fatto nulla. E non per i meriti di chi si è opposto alla riforma, ma per i demeriti di chi l'ha approvata, incapace di prevedere gli effetti delle proprie incaute decisioni su un ambiente di lavoro che non conosce e che non comprende.
Nella scuola italiana la chiamata diretta non può funzionare, perché contrasta con i pilastri del sistema. E così, incautamente approvata, si è trascinata per un po' nel limbo di un'applicazione farraginosa e controversa, irrigidendosi in regolamenti, procedure, quesiti e cavilli che fin dalle prime applicazioni hanno fatto rimpiangere la lineare chiarezza delle graduatorie. E alla fine (ed è un sollievo per tutti) viene accantonata con una di quelle misure di "semplificazione" che spazzano periodicamente le vie del diritto scolastico, per liberarle dai rifiuti e dalle incrostazioni del tempo. E ciò appare chiaro non tanto ascoltando quelli che l'hanno contrastata, quanto analizzando gli argomenti degli altri, che l'hanno difesa, o hanno creduto di farlo, e che la volevano, o credevano di volerla...

Nel nostro sistema scolastico è molto radicata l'idea dell'interesse pubblico, che riporta a finalità collettive e non a preferenze individuali. Ne consegue la diffusa e indiscussa convinzione che l'amministrazione debba essere imparziale, e anche apparirlo. Corre quindi dei rischi la reputazione del dirigente che assume decisioni in obbedienza a criteri troppo personali e non condivisi. Nella chiamata diretta dei docenti il preside è esposto a varie minacce:
  • Se tende a scegliere gli insegnanti sulla base di valutazioni non ben definite, delle conoscenze personali, dei rapporti di vicinanza o di altre affinità non sempre chiare, appare clientelare.
  • Quando, diversamente, sceglie in coerenza con idee manifestate in modo netto, premiando i "fedeli alla linea" e scartando chi sostiene posizioni e indirizzi contrari, viene percepito come fazioso.
  • Se valuta e sceglie, invece, applicando regole rigide e astratte, fatte valere con intransigenza e con spirito sanzionatorio, tralasciando il resto (che a scuola è l'essenziale), diventa autoritario.
Sospetti di clientelismo, faziosità, autoritarismo o abuso di potere, accompagnano inevitabilmente il dirigente dello Stato quando assume decisioni discrezionali. Per chi fa parte della pubblica amministrazione l'obbligo di motivazione è infatti doppio. La discrezionalità deve agganciarsi alla realizzazione di un interesse generale, e mai privato. E ciò, per chi dirige una scuola, prima di essere un principio del diritto rappresenta un fatto ovvio, un'esperienza di vita quotidiana e una condizione professionale.
Non era perciò difficile prevedere che i presidi, proprio perché sottoposti a questa condizione, si sarebbero preoccupati della propria reputazione, che dipende, in primo luogo, dal giudizio (vicino) delle famiglie, degli studenti e dei docenti, e solo secondariamente dalle valutazioni (lontane) dell'amministrazione centrale.
A scanso di equivoci, e per fugare ogni sospetto, molti hanno sentito il bisogno di illustrare minuziosamente il perché delle proprie scelte, ne hanno formalizzato anticipatamente i criteri, "quanto più possibile oggettivi" (in questi casi bisogna dire così), cercando di condividerli almeno con la parte più influente del collegio. Ogni nomina, per trasparenza, ha comportato una simile fatica, ben visibile negli "avvisi di chiamata" pubblicati sui siti scolastici. Si è trattato in pratica di costruire, in luogo della grande graduatoria degli aspiranti, ripudiata dalla demagogia aziendalista della Buona Scuola, piccole graduatorie concepite ad hoc, caso per caso.
Non è difficile immaginare l'evoluzione di questo processo di disgregazione del sistema di reclutamento dei docenti e dello stato giuridico del personale: premesse con citazioni di leggi e di regolamenti (per dimostrare che l'iter è fondato e non c'è niente di arbitrario); elencazione di requisiti e criteri in ordine di priorità (per ribadire che nulla è affidato al caso); riferimenti alle delibere dei collegi, agli accordi e alle informative (per ricordare che siamo in democrazia). Ma quando si fa così, di avviso in avviso, le cose si complicano. Un eccesso di spiegazioni va sempre spiegato, e provoca richieste di chiarimenti. La proliferazione delle norme deve essere a sua volta normata, e a seguito di rilievi opportunamente emendata. Tanto che, di emendamento in emendamento, lungo il tormentato procedimento, negli spasmi dell'iper-regolamentazione, abbiamo presto sentito i primi lamenti emergere dalla disperazione. Fino all'inevitabile grido finale: ARRIDATECE LE GRADUATORIE!
Che poi non erano una cattiva idea. Nonostante limiti ben visibili avevano (e hanno, e avranno) il merito di rispondere a un'inderogabile esigenza di imparzialità, che continua a provenire da un diritto scolastico ferito, ma ancora tenacemente in vigore, nonostante una ventennale opera di demolizione pro competitività, pro concorrenza, pro mercato, e soprattutto pro Europa.
Fatti i debiti rapporti, vale per il sistema delle graduatorie, provinciali e di istituto, quello che Keynes pensava del capitalismo: "Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo che cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi."
Anche le graduatorie non sono intelligenti e virtuose, e non mantengono le promesse per cui sono state inventate, ma dopo avere considerato gli effetti del sistema della chiamata diretta per competenze, che pretenderebbe di sostituirle, oltre a rimanere perplessi, comprendiamo che dovremo sopportarle ancora per molto tempo.
Quanto al richiamo a Keynes, non è casuale e vuole costituire un significativo indizio.

domenica 24 giugno 2018

Zero nero

Herr Schäuble è stato per anni il simbolo del rigore nel bilancio pubblico e il campione dell'austerità. Notizie sulla sua politica sono riportate nell'unità didattica urgente sul nazionalismo tedesco.
Le ultime elezioni non sono però andate troppo bene per lui, che ha dovuto lasciare il ministero dell'economia. Grazie ai meriti riconosciuti e al prestigio che si è guadagnato frustando i pigri paesi del Sud è stato comunque eletto presidente del Bundestag. Per salutarlo con un gesto sensazionale i dipendenti del ministero, vestiti di nero, hanno formato un grande zero: lo "schwarze Null" (zero nero), espressione gergale per indicare un bilancio pubblico in pareggio, zero deficit, zero debito, austerità. Zero assoluto.
Immaginate una scena simile nel nostro MEF... No, non sarebbe credibile, queste sono cose che possono fare solo i tedeschi. Compatti, granitici, come un sol uomo, fino al disastro... Il destino vuole che periodicamente la Germania trascini l'intera Europa nella propria rovina. E infatti il nuovo ministro dell'economia, il socialdemocratico Olaf Scholz, non solo ha confermato la linea dello "schwarze Null", ma pare che di qui al 2022 voglia ridurre anche gli investimenti pubblici già programmati per evitare di avere un deficit di bilancio. Prosegue l'opera di smantellamento dello stato sociale nel nome dell'euro e del rigore.
Questa è la linea dei tedeschi, irremovibile, inflessibile, inesorabile... verso il suo esito ormai inevitabile: il dissolvimento dell'eurozona.



Ma pretendere che il bilancio dello Stato si mantenga sempre in pareggio potrà mai essere una buona idea?
Secondo questo articolo, che riporta l'opinione di cinque premi Nobel per l'economia, si direbbe proprio di no.
Eppure la regola nera (schwarze), imposta dall'Europa germanocentrica, è stata ugualmente inserita nella nostra Costituzione nel 2012. Ma c'è consapevolezza di quanto è stato approvato? Sembrerebbe di no.
Dal momento che a scuola si insegna Cittadinanza e Costituzione, non sarebbe il caso di approfondire?

Ad ogni buon conto, per quanto direttamente riguarda il sistema scolastico, si sappia che, grazie a questa "novità" costituzionale filotedesca, non è nemmeno lontanamente pensabile un innalzamento della spesa per l'istruzione, e neppure la restituzione di quanto tagliato negli ultimi anni. Zero assoluto, zero spaccato.
Ma allora quelli che dicono "abbiamo invertito la tendenza...", "si torna a investire sulla scuola...", "in arrivo altri  miliardi per la formazione..." e via discorrendo e promettendo?
Direi che l'analisi è molto semplice: MENTONO. 
Fatevi quattro conti da soli. I dati sono a disposizione e potete scaricarli dai siti istituzionali. Non manca nelle nostre scuole la capacità di interpretarli.
N.B.: Se siete docenti o dirigenti, o bidelli o assistenti, tenete ben presente che è del vostro stipendio che si sta parlando, oltre che di pedagogia. Il bilancio del Miur è quasi interamente composto dai costi per il personale (retribuzioni). Ma questo lo sapevate già.

giovedì 21 giugno 2018

L'invalsite si sta aggravando


Ho già spiegato perché l'invalsite è una malattia. Non certo perché non sia utile un ente di ricerca valutativa di supporto alle autonomie scolastiche. Anzi, è proprio lo stimolo alla ricerca autonoma che manca, in particolare da quando l'Invalsi, invece di svolgere questo importante compito, per cui era stato creato, è passato alla valutazione diretta degli allievi, sovrapponendosi alle autonomie e ai docenti.
L'invalsite è diventata una malattia della valutazione perché le prove Invalsi, assumendo un carattere nazionale, poste al centro dell'attività dell'ente e rese obbligatorie, da strumento si trasformano in fine, unico termine di paragone a cui confrontare gli allievi, tra loro e con un presunto standard di apprendimento, e con il rinforzo di un decreto legislativo. Nessuno può ragionevolmente asserire di avere finalmente escogitato un test capace di certificare oggettivamente le competenze di italiano e di matematica. Una simile, ingenua illusione certificherebbe piuttosto di per sé la mancata comprensione del problema. E nemmeno i più solerti invalsisti arriveranno mai a sottoscrivere una sciocchezza di tale portata. Eppure, nei fatti, è questo il messaggio che passa quando, insieme agli attestati degli esami, vengono consegnati agli studenti e alle famiglie i risultati di pretenziose prove oggettive nazionali, con crocette accanto alla descrizione dei livelli conseguiti.
Prove a crocette che attraverso crocette certificano il livello di competenza raggiunto, che fa coincidere l'allievo con un profilo prestampato, che consiste in una sequenza di descrittori predefiniti. A ciascuno, insomma, il suo pedigree: finalmente certificazioni nazionali, firmate da un direttore generale, in riferimento agli articoli di un decreto, che conferisce al tutto l'aura di una solenne ufficialità e che permette (anzi raccomanda) confronti tra gli allievi, e di riflesso tra i loro docenti e le loro scuole. Un messaggio tanto oscuro sul piano pedagogico, visti gli evidenti limiti dei test, quanto chiaro su quello politico (e demagogico).

Quel che in questi giorni accade, al termine degli esami di stato conclusivi del primo ciclo, dimostra che l'invalsite si sta aggravando. Le scuole dovranno consegnare, accanto alla consueta documentazione, anche i risultati delle prove nazionali Invalsi, di cui agli articoli 7 e 9 del decreto legislativo n. 62/2017, in ottemperanza al DM applicativo 742/17. Tali norme, che discendono dalla legge 107/15 e rappresentano pertanto un pezzo della sedicente Buona Scuola, ci consentono di fornire una breve descrizione della trappola valutativa architettata per il primo ciclo.
Ma andiamo per ordine:
  • L'Invalsi, in nome dell'Europa e della strategia di Lisbona, ha aperto una consultazione urbi et orbi sulla certificazione delle competenze, sollecitando pareri, ascoltando i volenterosi (o fingendo di farlo) e sperimentando.
  • Dopo lunga e penosa sperimentazione agli insegnanti è stato inviato un compitino, che consiste nell'associare 4 lettere a 8 indicatori + 1 (si dice anche che ciò sia molto "europeo", il che dà all'operazione quel caratteristico tono Erasmus che negli ultimi tempi precede e accompagna tutte le fregature).
  • Accanto alla schedina prodotta dai consigli di classe, però, arriva adesso anche il pedigree dell'allievo, costituito da due paginette in cui vengono "certificati" i "livelli" di italiano, matematica, inglese, distinguendo per l'inglese in ascolto e lettura (per l'italiano no). Vedi inquietante allegato B al citato DM 742/17.
  • Siamo sicuri che i saggi non la pensano così, ma sappiamo, con altrettanta certezza, che nell'opinione corrente, nei fatti, viene diffusa e passa per buona una certificazione degli standard (nazionali) raggiunti in italiano, matematica, inglese al termine degli esami conclusivi del primo ciclo. Questo a partire dal giugno 2018, cioè da oggi.
  • Alcuni docenti con decisione (e molti altri timidamente) fanno notare che le cose, beh, non stanno proprio così, perché... cioè... o meglio... già Vertecchi diceva... sì sì, ma oggettivamente non direi... e poi gli standard però... dunque... sai com'è... e anche De Mauro... tuttavia, stracioè... E l'Invalsi ascolta sempre (o sempre fa finta di ascoltare) e organizza i perplessi in squadre e batterie, e poi via... a sperimentare.
  • Nel frattempo, mentre quegli altri sperimentano, si consolida la percezione diffusa circa l'esistenza di standard oggettivi nazionali di riferimento, a cui confrontare gli allievi, le classi, le scuole, i docenti.
  • Tale falsa percezione, al pari di altre convinzioni errate ma ugualmente condizionanti sul piano sociale, acquista un decisivo peso politico, e diventa il primo riferimento per ogni intervento futuro sul sistema scolastico italiano.
  • Parallelamente l'Invalsi si fregia di nuove importanti scoperte "scientifiche". A livello di sistema vi è finalmente la prova che i disgraziati che abitano gli angoli più sgarrupati d'Italia sono sotto standard, mentre nei quartieri residenziali di Milano, dove tutti sembrano politicamente corretti, europeisti e invalsisti, siamo sopra standard (chi lo avrebbe mai detto, eh?); e a livello di classe appare finalmente, fattualmente oggettivo, che Pierino del dottore sta sopra Luigino dello spazzino (ben sopra, hai capito? Oggettivamente al di sopra; anche se nel modello Invalsi del pedigree i livelli superiori, probabilmente per confondere i volenterosi che sperimentano, sono stati collocati sotto, in basso; ma è un "in basso" che vuol dire "in alto" con l'aggravante dell'ipocrisia).
  • Pierino del dottore? Ancora lui, quello di don Milani? Sì, proprio lui. Pierino del dottore resuscitato dall'Invalsi, certificato e con pedigree (ultimo profilo "in basso").
  • E la didattica? Non potrà certo ignorare che ogni allievo ha il pedigree, sarà la didattica del pedigree dello studente (e del docente, e della scuola e del dirigente). La didattica degli standard fattuali e dei test nazionali a cui conformarsi. E tutti, pur brontolando, a fare quel che l'Invalsi ha stabilito di valutare.
  • E i risultati delle prove nazionali, a questo punto, si potrebbero anche pubblicare in anticipo, prima delle iscrizioni, in modo tale che le scuole più richieste (quelle frequentate dalle caselle "in basso") possano liberarsi degli esuberi guardando i pedigree (caselle "in alto"). Lo so, è illegittimo, ma per sentirselo dire bisogna andare al TAR. E poi, a lungo andare, anche la giurisprudenza dei TAR cambia, a forza di insistere, perché il diritto finisce sempre per rispecchiare il comune sentire. Dunque invalsite acuta per tutta la vita.
Un governo che prometteva l'abrogazione della Buona Scuola si è da poco insediato: è ancora presto per giudicare, ma intanto l'Invalsite, grazie alle disposizioni attuative approvate nel corso del 2017, si sta aggravando. E i commenti degli esperti, degli addetti ai lavori e degli specialisti sembrano cauti, misurati, attenti a non scoprirsi, a "non stravolgere", correggendo le sole "criticità", pacatamente. E allora anch'io, in riferimento alle stesse "criticità", con altrettanta pacatezza, dirò che il DM 742/17 è una VERA PORCATA, e che propendo per un'azione di resistenza attiva alla pedagogia del gambero.
Sono da scartare, però, le piste più battute:
Niente appelli (negli ultimi tempi sono stati spesso, soprattutto in ambito scolastico, strumento per battaglie di retroguardia promosse da conservatori).
Niente scioperi (tanto poi il sindacato, che all'inizio appoggia, nel percorso, posto sotto scacco da quelle stesse forze che dovrebbero sostenerlo, finisce in genere per mediare al ribasso).
Occorrono insomma nuove forme di lotta e di ricerca (lotta e ricerca in questo caso coincidono), per mettere l'Invalsi in fuori gioco, culturalmente e politicamente.
Saranno alla fine le stesse scuole, autonomamente o in rete, a scoprire la cura per l'invalsite acuta.

domenica 17 giugno 2018

Liberatevi del santino di Berlinguer (Luigi)

Sempre più spesso mi capita di leggere, fortunatamente, pagine molto critiche sugli ultimi anni di riforme scolastiche incompiute e fallite. Sono scritte, con condivisibili argomentazioni, contro la scuola degli adempimenti orientati all'efficienza, contro l'invalsite, il neoliberismo aziendalista, i registri elettronici che fanno le medie al posto degli insegnanti. In genere provengono da colleghi con una storia politica di sinistra, che però sbagliano le date. Fanno infatti iniziare questo processo degenerativo dalla riforma Moratti (2001) e ne attribuiscono quindi la responsabilità al centro-destra. Ma siamo proprio sicuri? Un esame attento dei fatti dovrebbe portarci in un'altra direzione.
Nella successiva ricostruzione mi propongo di spiegare come sia stato invece il ministro Berlinguer a dare avvio alla deriva neoliberista che non si è ancora conclusa e che ha riportato la scuola italiana indietro di decenni. Ciò è ben visibile a proposito della valutazione degli allievi, il luogo in cui si  realizzano i cambiamenti decisivi. Berlinguer in particolare, e non la Moratti, ha interrotto la spinta innovativa nata dalla legge 517/77, la valutazione formativa, con una semplice e poco democratica circolare estiva (la CM 491/97). E da qui che comincia il percorso del gambero che ci ha riportati ai voti, alle medie, ai registri elettronici. Molti lo hanno dimenticato. Ebbene bisogna ricordarlo, e in modo analitico.
Berlinguer ha operato nella scuola conformemente al governo di cui faceva parte, come Treu nel lavoro e Prodi nell'economia, aderendo a quel progetto liberista, fatto di riduzione dei diritti e di accettazione dei vincoli esterni europei, che ha caratterizzato l'azione del centro-sinistra fino al renzismo e alla Buona Scuola.
Ammetterlo sarebbe importante, anche per dimostrarsi meno sorpresi e privi di strumenti di comprensione davanti ai cosiddetti "populismi", che non si spiegano, né potranno mai essere superati, senza riconoscere le pesanti responsabilità di una "sinistra" che, venendo meno al proprio ruolo, ha agito come una vera destra economica, politica e culturale.

"Ah, Berlinguer (Luigi), lui sì che aveva le idee chiare!"; "L'unica vera riforma della scuola, moderna ed europea, era quella di Berlinguer, ed è per questo che non gliela hanno fatta fare..."; "Con Berlinguer l'insegnamento sarebbe diventato un mestiere serio, ecco perché i sindacati lo hanno crocifisso..."; "Sappiamo bene com'è andata: Berlinguer voleva l'autonomia scolastica con nuove responsabilità per tutti e perciò la corporazione dei professori lo ha tradito e abbandonato..."; "La scuola di Berlinguer era buona, ma severa e meritocratica, e così quelli che senza meriti godevano di rendite di posizione si sono coalizzati contro di lui per mantenere i privilegi, povera Italia..."; "Ma basta con queste pseudo-riforme di destra, torniamo a Berlinguer (Luigi)!" 
Nei partiti del centrosinistra (o di quel che ne rimane) e nelle vicine associazioni professionali dei docenti (se e dove esistono ancora) c'è chi continua a pensarla più o meno in questo modo. Berlinguer ha lasciato i suoi orfani, che sarebbero contenti di vederlo ritornare, e con lui molte illusorie aspirazioni. Rimpiangono la Grande Riforma che intendeva essere "epocale", della portata storica di quella di Gentile, ridisegnando la scuola in funzione degli indirizzi europei e dei saperi essenziali, pur non sapendo e non potendo definire con chiarezza né gli uni né gli altri, e non riuscendo a costruire un consenso duraturo su nulla.
Eppure, che una riforma debba ancora affermarsi, che possa essere "epocale" e anche "europea", rimane una speranza aperta nell'immaginario di un riformismo che cresce sulle proprie rovine. Più sbaglia e più trova modo di riproporsi, e secondo i suoi sostenitori non fallisce mai abbastanza e mai in modo definitivo. In questa prospettiva i fallimenti di Berlinguer non sono prova della sua inadeguatezza, anzi. Costituirebbero piuttosto un pretesto per ritentare e farebbero di lui il testimone (o il martire) di un disegno riformatore sacrosanto. Insomma un santino. Primo di una serie di ministri votati a un analogo destino, e dunque Protomartire, come Santo Stefano.
San Luigino Protomartire della Grande Riforma Epocale:


L'accantonamento di un simile santino gioverebbe alla scuola, e contribuirebbe alla comprensione del vero significato dell'euro-riformismo dell'ultimo ventennio, che da Berlinguer in poi ha trascinato il sistema formativo italiano in un percorso involutivo, con il passo del gambero (sempre all'indietro e mai in avanti). Non ci sono santi da rimpiangere, ma un processo degenerativo da interrompere.
Certo, se confrontato con quelli che sono venuti dopo, con la Moratti e con Fioroni, con la Gelmini e con la Giannini, Berlinguer può apparire un gigante del pensiero. E infatti un maggiore spessore culturale e politico gli va riconosciuto, ma non al punto di non vedere nel suo progetto incompiuto le tendenze che, aggravate dai suoi successori, porteranno prima alle "riforme" Moratti e Gelmini e poi alla Buona Scuola:
1. L'illusione della Grande Riforma Epocale in primo luogo. Nella scuola di massa si concentrano spinte di ogni tipo e continuamente sorgono domande e risposte a bisogni non omogenei. Chi ha la forza di imporre una nuova "razionalità assoluta" che possa governare questa crescente varietà? Solo chi, privo del "senso della complessità", ritenga ancora possibile l'esistenza di un Centro capace di unificare, in una visione piena e coerente, le ragioni parziali che ormai compongono il sistema, anzi i sistemi locali, che vanno compresi, ascoltati e messi in condizione di funzionare prima che riformati. L'autonomia scolastica, come metodo e come prassi, potrebbe costituire la vera riforma, la sola possibile, la cornice unitaria della scuola di massa, ma Berlinguer, pur approvandola, vi ha sovrapposto un pesante progetto centralistico e irrealizzabile, che ha finito per esserne la negazione.
2. Il disfacimento del diritto scolastico è l'involontario risultato di questo riformismo velleitario, poco consapevole della complessità del sistema, che, non disponendo di un solido consenso, attraverso una "strategia del mosaico" intendeva smantellare la vecchia scuola e fare apparire la nuova a piccoli passi, tessera dopo tessera. L'effetto imprevisto è stato invece solo quello di destabilizzare il diritto scolastico vigente, senza tuttavia pervenire a un diverso ordine. Dunque creando incertezze e vuoti, e materia per interminabili contenziosi. Più un colabrodo che un mosaico, destinato a peggiorare nei riformismi successivi.
3. Il ritorno al centralismo ministeriale è il riflesso involontario a cui le amministrazioni ricorrono in presenza di norme contraddittorie e incompiute. Ciò è accaduto a Berlinguer e ancora di più ai suoi successori, in un quadro dominato dall'esigenza di risparmiare sulla scuola, sui servizi, sul welfare, per i noti vincoli di bilancio €uristi.
4. Il definanziamento del sistema formativo, quando la principale preoccupazione è la riduzione delle spese dello Stato, pro moneta unica e pro Europa, è il risultato finale e obbligatorio di qualsiasi "riforma". Berlinguer ha tentato, timidamente e parzialmente (vedi legge 440/97), di finanziare l'autonomia scolastica, ma mai nella logica dell'investimento e sempre in quella del risparmio (le fantasiose riforme a costo zero). Non si investe sull'istruzione, è vietato dopo Maastricht, e prima di fare qualsiasi cosa bisogna cominciare col tagliare qualcos'altro. Al principio c'è sempre un taglio, liberista e monetarista. Questo atteggiamento, inasprito di ministro in ministro, è stato il filo conduttore dell'ultimo ventennio. La deflazione scolastica, la riduzione del valore della scuola, è l'anima dell'euro-riformismo.

Berlinguer non è pertanto alternativo ai suoi successori, ma inaugura la linea regressiva che ha caratterizzato l'azione dei governi dal 1996 ad oggi. Ciò è ben visibile nell'ambito in cui si realizzano tutti i cambiamenti decisivi nel mondo della scuola: la valutazione degli allievi. 
C'è un provvedimento, una semplice circolare, la CM 491 del 7 agosto 1997 (oggetto: Valutazione degli alunni della scuola elementare e dell'istruzione secondaria di primo grado), che ha esercitato una grande e negativa influenza sul sistema scolastico italiano, con danni dapprima sottostimati e poi dimenticati.
Questa circolare del ministro Berlinguer, abolendo la scheda valutativa adottata a partire dal 1993/94, ha di fatto disconosciuto i principi della legge 517/77 (la valutazione formativa), aprendo un processo involutivo che non si è ancora concluso.
La scheda in uso nel 1997 discendeva dal  DM 5 maggio 1993 (Nuovo modello di scheda di valutazione per gli alunni della scuola media). Era composta da quattro quadri:  un Q1 destinato a "descrivere le condizioni iniziali di apprendimento che connotano ciascun alunno"; un Q2 dedicato alla definizione "degli interventi idonei a favorire, alla luce delle condizioni stesse, lo sviluppo personale mediante il rinforzo rispetto a ciò che manca e la spinta in avanti rispetto a ciò che è presente"; un Q3 dove si valuta il progresso nelle discipline, "anche con riguardo ad eventuali criteri individualizzati, descrivendoli di volta in volta per rendere più espliciti gli obiettivi che fungono da parametri di giudizio", mentre le corrispondenti valutazioni sono espresse con lettere dalla A (pienamente raggiunto) alla E (non raggiunto); infine un Q4 discorsivo, che riporta il giudizio del livello globale di maturazione, "che tenga realmente conto della soggettiva condizione di partenza, degli interventi posti in essere alla luce di questa e delle risposte fornite al riguardo dall'alunno, dei criteri di valutazione analitica adottati in conseguenza e degli aspetti meglio caratterizzanti le potenzialità e la maturazione di ciascuno".
La scheda, abolendo i voti, ricalcava il procedimento della valutazione formativa, scandendone le tappe, affidate ai consigli di classe, chiamati a una minuziosa azione di programmazione collegiale. Aveva certamente il merito di spingere le scuole a una riflessione collettiva sulle strutture delle discipline e sulle modalità degli apprendimenti, sempre a partire dai casi particolari, effettivamente incontrati in classe, e dalle esigenze pratiche dell'insegnamento individualizzato. Con un evidente limite, tuttavia, subito emerso con chiarezza: un eccesso di formalizzazione, che aumentava a dismisura il tempo necessario alla compilazione, appesantiva il lavoro dei docenti e rischiava di irrigidirsi in una faticosa routine.
Come uscire da questa difficoltà? Una soluzione innovativa spingeva verso la conferma dell'abolizione del voto, da estendere anche alle secondarie di secondo grado, delegando però ai singoli istituti la definizione dei modelli delle schede valutative e prevedendo, sul piano nazionale, solo una certificazione dei livelli raggiunti da produrre a fine anno. Una soluzione tradizionale riteneva invece che la semplificazione di cui si sentiva l'esigenza altro non fosse che il ritorno al voto, al suo impressionismo e alla sua immediatezza, abbandonando le "inutili complicazioni" della valutazione formativa, che si esprimeva in "didattichese", un gergo specialistico e oscuro.
Berlinguer, imponendo che le singole discipline venissero valutate con i giudizi sintetici di ottimo, distinto, buono, sufficiente, non sufficiente (aggettivi facilmente associabili a numeri, e cioè voti), ha scelto quest'ultima opzione, anche se lo ha fatto, per esigenze di carattere tattico e politico, con una formulazione ad alto tasso di ipocrisia, come dimostra il seguente passaggio, tratto dalla circolare:
"I modelli e gli strumenti di valutazione, fin qui elaborati con sostenuti ritmi di cambiamento e arricchimento, poggiano su presupposti teorici e pedagogici tuttora validi, ma lasciano aperte alcune rilevanti questioni, emerse anche dalle azioni di monitoraggio condotte.
Si è rilevata, infatti, la necessità di:
- distinguere tra funzione certificativo-comunicativa e funzione didattico-formativa della valutazione;
- ridurre il carico di lavoro redazionale che pesa sull'insegnante, con evidenti diseconomie nella distribuzione degli impegni professionali;
- garantire chiarezza alle informazioni valutative destinate agli alunni e alle loro famiglie.
In attesa di una revisione globale del sistema di valutazione nella scuola dell'obbligo, connessa al riordino del sistema di istruzione, è sembrato opportuno a questo Ministero operare già per l'anno scolastico 1996/97 al fine di migliorare gli strumenti di certificazione e di comunicazione con gli studenti e le famiglie anche nella prospettiva dell'autonomia."
In altre e più chiare parole: i modelli e gli strumenti valutativi elaborati fino al 1997 in attuazione della legge 517/77 (valutazione formativa) sono complicati per i docenti e incomprensibili per le famiglie; bisogna che i giudizi diventino più "semplici" e comunicabili sul piano pratico, e perciò, senza fare troppe parole, conviene esprimerli con alcuni aggettivi, i soliti (sufficiente, non sufficiente, buono, eccetera), cioè con voti; in questo modo tutti capiscono e migliora la funzione certificativa e comunicativa della valutazione, in attesa della "revisione globale del sistema"; la prospettiva didattica e formativa resta valida e se ne riparlerà nel contesto della Grande Riforma Epocale (cioè mai), ma per il momento si torna all'antico.
La promessa di una grande riforma futura viene qui utilizzata per interrompere le sperimentazioni in corso, e per riabilitare voti e pagelle, accantonando il gran lavoro svolto in funzione dell'insegnamento individualizzato, della differenziazione dei percorsi, della didattica inclusiva. Si arresta dunque con Berlinguer la spinta innovativa della legge 517/77. Agli strumenti che ne sono derivati si rivolge, nel commiato, un frettoloso riconoscimento ("poggiano su presupposti teorici e pedagogici tuttora validi"), ma solo per introdurre "alcune rilevanti questioni, emerse anche dalle azioni di monitoraggio condotte", che ne giustificano l'abbandono.
Da qui in poi questo modo di procedere diventerà una costante, in altre circolari, decreti e leggi, con altri governi e ministri: in premessa un panegirico pro valutazione formativa; successivamente una raffica di disposizioni che spingono a fare l'esatto contrario.
Alla base delle motivazioni che riportano in vita la pagella tradizionale c'è una distinzione: tra funzione certificativo-comunicativa (che deve essere semplice e chiara per avere efficacia) e funzione didattico-formativa della valutazione (che tende a essere complessa e specialistica). Ma si tratta di una falsa antitesi, improponibile dal punto di vista formativo. La valutazione è un processo unitario e circolare: ciò che appare valido a livello didattico e pedagogico deve essere comunicato per poter incidere, e ciò che viene comunicato influenza l'apprendimento e di conseguenza l'insegnamento e i criteri valutativi. Non c'è alcuna opposizione tra i due piani, e nel rilevarla l'estensore della circolare dimostra una mancata comprensione del problema e si pone al di fuori della prospettiva formativa.
Attribuire al voto, o al corrispondente giudizio sintetico espresso con aggettivo, i caratteri della semplicità e della comprensibilità, è il pregiudizio più comune e tipico del docente non professionale. Proprio le teorie della valutazione e le ricerche della docimologia hanno invece spiegato quali confuse ed equivoche impressioni si nascondano dietro a questa presunta chiarezza. Valutare significa appunto illuminarne il fondo oscuro, dando a ciascuno il diritto di ricevere un insegnamento compatibile con i propri livelli di partenza e con il proprio stile cognitivo.
Sbagliato nel merito, il ritorno alla pagella si è rivelato nocivo anche per il metodo usato nell'imporlo. Uno schiaffo alla democrazia e alla gestione partecipata del sistema formativo. Per cambiare l'indirizzo della scuola italiana, e su un tema così importante, si è ritenuta sufficiente una semplice circolare, scritta sotto Ferragosto, con un colpo di mano, per mettere le scuole davanti al fatto compiuto e scoraggiare le possibili proteste con l'aiuto del sole delle vacanze. Bisogna ricordare che fino a quell'estate la scheda valutativa era stata al centro delle iniziative ministeriali per la formazione del personale (una vera priorità nazionale). I più sensibili e impegnati sembravano proprio i docenti di sinistra e della CGIL, quasi tutti contrari al ritorno del voto, un'operazione sostanzialmente di destra. E appunto per questo Berlinguer la voleva, forse anche per acquisire nuovi consensi in un'area conservatrice che intendeva cooptare (e a cui, in fondo, era affine). Per tenere a bada i suoi contava invece sulla disciplina di partito, e non si sbagliava. Al rientro dalle ferie, dopo qualche mugugno iniziale, c'è stata infatti l'inversione a U dei colleghi "progressisti", animatori e aggiornatori in seminari e monitoraggi su scheda e valutazione. Ma più della valutazione valeva per loro l'appartenenza. Io c'ero, e un giorno vi racconterò com'è andata, ma per oggi basta così.
La sinistra pedagogica ha poi dimenticato e rimosso quel tradimento. Tanto che a volte sento dire che i voti sono un errore, e che sarebbe stata la Gelmini a reintrodurli nel primo ciclo. Eh no, cari compagni, è stato lui, Berlinguer (Luigi). La Gelmini ha solo messo dei numeri accanto a degli aggettivi, ma la strada, verso il basso, era già aperta.

Vendesi Santino di Berlinguer (Luigi), per restituire al nostro sistema formativo un po' del valore perduto, e a parziale risarcimento del danno subito dalla scuola italiana a seguito della CM 491 del 7 agosto 1997. 
Ma chi se lo compra?

mercoledì 13 giugno 2018

Il riformismo ha fallito, prevalga il senso della complessità

Cambia il governo e si torna a parlare di riforma della scuola. Verrà superata? O sarà piuttosto cancellata e poi ricostruita da zero? Oppure i nuovi arrivati, dopo avere a lungo promesso di raderla al suolo, finiranno per confermarla con modifiche marginali, ponendo le basi per un altro insuccesso? La sensazione è che il sistema scolastico sia sempre in procinto di essere rifatto daccapo, e nonostante questo (o forse proprio per questo) sia immobile, destinato a sopravvivere indefinitamente a se stesso e a ritornare ogni volta al punto di partenza. E non è una tendenza di questi ultimi giorni. Sono vent'anni che si va avanti così: dal "mosaico" di Berlinguer al "punto a capo" della Moratti, dal "cacciavite" di Fioroni al dilettantismo della Gelmini, fino alla Buona Scuola, che dei precedenti tentativi ha raccolto il peggio, portando alle conseguenze estreme la pedagogia del gambero.
Propongo di tralasciare le contrapposizioni di superficie e di interpretare la lunga sequenza delle riforme incompiute e fallite, che spero sia ormai alle nostre spalle, come un unico processo degenerativo: un processo unitario, al di là dei conflitti apparenti, perché indirizzato all'abbandono dell'idea di scuola proposta dalla Costituzione, con una prolungata deriva verso una concezione privatistica, liberista e mercatistica della formazione.
La linea di sviluppo del riformismo scolastico dell'ultimo ventennio è un processo involutivo: dalla scuola pensata come organo costituzionale si arretra, per tappe successive, all'istruzione e alla conoscenza concepite come strumenti del mercantilismo europeista.
Questo velleitario riformismo, sempre annunciante una Grande Riforma Epocale, che mai si realizza, continuamente si ripropone attraverso il perdurare di una mentalità centralistica, burocratica e tecnocratica, dettata da indirizzi europei. Mentre si dimentica che la complessità della scuola di massa non può più essere governata da un Centro, da una presunta razionalità assoluta, e che il sistema formativo non può rinnovarsi facendo affluire le direttive dall'alto (eteronomia e tecnocrazia) ma solo assecondando i processi che partono dal basso (autonomia e democrazia).
Non vi è dunque alcun bisogno di un'ennesima riforma destinata a fallire, perché rigettata dalle viventi comunità scolastiche e svuotata di senso, ma è necessario affidarsi alle soluzioni che provengono dalle singole scuole e che si ottengono facendole funzionare in autonomia, secondo la propria imprevedibile complessità interna.
Il mito della Grande Riforma deve cedere il passo al senso della complessità.

Piero Romei, il più influente teorico italiano dell'autonomia scolastica, che ho citato ampiamente in una delle pagine introduttive (Autonomia vs Eteronomia), ha ripreso nei suoi lavori, per spiegare la complessità della scuola, la curiosa metafora della partita di calcio di Karl Weick, uno dei fondatori della psicologia dell'organizzazione.
Consiste nell'immaginare una strana partita giocata su un campo inclinato di forma circolare, con molte porte sistemate sulla circonferenza, senza un ordine preciso. I giocatori non sono organizzati in squadre e possono entrare e uscire a piacere, facendo gol in una porta qualsiasi e modificando il punteggio. Ma la cosa più importante è che questo incomprensibile gioco viene giocato come se avesse senso.
Proviamo ora a sostituire i giocatori con gli studenti e con i docenti, il pubblico con i genitori, l'arbitro con il preside e avremo un'immagine dell'attività scolastica. Ma la scuola deve avere senso, e in effetti a un osservatore esterno non potrebbe sfuggire che tutti gli attori del gioco tendono a dargliene uno, e a tratti sembrano sicuri di conoscerlo e mostrano di condividerlo. Anche se, al termine della partita, lo stesso osservatore non saprebbe trovare le parole per descriverlo, e certamente avrebbe dei dubbi perfino sul risultato.
Questa immagine può essere usata per spiegare la natura del problema organizzativo che si incontra operando nella complessità del sistema scolastico. Le varie componenti agiscono in un proprio orizzonte di senso, che si è formato in contesti assai lontani tra loro, e si incontrano nell'esperienza della scuola già indirizzate da diverse provenienze, intenzioni, aspettative. Dare uno scopo alle azioni personali dentro un simile ambiente di lavoro, contrassegnato dalla presenza di finalità mobili e di compiti non determinati in maniera univoca, comporta la creazione di legami deboli. Le norme e le direttive esistono, e possono essere anche analitiche e dettagliate, ma il loro eventuale carattere prescrittivo è ammorbidito dal grande margine interpretativo che l'organizzazione, per preservarsi, deve attribuire ai suoi membri, pena l'impossibilità di funzionare.

La scuola è pertanto un'organizzazione complessa a legame debole, cioè caratterizzata da una relazione tra le parti in gioco necessaria, ma discontinua, occasionale, non precisamente codificabile. Il suo funzionamento dipende dall'autonomia dei suoi membri e dalla capacità di autodeterminarsi, in particolare attraverso l’iniziativa dei piccoli gruppi, che possono avviare sperimentazioni e innovazioni in un settore, senza che ciò debba produrre necessariamente delle modificazioni negli altri.
Questa flessibilità è però anche un limite evidente, in quanto, ai pericoli di tipo strutturale, assomma la variabilità imprevedibile dei comportamenti individuali, che spesso ostacolano lo sviluppo dei processi e dei meccanismi di integrazione operativa, che dovrebbero garantire la coerenza dell'insieme. Le unità scolastiche sembrano così organismi facilmente esposti alla disgregazione. Weick e Romei insegnano a studiarne le dinamiche interne, spontanee o indotte, allo scopo di individuare le opportune azioni di governo, che possano irrigidire e rafforzare alcuni legami fondamentali, per aumentare l'efficacia complessiva del sistema. Ne deriva un'azione collettiva diretta ad aggregare, esercitata nei punti chiave e sensibili, dove più si fa sentire l'effetto disgregante. 
La strategia organizzativa parte dunque dall'accettazione della presenza di legami deboli (perché ciò è strutturale) e individua quelli da rafforzare, in quanto posti in una posizione critica (perché ciò è indispensabile per indirizzare la struttura). Nel personale scolastico la provenienza (fedeltà agli schemi individuali di riferimento e all'origine delle proprie convinzioni) tende a prevalere sull'appartenenza (fedeltà all'organizzazione e alle sue richieste), ma, come si è ben compreso osservando una metaforica partita di calcio, è generalizzata l'esigenza che la scuola debba avere e abbia senso.
La costruzione di un senso collettivo è perciò il tema dell'organizzazione scolastica, con la scelta di rafforzare quei legami che determinano la fisionomia dell'istituzione, i punti su cui bisogna intervenire per dirigerla e controllarla, le azioni e i criteri per valutarla dall'interno (autovalutazione di istituto).
La ricerca di senso rinvia a un sistema di valori, e i valori all'operazione fondamentale della scuola: la valutazione. Valutazione dell'efficacia dell'insegnamento, della validità dell'apprendimento e degli studenti. Valutazione che consiste non solo e non tanto nel riconoscere valori preesistenti (provenienti dall'esperienza pregressa delle componenti scolastiche), quanto piuttosto nel formarne collettivamente dei nuovi (non ancora presenti al momento dell'apertura del processo e quindi prodotti dall'istituzione).

Che la costruzione di un senso collettivo sia il compito della scuola appare chiaro da sempre, nel passato e nel presente, ma in situazioni ben diverse. Mentre in passato poteva ancora esistere un Centro capace di dettare finalità e obiettivi all'intero sistema, oggi, di fronte alle richieste contrastanti e ai bisogni diversificati che condizionano la scolarità di massa, questo non è più possibile. Le scuole devono ormai svolgere un compito smisurato e multiforme, in risposta a domande talmente articolate e contraddittorie da apparire irriducibili a un denominatore comune. Rimane in esse, tuttavia, la problematica consapevolezza di avere una stessa origine, e idealmente anche una medesima destinazione. Una percezione di senso che, come quella dello spettatore della strana partita immaginata da Weick, è però assai vaga e non trova parole precise con cui descriversi. Ciò appare in modo speciale nei programmi e negli indirizzi nazionali, che si sono sovrapposti in decenni di buoni proponimenti, e che insieme costituiscono un repertorio di enunciati molto suggestivi ma per nulla operativi. Espressioni quali "collocare nel mondo", "formare l'uomo e il cittadino", "garantire il successo formativo", ci spingono verso finalità da tutti condivisibili, ma condivisibili proprio in virtù della loro generica e astratta formulazione, che si presta a svariate interpretazioni, tutte legittime in democrazia, ma tendenti ad elidersi reciprocamente fino allo stallo.
Il solo riferimento agli indirizzi nazionali pone il docente davanti a un compito infinito, lontanissimo dalle urgenze che si presentano in classe e che ciascuno deve affrontare giorno per giorno in solitudine. Ne deriva un disagio che Romei chiamava "mal di scuola". Chi ne è affetto, schiacciato dal peso di sfuggenti finalità generali che non si traducono mai in un prodotto tangibile, sprofonda nel sentimento di inadeguatezza ("insegnare è ormai inutile, non serve più"); o ancor peggio si convince di essere portatore dell'unico senso autentico della scuola, disconosciuto da un ambiente insensibile e ostile. Un ambiente vissuto come troppo lassista ("oh, non esistono più il rigore e la serietà di una volta, il sistema non riconosce il merito"); o al contrario percepito come troppo conservatore ("ah, nessuno si impegna veramente per cambiare, il sistema non premia il merito"). Opposti e inconciliabili modi di pensare e di subire il disagio, nella frustrazione di presunti meriti ingiustamente non riconosciuti, ma in realtà reciprocamente avversi e impegnati ad annullarsi in un gioco a somma zero. Opposti dolori, ma sintomi di una stessa malattia.

Dal "mal di scuola" si guarisce comprendendo che, nella complessità della scuola di massa, non è più proponibile una razionalità "assoluta", cioè svincolata dal contingente e dal locale, che possa dal Centro ridefinire il senso dell'istruzione e della formazione, e modificarne l'impianto grazie a un nuovo e coerente disegno, introdotto dall'esterno per decreto (e dunque con un'azione di eteronomia scolastica, in opposizione alle viventi autonomie). Non è questo un obiettivo praticabile, ma se anche lo fosse non sarebbe auspicabile.
Non esiste, nel sistema scolastico, uno stesso senso per tutti, ma una generale e problematica richiesta di senso, che per essere efficace e produttiva deve articolarsi in una molteplicità di sensi particolari, aderenti a situazioni e a bisogni molto diversi tra loro.
Ne consegue che il problema di senso che la scuola di massa ha di fronte può essere risolto solo localmente, all'interno di una comunità ben definita, in risposta a un'esigenza specifica, attraverso una sperimentazione che coinvolga un sufficiente numero di attori, ma non così ampio da rendere troppo lunghi e complicati i necessari momenti di mediazione, in vista di un accordo collettivo sul prodotto di istituto (o piano formativo). In questo processo alcuni legami deboli vengono rafforzati, irrigiditi, precisati. Le enunciazioni astratte si chiariscono in attività condivise. L'organizzazione, pur continuando a basarsi sull'autonomia dei singoli, e anzi richiedendola, si fa più coesa e prende forma intorno a un valore comunemente riconosciuto, che, prima ancora di essere formalizzato, si presenta come clima organizzativo, o collegialità informale. E non è di aiuto la faticosa ricerca dei meriti dei docenti e degli studenti da premiare, in quanto ciò che è meritevole di attenzione ha la forza per imporsi nei fatti da sé.
Il prodotto finale non è del preside, né dei docenti, né degli studenti, né di altre componenti, ma della scuola, ed è riuscito proprio quando non è più riconducibile a un singolo autore, ma quasi sembra essersi fatto da sé, come il migliore equilibrio possibile tra le forze in gioco.
Questo senso della complessità, che è all'origine dell'autonomia delle singole scuole, suggerisce un mutamento di indirizzo anche quando si agisce a un livello più generale di sistema. Si tratta infatti di attivare una diversa visione dell'organizzazione scolastica, critica nei confronti del riformismo classico di stampo centralistico, e capace di interpretare le strutture della formazione, i cicli di istruzione, gli indirizzi di studio, i quadri disciplinari, come organismi storici, memorie collettive, eventi non casuali e non manipolabili in modo arbitrario, ma dotati di tendenze interne che vanno analizzate, prima comprese e poi stimolate, in modo tale che possano autonomamente evolversi e progredire, sviluppando le potenzialità latenti attraverso la ricerca ed eliminando gli errori nel percorso, grazie alla sperimentazione e ai risultati dell'autovalutazione.
L'autonomia scolastica, in questo senso, coincide con la riforma: ultima e unica riforma ancora possibile.
Non è esatto parlare di due distinti temi: l'autonomia e (senza accento) la riforma.
Più giusto è invece dire: l'autonomia è (con accento) la riforma della scuola.

lunedì 11 giugno 2018

Retroscenismo...

Nei siti a 5Stelle fieramente avversi alla Buona Scuola circola una certa delusione a seguito delle dichiarazioni programmatiche del neo-premier Conte:
"Noi, nell'immigrazione come nella scuola, non arriviamo per stravolgere... In materia di Buona Scuola abbiamo ragionato con tanti stakeholder, ci sono criticità su cui vogliamo intervenire..."
Criticità su cui intervenire? Ma non si doveva smantellare tutto? Gli stakeholder... ancora loro? Ah, andiamo bene, andiamo proprio bene...
Preoccupano, inoltre, le posizioni che il neo-ministro Bussetti avrebbe espresso a proposito della 107 ("è un'ottima legge") e dell'alternanza scuola-lavoro:
“L'alternanza scuola lavoro c’è da tantissimo tempo, il punto è che i professionali e i tecnici l'hanno subito sposata mentre i licei no, non l'avevano trovata interessante o comunque non a misura loro. E invece è giusto cominciare a guardare questa pratica con un occhio diverso, perfino per i classici.”
A tal proposito Eurino Informino ha ricevuto tre giorni fa, da un amico retroscenista milanese, significative rivelazioni, accompagnate addirittura da una prova fotografica:


Dobbiamo crederci? Ma no, io preferisco aspettare (piglio tempo). Insomma "lasciamoli lavorare", come sempre si dice in questi casi. O meglio: lasciamolo, lui (Bussetti), perché lei (Aprea) se Dio vuole con il Miur e con il governo non c'entra per niente. O no?

venerdì 8 giugno 2018

Skolé: tempo libero contro strategia di Lisbona


Distogliendo gli occhi dell'ansia utilitarista, che non trova pace se non collega la formazione al lavoro, ed è diventata tanto più ossessiva quanto più il lavoro si allontana e scompare, fa piacere disintossicarsi ripensando alla lontana origine della scuola. La parola viene dal greco skolé, che significa tempo libero. In latino corrisponde a otium: tempo libero da impegni pubblici, riposo dalle occupazioni, dagli affari. L'esatto contrario del lavoro.
Pertanto: skolé = otium = tempo libero = scuola.
Un pensiero da incorniciare.
Ha un effetto liberatorio, infatti, quando si è presi dalle interminabili e infruttuose discussioni sulle "alternanze scuola-lavoro", mentre il tempo scarseggia, ricordare l'origine del fenomeno, la materia prima della scuola, che è all'opposto, e a sorpresa, il tempo libero, da cui deriva la noia, e dalla noia la curiosità e la meraviglia di fronte alla conoscenza.
Se non vi fossero stati, anticamente, uomini finalmente liberi dal bisogno, in genere nobili o comunque benestanti, esentati grazie al lavoro dei servi dalla dura lotta per la sopravvivenza di fronte a una natura ostile, la scuola non sarebbe mai nata. C'è da quando a qualcuno è stato dato il privilegio di avere tempo per sé, da trascorrere piacevolmente, liberamente, senza obblighi urgenti, lontano dagli affari, dalle grane e dagli affanni. La conoscenza è frutto di questa libertà e trova la sua ragione in se stessa, non nell'utilità economica e nella conseguente sottomissione alla durezza delle necessità quotidiane. Anzi, proprio perché libera, riferita a un altro tempo, un tempo diverso da quello scandito dalla durezza dei bisogni, la conoscenza può mettere in discussione tali presunte necessità, tutte le necessità, l'idea stessa di necessità.
Ciò che allo schiavo, privo di tempo e immerso nella fatica, è sembrato un vincolo fatale e invincibile, può invece rivelarsi all'uomo libero come uno stato passeggero, provvisorio, modificabile, grazie alla conoscenza. Questa è la scuola, che apre altri mondi.
La capacità di vedere oltre l'immediatezza dei bisogni elementari, disponendo di un tempo libero, dedicato unicamente al proprio sviluppo personale, è stato per secoli un beneficio per pochi privilegiati. Le nostre scuole esistono invece per estenderlo democraticamente a tutti. Se ci riescano o no è oggetto di discussione.
Sempre più spesso, invece, svolgendo il mio lavoro, mi imbatto in documenti scolastici che, a vario titolo, riportano un'intenzione programmatica di segno contrario che trovo sgradevole e insensata. Eccola:
"Diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale..."
Mi sono chiesto perché questa frase suoni falsa e insostenibile rispetto al senso originario della scuola, e specialmente in considerazione del nesso tra conoscenza e tempo libero. E anche adesso, ripensandoci, devo dire che più la leggo e meno mi convince.
Vedere nella conoscenza uno strumento, anzi il più efficace strumento, di un'economia che intende dominare il mondo è un'aberrazione. La conseguenza è che anche la scuola (otium e skolé) viene associata ai suoi opposti, alla competizione e alla volontà di primeggiare, e degradata a strumento per raggiungere mete che le sono estranee.
La frase suona falsa perché è la giustificazione teorica dell'eteronomia scolastica. Introduce a una scuola che ha abbandonato il privilegio della conoscenza per piegarsi alla mera convenienza e all'opportunità economica.
Posta infatti una simile premessa, perché studiare? Per essere i primi, per diventare i campioni del mondo, o anche solo, più modestamente, per salire di qualche gradino nella scala sociale, per "farsi avanti", come suggeriscono Alesina e Giavazzi ai loro studenti della Bocconi in un pamphlet che vorrebbe dimostrare che il liberismo è di sinistra.
Ma queste sono motivazioni da mentecatti, tipiche degli studenti asini, quelli che continuamente chiedono, per giustificare la loro inadeguatezza davanti a qualsiasi argomento: "Ma a che cosa serve?" Mentre dovrebbero invece riflettere circa l'origine, il presupposto oscuro di quella stupida domanda: ma da dove veramente proviene? E soprattutto: dove inevitabilmente porta?
Certo, l'ottusità che pone la conoscenza al servizio della competizione, per raggiungere il dominio, ama accampare (vedi sopra) delle scuse filantropiche, dai toni vagamente sociali, tipo "sviluppo sostenibile", "coesione", "migliori posti di lavoro", ma sono soltanto dei riempitivi, che non riescono né a mascherare né a nobilitare la prima e prevalente intenzione: "Diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo..."
Questo insulso proponimento, se enunciato in una scuola vera, da uno studente reale che grazie all'economia della conoscenza più competitiva e dinamica del pianeta non fa mistero di studiare da campione del mondo (probabilmente di export, perché altre guerre coloniali, almeno per il momento, sembrano escluse), potrebbe al massimo strappare un sorriso di compatimento da parte di un docente comprensivo, uno di quei sorrisetti che contagiano le classi e ti rovinano la reputazione.
E invece non c'è tanto da ridere. L'insulso proponimento non rispecchia purtroppo le illusioni di un mentecatto qualsiasi. Si tratta invece dell'obiettivo principale, anzi "strategico", "nel contesto di un'economia basata sulla conoscenza", approvato dal Consiglio europeo, a Lisbona, nella sessione straordinaria del 23 e 24 marzo 2000. Rappresenta dunque l'origine dei molti celochiedel€uropa PON PON e delle varie raccomandazioni della UE ai sistemi educativi degli stati aderenti: è insomma, per farla breve, l'atto fondante della pedagogia europeista.

La scelta strategica di Lisbona, dal punto di vista scolastico, è questa:
L'associazione dei sistemi scolastici all'economia (anzi a un modo di intendere l'economia, codificato dai trattati); l'inserimento del conoscere nel quadro della competizione, il valore fondativo guida; la ridefinizione delle finalità scolastiche in rapporto a tale valore; la conseguente riduzione della stessa conoscenza a competitività.

Scelto il criterio della competitività come misura di tutte le cose (funzionale a un capitale aggressivo sui mercati globali secondo un modello mercantilista e finanziario), gli altri pilastri della pedagogia del gambero si impongono di conseguenza, come elementi caratteristici e interconnessi di una stessa visione economica: la meritocrazia, il produttivismo aziendalista, e infine la svalutazione della scuola, cioè la deflazione scolastica, la sottrazione di valore all'istruzione, ai titoli di studio, al lavoro dei docenti, alla spesa pubblica necessaria per l'espansione del sistema formativo.
Mentre il collegamento tra competitività, meritocrazia e produttivismo, appare intuitivamente a tutti, più difficile è invece comprenderne il necessario esito finale: la deflazione scolastica, la perdita di valore della formazione. Anche perché i documenti europei, e la stessa legge italiana della Buona Scuola (la 107/15), sono scritti proprio per nasconderlo. La strategia di Lisbona ama  infatti presentarsi enfaticamente come un riconoscimento della posizione centrale dell'istruzione nel modello economico competitivo, ed esalta l'importanza della scuola nel processo di costruzione dell'Europa. Anche per la scuola, tuttavia, vale l'ipoteca che l'ordoliberismo estende a qualsiasi produzione umana: il privilegio accordato al privato contro il pubblico e la sottomissione alla regola del profitto. Dunque una conoscenza esaltata e centrale sì, ma nel senso che deve costare di meno, ed essere sottratta al controllo dello Stato, come tutte le cose importanti.

Mi rendo conto che quest'ultima osservazione, che va a toccare pregiudizi consolidati, coltivati da un'insistente propaganda e da un'azione capillare di disinformazione, richiede un approfondimento di analisi. L'inevitabilità della deflazione scolastica, accettate le premesse di Lisbona, va spiegata meglio e diffusamente.
Lo farò senz'altro e con accuratezza nei prossimi post, nel tempo libero, skolé, e dunque nella vera scuola.
Per il momento credo però di avere favorito la comprensione di un primo punto molto importante, e precisamente che nella pedagogia del gambero, quella che l'Europa ci chiede nelle sue raccomandazioni, a cominciare dalla strategia di Lisbona, sono scomparse le più profonde radici storiche della scuola, e le stesse ragioni della conoscenza: di otium e skolé non rimane infatti alcuna traccia.

giovedì 7 giugno 2018

La tempesta del dubbio...

Ricevo da un perfido Eurino Informino e pubblico per scaramanzia.
Buon lavoro al nuovo ministro e speriamo che le cose non stiano così.
Anche se...

sabato 2 giugno 2018

Nazionalismo tedesco (unità didattica urgente)












Pier Carlo Padoan, che fino a ieri era il nostro ministro dell'economia e che da oggi (festa della Repubblica) non lo è più, puntava qualche volta il dito contro i tedeschi (anche se molto raramente e senza conseguenze pratiche). Li rimproverava di essere troppo tedeschi ("ah, se continuate così non gioco mica più eh..."). Mentre loro, i tedeschi, gli rinfacciavano di essere, nonostante i suoi apprezzabili sforzi, purtroppo ancora italiano. Non avrebbe dovuto, stando ai patti. Si era impegnato a cambiare, a non esserlo più, perché sapeva, in quanto italiano, di sembrare inaffidabile per definizione e di stare dalla parte del torto, cioè del debito: Schuld. Abbiamo ormai imparato che, in tedesco, significa anche colpa e ipoteca. Così, a nostre spese, il ministro ha continuato fino a ieri a sforzarsi, per convincerli a non alzare lo spread, per liberarci dalla colpa italiana, per dimostrare che potevamo diventare diversi da quelli che siamo, attraverso "riforme", "compiti a casa", "rispetto delle regole" (regole, com'è ovvio, rigorosamente tedesche).
Se Padoan, con i nostri soldi, ha affrontato tanti sacrifici e sofferenze, fino a consumarsi, lo ha fatto, come ci ha spiegato, con un obiettivo preciso: vuole che l'euro acquisti un senso, attraverso la condivisione dei rischi da parte dei paesi che lo hanno adottato, Berlino in testa.
Ma su questo punto i tedeschi, almeno quelli che comandano, sono irremovibili, con argomenti che vanno dalle analisi di Daniel Gros alle minacce di Öttinger. Non se ne fa nulla. E quanto a Padoan: non poteva pensarci in tempo? Doveva parlare prima di diventare ministro. Se lo avesse fatto gli avrebbero spiegato che l'euro è stato concepito proprio per evitare che i rischi dell'Europa vengano condivisi. Un'idea simile, in passato, è forse esistita, ed è proprio per stroncarla sul nascere che la Bundesbank ha inventato le regole euriste ed europeiste, e successivamente le ha imposte in forma inasprita, attraverso regolamenti che forzano i trattati, con la complicità dei governi italiani.
Possiamo accusare i tedeschi di tutto, ma non di non avere parlato chiaro. Il senso dell'euro per loro, o meglio per chi li governa, è precisamente quello di respingere la condivisione delle responsabilità, distinguendole al contrario con rigore e instaurando un duro regime di competizione tra stati, nella convinzione (ideologica e perfino religiosa) che la migliore forma di cooperazione sia la lotta per il predominio nei mercati e la concorrenza, come scelta di principio e matrice del diritto internazionale. Il ministro Schäuble esprime il concetto inequivocabilmente, con una cruda metafora, quando asserisce che "ciascuno deve spazzare davanti a casa propria". Vedremo più avanti le interessanti implicazioni di questa affermazione, analizzando meglio il contesto culturale ed economico da cui nasce e la politica che vuole giustificare.
Padoan doveva comunque pensarci prima. Ormai è tardi per lui, ma non per i ragazzi che frequentano le nostre scuole. Perciò, dal momento che il rischio del rinascente nazionalismo tedesco, che nell'euro si esprime e si rafforza, viene spesso negato o comunque sottovalutato, mi sembra necessario proporre un'unità didattica urgente sul tema: Il nazionalismo tedesco ieri e oggi.
Fonti tedesche ci consentiranno di inquadrare al meglio il fenomeno, che proprio in Germania trova critici agguerriti e molto documentati. E non c'è da stupirsi, se si tiene conto che, citando Hölderlin, Heidegger, da molti ritenuto il più importante filosofo del Novecento, ricordava che "lì dove c'è il pericolo cresce anche ciò che salva". Cosa che, tuttavia, non gli ha impedito di diventare, almeno per un periodo della sua vita, un convinto nazista.

Obiettivi per gli studenti, secondo la linea di sviluppo conoscere comprendere applicare: a) L'allievo/a conosce eventi storici, idee, autori che stanno alla base del patriottismo tedesco e alle origini del nazionalismo, e in particolare i concetti di popolo (Volk) e spirito del popolo (Volksgeist), in riferimento ad alcuni testi scelti e illustrati dal docente (Arndt, Herder, Schlegel, Schiller, Fichte); b) Comprende l'influenza che tali idee hanno esercitato nel processo di unificazione della Germania avvenuto nel corso del XIX secolo, ma anche le cause della loro successiva degenerazione pangermanista, militarista, autoritaria, razzista, fino agli anni del nazionalsocialismo; c) Utilizzando i concetti appresi sa individuarne le tracce nel presente, applicandoli alla comprensione dell'attuale società tedesca, sia riconoscendo il nazionalismo dove ancora esercita la sua influenza, sia distinguendo le forze e le posizioni che, proprio in Germania, e prima in Germania che altrove, ne mettono in evidenza la pericolosità per contrastarne la diffusione in Europa.
L'unità può essere presentata in forma semplificata anche nel terzo anno della secondaria di primo grado (terza media), ma molto, in questo caso, dipenderà dalla capacità del docente di esporre i concetti più astratti ricorrendo a episodi e situazioni storiche concrete, senza imporre all'allievo/a la conoscenza diretta di testi troppo complessi e degli autori, che dovranno invece essere proposti alle superiori, meglio se nelle classi quinte, ai diciottenni, in un quadro interdisciplinare che veda la convergenza di storia, filosofia, diritto ed economia, lingua e letteratura straniera.

L'unità didattica, ben distinguendo il nazionalismo tedesco dal generico patriottismo che deriva da un comune senso di appartenenza a una tradizione, ne mette invece in luce i caratteri specifici, esclusivi, radicati nel pensiero, nel costume, nell'economia, nel mito del popolo come Ur-Volk (popolo delle origini), che parla una Ur-Sprache (lingua pura e primordiale), che è destinato a imporsi come suprema guida del mondo, unico popolo autentico, scelto dal destino per rigenerare spiritualmente tutti gli altri, nella missione salvifica della nazione eletta: la Germania.
Mentre i neolatini decadono, i tedeschi mantengono l'integrità originaria della stirpe e per questo devono imporsi come nazione dominante in Europa, nell'interesse universale, avendo la capacità di portare a maturazione il seme del perfezionamento umano.

Che cosa rimane di questo nazionalismo messianico nella Germania odierna? L'orrore associato alla memoria dei totalitarismi e all'Olocausto impedisce ovviamente qualsiasi ritorno alla "purezza della razza" e alla Nazione come "fatto di natura", legato al sangue e al suolo. Ma l'accantonamento di una simile, pericolosa mitologia non impedisce che il nazionalismo possa riprodursi in altra forma e per diverse strade, attraverso i valori dell'efficienza, della produttività, della competitività, e in obbedienza al mito della concorrenza come garanzia di progresso e di benessere per tutti, totem dell'ideologia liberista. Si è sviluppato così un nuovo concetto di interesse nazionale, in particolare dopo la riunificazione, o meglio l'annessione dell'Est da parte dell'Ovest, nella convinzione della superiorità del modello occidentale e nella certezza della sua definitiva vittoria storica. Ne deriva un patriottismo economico votato all'export, un nazionalismo non militarista ma mercantilista, fondato sulla celebrazione euforica della qualità e della convenienza delle merci tedesche e proiettato alla conquista dei mercati, a cominciare dai paesi vicini dell'Europa meridionale con economie più deboli.
Gli altri stati della UE hanno esercitato un'opposizione episodica e inconsistente (vedi Padoan) contro questa forma di nazionalismo mercantilista. Il suo modello economico comporta infatti salari contenuti e flessibili, coesione sociale, bassa conflittualità, compressione dei diritti dei lavoratori e dei loro consumi, al fine di ottenere grandi surplus commerciali con l'estero. Ciò determina per gli speculatori condizioni favorevoli alla realizzazione di alti profitti. La convergenza di interessi tra il nazional-mercantilismo tedesco e la finanza europea, presente e influente in tutti i paesi, si è concretizzata nell'euro e costituisce la sua architettura, il suo sistema di regole: una vera e propria forma di governo, una governance eurista che non passa attraverso i parlamenti, un regime sovrapposto alle democrazie.
Se in classe c'è una LIM si raccomanda la visione del successivo video (circa 13 minuti). Gregor Gysi, deputato della Linke, nel suo intervento al Bundestag del 17/07/2015, sul pacchetto di "aiuti" alla Grecia, spiega con molta chiarezza la dinamica eurista. Sottolinea inoltre come la politica che il ministro Schäuble sta realizzando attraverso la cancelliera Merkel ponga le basi per nuovi nazionalismi e razzismi anche in altri paesi europei.
Al termine della visione il docente presenta alla classe un'esercitazione costituita da alcune domande, a cui gli allievi dovranno rispondere utilizzando quotidiani, notiziari e atti parlamentari reperibili in rete. Interrogativi chiave: Negli stessi giorni (estate 2015) in Italia gli "aiuti" alla Grecia sono stati approvati dal Parlamento, come in Germania? Se no, perché? Se sì, quali decisioni sono state assunte? Che cosa hanno detto durante la crisi greca i rappresentati del governo? E quelli dell'opposizione? Qualcuno ha mai fatto alla Camera o in Senato un discorso simile a quello di Gysi? Se sì, chi? Se no, perché?


A proposito del sistema di "aiuti" criticato da Gysi: quando l'Europa salva le banche, chi paga? Se lo è chiesto Harald Schumann, un giornalista tedesco, nel documentario seguente, che dura circa un'ora: "Staatsgeheimnis: Bankenrettung" (Segreto di Stato: salvataggio delle banche). Si tratta di un viaggio nelle indebitate Irlanda, Spagna, Portogallo, con domande scomode all'EU, alla Bce e al ministro Schäuble.
Dalle interviste a esponenti della politica e della finanza emergono i meccanismi che hanno portato all'esplosione della crisi. L'euro stabilisce un'artificiosa parità monetaria tra paesi forti e deboli. Ciò consente ai paesi forti di gonfiare a dismisura le proprie esportazioni, accumulando eccessivi crediti, mentre i sistemi economici deboli vengono spinti a importare troppo, contraendo debiti che non potranno mai essere interamente ripagati. I deboli diventano perciò facili prede dei forti. In un primo momento, grazie a un eccesso di spesa privata, garantiscono esagerati guadagni alla finanza interna e internazionale. In una seconda fase, entrati in crisi, devono ricorrere agli "aiuti", e a prestiti che saranno costretti restituire sotto ricatto, tagliando i salari e le spese sociali, e svendendo il patrimonio pubblico. Il nuovo nazionalismo mercantilista non occupa più militarmente i paesi vicini, ma commercialmente e finanziariamente.
L'EU, la Bce, le regole dell'euro, fanno pagare ai popoli europei i danni prodotti dalla finanza e trasformano i debiti contratti dai privati in debito pubblico, attribuendone poi la responsabilità alle democrazie, alla spesa sociale, ai cittadini. La moneta unica non è dunque politicamente neutrale (mero strumento per il commercio), ma corrisponde a una scelta costitutivamente antipopolare (vero strumento di governance), che risolve i conflitti tra capitale e lavoro sempre a vantaggio del capitale, e la tensione tra privato e pubblico sempre a svantaggio del pubblico. La privatizzazione dei guadagni e la socializzazione delle perdite è metodo di governo, funzionamento strutturale dell'economia. Nei salvataggi delle banche tutto si svolge in modo opaco e segreto (Staatsgeheimnis), tanto che i beneficiari finali degli "aiuti" non sono nemmeno rintracciabili.
Interrogato da Schumann, Schäuble giustifica questa situazione negando le responsabilità tedesche nella concessione di crediti facili ai paesi economicamente deboli. La colpa delle crisi bancarie viene attribuita solo ai debitori, che avrebbero dovuto operare controlli più seri, come in Germania: "Ciascuno spazzi davanti a casa propria e il quartiere diventa pulito," dice. Frase che potrebbe diventare il manifesto ideologico dell'ottusità e dell'imprevidenza del nazionalismo mercantilista tedesco.
Secondo la ricetta del nazionalista Schäuble la soluzione di ogni problema, per qualsiasi paese, consiste solo e sempre nell'adeguasi  alla Germania con le riforme e il rigore.

Dopo la visione del documentario, in cui si parla dell'Irlanda, della Spagna, del Portogallo, ma non dell'Italia, esercitazione finale. Domande: Anche da noi è successo qualcosa di simile? Esistono in Italia giornalisti come Schumann? Se sì, chi sono? Dove scrivono? Esiste sui grandi mezzi di informazione una discussione approfondita sulle ragioni delle crisi bancarie e sui salvataggi di Stato? Se sì, dove? Se no, perché?
C'e chi ha qualche idea? Qualcuno ha alzato la mano?