Autonomia vs Eteronomia

Chi abbia seguito quel che si è scritto sui giornali, negli ultimi anni, a proposito dell'autonomia scolastica ha l'impressione di trovarsi di fronte a un concetto molto vago, problematico, ma collocato su uno sfondo di convinzioni ormai date per assodate, dove  la scuola è una specie di azienda, il preside è o dovrebbe essere un manager, gli studenti e le famiglie sono utenti, o perfino clienti. Il vocabolario è quello della governance, della competitività, del mercato, della concorrenza, degli stakeholder e della meritocrazia.
Così suggerisce la Buona Scuola, cioè la legge 107/15, dove la pedagogia del gambero, con i suoi quattro pilastri (competitività, meritocrazia, aziendalismo, svalutazione del sistema formativo, cioè diminuzione del valore dello studio e dei titoli, della domanda di istruzione e delle retribuzioni del personale), viene addirittura presentata come "piena attuazione dell’autonomia scolastica di cui all'articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59".
Per smontare questa mistificazione bisogna ricordare come e perché era nata l’autonomia scolastica e che cosa si proponeva. Lo farò in riferimento al pensiero del suo più fine teorico: Piero Romei, in particolare riprendendo, nelle conclusioni, un suo testo poco conosciuto su cui non si è riflettuto abbastanza: Per una teoria della scuola (2006).

La crisi dell'innovazione didattica

Le conquiste sociali e civili degli anni Sessanta e Settanta si riassumono, in ambito scolastico, nella legge 517/77, che declina i principi della valutazione formativa, dell'insegnamento individualizzato, della centralità dell'allievo, dell'inclusione, della flessibilità organizzativa, della sperimentazione e della ricerca educativa. Questa legge nella sostanza ancora in vigore, ma più volte attaccata e depotenziata, per rendere effettivo il diritto allo studio riafferma il ruolo che la scuola deve assumere nell'orizzonte costituzionale, nel "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona" (ciò è diventato per molti un fastidioso tormentone, e tuttavia l'art. 3 fa sempre un certo effetto).
Qualche anno dopo, però, constatavamo che l'obiettivo poteva dirsi raggiunto solo nella scuola dell'obbligo, nei gradi di più bassi dell'istruzione, dove la selezione e l'espulsione dal sistema educativo erano e sono quasi scomparse, mentre nelle scuole secondarie di secondo grado e nelle università i risultati non corrispondevano e non corrispondono alle attese, con tassi di dispersione inaccettabili in un paese avanzato.
La riforma della scuola sembrava essersi arrestata al primo biennio delle superiori.
L'innovazione didattica perdeva efficacia, influenza e capacità di penetrazione dopo la terza media, al di fuori del limitato perimetro di azione della legge 517.
I dati peggiori si registravano nell'istruzione tecnica e professionale, dove nelle sperimentazioni nazionali, per contrastare l'alta percentuale di insuccessi, si era esteso il tempo scuola oltre ogni ragionevole limite, con l'approvazione di curricoli di 35 lezioni settimanali o più (ai professionali addirittura 42).
Appariva evidente che l'eccessivo aumento delle ore di insegnamento, con la relativa e incontrollata dilatazione del tradizionale rapporto didattico docente-classe, non garantiva un miglioramento dei risultati e rischiava piuttosto di tradursi in uno spreco di risorse, incapace di produrre un generalizzato innalzamento dei livelli di istruzione e di mettere fine alla dispersione. Segno che le innovazioni progettate dal ministero, anche se dispendiose, non avevano la forza di raggiungere le periferie e non era più possibile promuovere dal centro una riforma del sistema capace di realizzare interamente gli obiettivi della scuola di massa, completando il disegno costituzionale.
L'autonomia scolastica si è proposta di reagire a questo stallo.

L'autonomia come unica riforma possibile

L'autonomia nasce dalla consapevolezza che il successo formativo non può essere garantito per legge, da una grande riforma "epocale", attraverso un modello organizzativo centralizzato e prescrittivo, non idoneo a fornire risposte variabili alla complessità del sistema, ma va piuttosto costruito nei singoli contesti sociali e ambientali, attraverso un'opera collettiva, che richiede un adattamento della professionalità docente. L'insegnante non è solo un educatore, né tanto meno un istruttore, che lavora in solitudine, ispirandosi a generali finalità nazionali, enunciate in forma solenne ma inevitabilmente astratta e vaga, verso un risultato indefinito, tanto ambizioso quanto generico e sfuggente. L'insegnante è anche un organizzatore, che per dare un senso determinato al proprio lavoro, e una consistenza al suo prodotto, deve accordarsi con altri, definire un progetto dentro una rete di mediazioni, renderlo descrivibile e verificabile grazie a indicatori condivisi, riconoscere un valore all'interno della situazione e saperlo sviluppare.
In una simile prospettiva la scuola conferma e accentua il suo carattere di istituzione pubblica, amplia e articola il suo ruolo di indirizzo politico, pone in evidenza la dimensione organizzativa e progettuale, produttrice di valori prima di tutto sociali, che possono e devono assumere una valenza anche economica (ma mai si riducono a questa).
Vediamo separatamente i vari aspetti appena richiamati, che insieme costituiscono lo statuto dell'autonomia scolastica.

La scuola è un'istituzione 

La scuola è un'istituzione in un duplice senso: come organo costituzionale (il sistema formativo) e come istituto autonomo (ogni singola unità scolastica, con personalità giuridica e capacità di agire). Nel primo senso, secondo una suggestiva metafora coniata da Calamandrei, la scuola è l'organo vitale della democrazia che produce il sangue nel corpo della Repubblica. Nel secondo, di sviluppo più recente, è l'organizzazione locale che, attraverso un'azione collettiva, adatta gli indirizzi nazionali a un determinato contesto sociale e ambientale, rendendo di fatto realizzabile il disegno costituzionale, che resterebbe altrimenti solo un obiettivo ideale affidato alla "buona volontà" di soggetti isolati.
L’autonomia consegna così alla scuola e alle scuole un doppio ruolo politico: collocarsi nell'orizzonte costituzionale, svolgendo un compito di promozione culturale diffuso e nazionale, ma progettare e agire localmente, con politiche scolastiche autonome e differenziate.
Con l'autonomia ogni singolo istituto diventa un soggetto politico, che interviene nel gioco delle mediazioni e dei processi decisionali che determinano lo sviluppo di un territorio.
Più c’è autonomia, più cresce il senso dell’istituzione. Più le scuole si dimostrano capaci di affermare la propria identità autonoma, più rafforzano, nel medesimo tempo, il comune quadro istituzionale, che può funzionare solo globalmente, in una logica di rete e di reciproco scambio.
L'autonomia, di conseguenza, è cooperazione nel riconoscimento delle diversità, dove le azioni di ricerca e di sperimentazione decise dai vari istituti crescono e si influenzano come distinte interpretazioni di un medesimo compito, e non concorrenza, cioè gara tra offerte formative in competizione per il predominio nella società e nel mercato del lavoro (e delle iscrizioni).

La scuola è un'organizzazione

L'identità che le scuole costruiscono nell'esercizio dell'autonomia non è una forma di appartenenza (a una dottrina, a un'idea, a un gruppo), ma va piuttosto considerata come un profilo operativo, una riconoscibile fisionomia organizzativa.
Una scuola è fatta di tante risorse, intenzioni e aspettative non coincidenti, che difficilmente possono costituire un'immagine coerente, ma rinviano alla complessità del sistema. Gli operatori scolastici hanno provenienze, sensibilità, idee diverse. Non si sono scelti, non si lasciano ridurre a un unico profilo, rispecchiano le disparate posizioni presenti nella società, e tuttavia, non essendo autosufficienti, hanno bisogno di un terreno strutturato e condiviso per esercitare efficacemente il proprio mandato educativo. Il loro problema è in primo luogo organizzativo, e riguarda la costruzione del prodotto della scuola, del pacchetto formativo che viene offerto agli studenti e alle famiglie, in modo tale che vari stili, inclinazioni, orientamenti possano coesistere ed essere vissuti non come limiti ma come risorse.
In questo senso ogni scuola è prima di tutto scuola di cittadinanza, di mediazione e di democrazia.
L’azione collettiva, con cui ciascuno mette le proprie capacità e convinzioni a disposizione di un'impresa comune, non è perciò un accessorio ma una vera e propria necessità funzionale. La libertà d’insegnamento, in tal modo, risulta valorizzata e non compressa. La collaborazione alla costruzione delle regole dell'organizzazione, e il loro rispetto, non limita l'iniziativa individuale ma la legittima e la garantisce.
La scuola autonoma è sempre pluralista. Anche questa è una sua necessità funzionale, che ne fa un contenitore che valorizza le differenze, e non un repertorio di regolamenti per eliminarle, unificando i comportamenti attraverso gli adempimenti di legge, l'appartenenza a un indirizzo, la fedeltà alla linea, la chiamata diretta degli insegnanti conformi al progetto del dirigente.

La scuola è un'impresa collettiva

Come organizzazione la scuola è un'impresa collettiva.
Impresa: una parola che nel significato corrente rinvia all'organizzazione economica, centrata sulla produzione e sulla commercializzazione di un bene, sul fatturato e sull'obiettivo finale del profitto. Nel nostro caso va invece intesa nel suo senso originario e ampio, secondo quanto proposto da Piero Romei, che dell'autonomia scolastica è stato il teorico più profondo e influente. Impresa come azione organizzata per il conseguimento di un obiettivo rischioso e impegnativo, che richiede l'impiego e la crescita di un valore che non si lascia ridurre alle dimensioni dell'economia, pur potendo assumere un rilievo anche economico.
Il prodotto della scuola è un servizio alla cittadinanza che mira all'inclusione e al successo formativo di ciascuno, attraverso l'organizzazione dell'insegnamento, nel riconoscimento della varietà degli stili di apprendimento. La formazione è la prima finalità, non il profitto. Istruzione e non fatturato.
L'istituzione scolastica segue pertanto la logica interna all'insegnamento che si modella sui processi di apprendimento, e da ciò trae la sua regola, che non deriva dalle richieste provenienti dal mercato e dal suo vincolo esterno. Se un simile vincolo dovesse prevalere, d'altra parte, verrebbe meno l'idea stessa di autonomia, e dovremmo piuttosto parlare di dipendenza, di assoggettamento, di eteronomia mercatistica.
La convenienza economica (insieme alla preoccupazione per gli sbocchi occupazionali) non è estranea alla progettualità delle scuole, e rientra tra le mete collaterali, ma come un sottoprodotto del prodotto scolastico.

La scuola è valutazione

Una scuola autonoma, se è veramente tale, non tanto e non solo valuta, costruendo dei giudizi (degli studenti, dei docenti, della dirigenza e dell'efficacia organizzativa), ma è essa stessa valutazione, valorizzazione, incremento. Nel senso che è presente nella sua iniziativa non solo il riconoscimento ma anche la produzione e la crescita del valore.
Valutare in autonomia non significa semplicemente confermare una validità già nota (verifica della corrispondenza delle prestazioni e dei comportamenti esaminati a un modello preesistente), ma a un livello più profondo si riferisce alla capacità dell'impresa collettiva, proprio perché organizzata, di scoprire e mettere a punto, attraverso un processo che coinvolge e avvicina le diverse componenti del sistema, la novità di un valore comune, in precedenza mai sperimentato e capace di imporsi sul piano culturale e sociale, per poi estendersi anche a quello economico.
Si tratta di un altro modo per dire che la spesa per istruzione, quando genera attese e valori condivisi, in risposta a bisogni emersi da un territorio, da una comunità, da una situazione storicamente e geograficamente qualificata, e non è quindi il mero riflesso di una volontà isolata, astratta a centralizzata, si traduce sempre in un investimento produttivo. Un'istituzione scolastica, se è autonoma nel senso sopra indicato, è un fattore di sviluppo. Le risorse inizialmente impiegate sono inferiori a quelle successivamente ricavate, e il finanziamento è ripagato da un positivo ritorno in termini di produzione di nuova ricchezza.
L'analisi di questo punto è decisiva, in quanto chiarisce che l'autonomia scolastica, la scuola come impresa collettiva localmente organizzata, è incompatibile con una concezione liberista dell'economia, contrariamente a quanto da più parti si è asserito.
Nella mentalità liberista la scuola è funzionale al mercato, all'impresa individuale, ai fabbisogni delle aziende e del tessuto produttivo, a cui deve devotamente inchinarsi, o alle preferenze del singolo cittadino, in quanto utente o cliente pagante. L'idea che le scuole siano capaci di produrre autonomamente valore, e che possano e debbano farlo in una dimensione collettiva, sottraendosi grazie al finanziamento statale ai condizionamenti degli agenti economici e al sacro arbitrio del consumatore, viene vista come un insidioso attacco alla libertà di educazione.
La scuola tende sempre a diventare, nel pensiero liberista, per definizione spesa pubblica improduttiva. Quindi, in un momento di crisi, può e deve essere repressa, con tagli ai bilanci statali, per indirizzare le risorse così ricavate verso altri impieghi più remunerativi, capaci di stimolare una ripresa. In questa prospettiva l'attribuzione dell'autonomia finanziaria agli istituti, rafforzando la domanda educativa, rappresenta un pericolo.
Infatti: moltiplicazione dei punti di spesa = più spese.
E parallelamente: spesa scolastica = spesa improduttiva.
E dunque: produttività del sistema = definanziamento della scuola.
A maggior ragione da quando, in obbedienza alle regole dell'euro, l'obbligo del pareggio di bilancio è stato inserito in Costituzione, legando le mani allo Stato e impedendogli di trattare cultura, ricerca, università e istruzione come fattori di sviluppo.

Eteronomia contro autonomia

L'autonomia scolastica, teorizzata a partire dagli anni Ottanta e sperimentata sul finire degli anni Novanta, ha rappresentato il tentativo di tradurre in organizzazione collettiva la visione della scuola già presente nella Costituzione, ma destinata a rimanere solo un punto di riferimento ideale e un desiderio di innovazione, finché affidata alla singolarità di un'azione educativa vissuta in solitudine, e perciò incapace di penetrare in ogni ambito della società.
L'autonomia è nata dalla consapevolezza che, per realizzare gli obiettivi di emancipazione e di promozione sociale della scuola di massa, il rapporto pedagogico e didattico che abbiamo ereditato dalla tradizione, articolato in una molteplicità di indirizzi e di esempi virtuosi, è ancora indispensabile, ma non sufficiente, e occorre anche la capacità di adattarlo alla complessità crescente delle situazioni. Occorre rinunciare alla Grande Riforma Epocale, che nei suoi ripetuti fallimenti può esprimere soltanto una patetica nostalgia verso una "razionalità assoluta", che dovrebbe risolvere dal Centro ogni contraddizione, ma come non si sa. Meglio è invece puntare a progetti circoscritti ma controllabili, a razionalità limitate, ai sistemi locali. E prima di riformare la scuola, con esiti in genere rovinosi, che si impari a studiarla, a interpretarla, e a vedere le singole unità scolastiche nella loro specificità, quali organizzazioni complesse, investimenti produttivi e fattori di sviluppo, culturale ed economico insieme.
Contemporaneamente, però, ha agito anche un'altra spinta, determinata dall'adesione dell'Italia allo SME e al sistema di regole che ci ha lentamente condotti nella gabbia dell'euro. L'Europa di Maastricht, ordoliberista, germanocentrica, monetarista, fondata sul presupposto (o feticcio) della stabilità dei prezzi come garanzia di ordinato sviluppo e di efficienza del mercato, si è sostituita al disegno costituzionale e ha imposto, con il ricatto del debito, un insostenibile e crescente vincolo esterno: in primo piano la competizione e lo squilibrio tra stati, il sacrificio del welfare, la svalutazione del lavoro a vantaggio dei capitali, la prevalenza del privato sullo statale, il definanziamento dei servizi pubblici. Eteronomia €urista.
Tra i due ordini di pensiero, tra le due contrapposte visioni, non vi è possibilità di incontro.
Eppure, dalla riforma Moratti in poi, sviluppando tendenze già presenti nella stagione di Berlinguer (Luigi), nei primi governi della sinistra finanziaria sottomessa all'euro, si è praticata una volontaria confusione dei piani, presentando l'autonomia scolastica come un adeguamento all'Europa. L'eurismo, cioè l'insieme degli atteggiamenti e dei pregiudizi determinati dall'accettazione (spesso inconsapevole e acritica) del vincolo esterno e dell'eteronomia, si è trasformato in una specie di pedagogia bipartizan di regime, che aspira a confondersi con l'autonomia. Ha così preso piede un aziendalismo da fabbrica dei cioccolatini (informatica, internet, impresa, inglese), dove la formazione diventa un fatto privato, una questione di gusti personali, una merce tra le altre, esposta al giudizio del mercato, ed è oscurato il ruolo politico, sociale e istituzionale della scuola.
Ecco la direzione di marcia: dall'autonomia all'eteronomia. Gradualmente, e a piccoli passi, la scuola cambia sede, e viene trasferita al di fuori dell'orizzonte costituzionale. 
Finché, secondo la legge 107 della Buona Scuola, tra eteronomia €urista e autonomia scolastica non vi è soltanto compatibilità ma addirittura identità. I piani, ormai, non si distinguono più. All'impresa collettiva si vorrebbe sostituire, in nome del merito individuale e della competitività da recuperare, l'azione, anch'essa individuale, di un dirigente locale più o meno certificato, preferibilmente inconsapevole del disegno in cui è inserito, una sorta di preside tecno-burocrate di origine controllata, che dovrebbe rispondere a un dirigente regionale di nomina governativa.
Alla dimensione politica e istituzionale si è sovrapposta quella tecnica, o tecnocratica, orientata al privato e agli stakeholders. Anche alla scuola viene dunque imposto il modello della governance europea, caratterizzato dal vincolo esterno e dall'aggiramento del controllo democratico.
A supporto della mistificazione si citano le passate sperimentazioni dell'autonomia scolastica e le collegate teorie, di cui la legge 107 sarebbe finalmente la "piena attuazione".

Per una teoria della scuola

A questo punto bisogna ritornare allo spirito di quelle sperimentazioni. Chi vi ha partecipato, prima della legge 59/97 e del Regolamento dell'autonomia, ricorderà, tra i contributi teorici più stimolanti e recensiti, le opere che portavano la firma di Piero Romei. Non voglio richiamarne le tesi, che d'altra parte hanno già esercitato una visibile influenza su quanto ho esposto finora. Mi sembra invece più urgente l'analisi di un lavoro successivo: Per una teoria della scuola, saggio del 2006, pubblicato nello stesso anno su Autonomia e Dirigenza, poco dopo la prematura scomparsa dell'autore.
Questo breve e ultimo scritto di Romei ha una particolarità: ripensando alle definizioni, ai concetti, alle proposte e alle idee che hanno caratterizzato un percorso di studi e di vita, cerca un punto di arrivo che non sia una semplice sintesi ma qualcosa di più, una vera e propria teoria della scuola, che ponga in primo piano le uniche domande che possono dare un senso all'insegnamento: che cos'è una scuola? che ruolo ha nella società? che cosa dobbiamo aspettarci dalla sua attività?
Per una teoria della scuola: è, appunto, una ricerca di senso, il senso della professione del docente, dell'autonomia, della formazione intesa come un diritto di cittadinanza. Ne riporterò alcuni brani che mi sembrano molto attuali.
L'obiettivo della teoria è subito chiaro, e si pone in contrasto col tentativo in corso (ora più che allora) di spostare le ragioni dell'autonomia scolastica dall'integrazione sociale al consumo individuale:
"E’ cambiato il governo, ma non c'è per ora molto di nuovo sotto il sole nel mondo della scuola, salvo due cose di grande potenzialità, capaci - se sviluppate a dovere - di innescare svolte di notevole rilevanza.
La prima è l'annuncio del ripristino dell'aggettivo “Pubblica” nella denominazione del Ministero dell'Istruzione. Ma come è potuto venire in mente a ministri di sinistra di un governo di centro-sinistra, che Dio li perdoni, di toglierlo? Si vedrà ora se si tratta solo di un'operazione nominalistica, o se il nuovo ministro [il riferimento è a Fioroni, ministro nel secondo governo Prodi, 2006-2008; N.d.R.] ha davvero in mente una strategia di rilancio effettivo del servizio pubblico.
La seconda è la dichiarazione dello stesso ministro di non essere interessato a mettere mano ancora alla riforma dei cicli, ma piuttosto al funzionamento delle scuole autonome. E’ un ottimo segnale. Da sempre sosteniamo che il vecchio ordinamento scolastico è stato messo in discussione come obsoleto senza che ne fossero mai state messe in atto le caratteristiche strutturali costitutive..."
Le caratteristiche strutturali costitutive del sistema, frutto di un percorso storico che trova nella Costituzione italiana il suo snodo fondamentale, andavano messe in atto attraverso le scuole autonome. Sono state invece dichiarate obsolete da un riformismo inconcludente, che si presenta come innovazione ma non ha altro scopo che quello di sottrarre la scuola all'interesse pubblico. Non si tratta di una riforma, ma di un processo degenerativo che va interrotto:
"Ci sono molti che sostengono che l’istruzione, e in particolare quella di qualità, sempre più andrà configurandosi come una merce da immettere sul mercato, al pari di tante altre a disposizione di chi può comprarsele. Noi qui intendiamo invece ribadirne l’assoluta centralità strategica come strumento di governo del Paese, data la funzione di integrazione e di sviluppo sociale svolta, sia come "collante“ che come strumento di riequilibrio tra le classi e le componenti sociali; tanto più critica, se si pensa alla difficile prospettiva multiculturale e multietnica che ci sta davanti. L’istruzione deve dunque restare uno dei settori chiave in cui esercitare un diretto controllo pubblico. [...]
La ricorrente rivendicazione della libertà di educazione - e d’altra parte, anche di quella di insegnamento, che si inscrive in una logica analoga - nei confronti della quale c’è una acquiescenza del tutto trasversale tra destra e sinistra, non si capisce se per ragioni di opportunismo politico o più semplicemente per assoluta mancanza di elaborazione concettuale, rivela che la formazione e la crescita dei membri della comunità sociale viene vista pressoché esclusivamente come un fatto personale, privato, di famiglia e non anche sociale, di interesse pubblico.
Leggendo e ascoltando ciò che si afferma nella scuola, e attorno ad essa, questo strabismo è evidente. Le stesse scelte pedagogiche e didattiche fatte - indebitamente, ed inopinatamente - dal ministro del precedente governo [il riferimento è alla riforma Moratti; N.d.R.], peraltro gabellate come riforme della scuola, andavano esattamente in quel senso: la personalizzazione dell’insegnamento, l’introduzione di strumenti come il portfolio delle competenze, l’abolizione degli esami sono misure tutte riconducibili, appunto, alla sfera privata e personale degli scolari.
Si tende a dimenticare che la scuola come istituzione pubblica ha il dovere anche di certificare e di rendere noti a tutto il sistema sociale i risultati conseguiti da chi si sta preparando per entrare nella vita attiva come membro a pieno titolo del sistema stesso; e per questo deve attrezzarsi affinché tali risultati siano verificati in modo visibile e credibile, oltre che spendibile."
L'autonomia scolastica, come impresa collettiva, non può essere acquiescenza alla polverizzazione del sistema e alla sua dispersione nell'individualismo, ma reagendo alla campagna di denigrazione del welfare, e all'astio classista verso tutto ciò che è statale e pubblico, rappresenta la migliore difesa della funzione sociale della scuola:
"Come istituzione formativa, la scuola svolge una funzione di integrazione all'interno del sistema sociale: mette tutti i membri in condizione di condividere gli strumenti cognitivi, i valori, i miti, i simboli necessari a sviluppare un sentimento di appartenenza e a consentire una convivenza ordinata e un progressivo sviluppo sociale. 
A questo dunque serve la scuola: ad aiutare le persone a crescere, e a tenere insieme la comunità sociale. 
La sua esistenza e l’accessibilità generalizzata ad essa conquistata nel tempo sono il risultato della crescita democratica del sistema sociale, che ha dato luogo al cosiddetto welfare state. L’istruzione è così diventata un diritto di cittadinanza. 
È il caso di ricordare che il welfare state si è costruito proprio sottraendo servizi importanti per il livello di benessere diffuso alla logica del mercato quindi del profitto, e rendendo conseguentemente possibile l’accesso ad essi, affidati alla gestione pubblica, anche per le classi sociali economicamente più deboli, tradizionalmente escluse o tutt'al più ammesse a godere di interventi assistenziali come atti di beneficenza e liberalità. 
Pubblico, quindi, equivale a democratico; a conquiste sociali. Vale la pena di ricordarselo, nelle ricorrenti ondate di astio verso tutto ciò che è gestito dallo Stato, dagli enti locali, da amministrazioni pubbliche; sorprendentemente condivise spesso anche da coloro che mai e poi mai da soli avrebbero potuto godere di certi servizi e di certi standard di prestazioni."
Ma qual è l'obiettivo di questo pseudo-riformismo anti-Stato? Le sue scelte e i suoi provvedimenti non hanno uno spessore e una logica sul piano pedagogico e didattico, e potrebbero restare incomprensibili in una dimensione solo scolastica, ma diventano subito chiari non appena siano interpretati come misure di controllo dei costi. Una lampadina si accende e un quadro si ricompone quando le "riforme" vengono prese per quello che sono, cioè strategie per il taglio della spesa pubblica:
"Non è infondato il sospetto che il mandato principale ricevuto dal ministro dell’istruzione del recentemente cessato governo fosse quello di tagliare la spesa del settore di sua competenza [il riferimento è ancora alla Moratti; N.d.R.], contando sulla sua esperienza del tutto estranea alla scuola ma costruita sui criteri dell'efficienza gestionale, quindi del controllo dei costi, tipici della Teoria dell'impresa da quel ministro normalmente frequentata (che riguarda, appunto, un altro e diverso contesto istituzionale). E’ sempre stata respinta con sdegno, ma quella del taglio dei costi è una chiave di lettura che dà una spiegazione plausibile a provvedimenti difficilmente spiegabili sul piano pedagogico e didattico, quali l’anticipazione dell’iscrizione alla classe prima, l’eliminazione di alcuni esami intermedi, l’affidamento degli esami di maturità a commissioni non più esterne ma interne alla scuola."
La chiave di lettura proposta da Romei, a proposito delle scelte della Moratti, funziona ancor meglio se applicata alle vicende successive, alla Gelmini, alla Giannini, ai danni causati da "riforme" che nel 2006 non si potevano ancora immaginare.
Già veniva comunque esattamente percepita la tendenza verso una soluzione finale, la consegna della scuola all'eteronomia del mercato:
"C’è peraltro chi ha letto in quei provvedimenti altrettanti passi verso l’obiettivo di eliminare il valore legale del titolo di studio; obiettivo non dichiarato ma coerente con la prospettiva in tempi non troppo lunghi di consegna dell'istruzione al mercato privato periodicamente ventilata da più parti."

Autonomia come resistenza attiva

Piero Romei ha concluso il suo percorso di ricercatore, nella teoria e nella pratica dell'autonomia scolastica, con una difesa del ruolo istituzionale, democratico e politico, del sistema formativo italiano. Sulla scorta delle sue analisi è oggi possibile individuare, accanto alla spinta innovativa prodotta dalle scuole autonome che si organizzano localmente, un'altra tendenza di segno opposto, cresciuta insieme alla velleitaria promessa di una Grande Riforma Epocale, sempre incautamente annunciata e mai realizzata, da sinistra a destra, e viceversa, secondo un fare e disfare inconcludente, ma impegnato a liquidare gli ordinamenti concretamente vigenti prima di averne compreso il funzionamento, studiate le potenzialità e messe in atto le caratteristiche strutturali costitutive. E con ciò, gradualmente, la "riforma" si è trasformata in azione bipartizan di denigrazione e di disgregazione della scuola, e infine in un progetto reazionario che mira a consegnare l'istruzione al mercato.
La tendenza, dopo la crisi finanziaria del 2008, a seguito delle imposizioni europee, del fiscal compact, dell'inserimento in Costituzione del principio liberista e monetarista del pareggio di bilancio, si è molto inasprita. Ciò che l'€uropa promette alla scuola è ormai solo uno zero assoluto: schwarze Null, il simbolo dell'austerità tedesca.
Il sistema scolastico sembra però refrattario a questa aggressione. Possiede una complessità interna che lo rende difficilmente controllabile, scarsamente manipolabile, scivoloso alla presa, imprevedibile nelle sue reazioni difensive. Ripetutamente si è cercato di assoggettarlo all'eteronomia: da sinistra, a cominciare da Berlinguer, da destra con la Moratti, dal basso (ma molto dal basso) con la Gelmini e perfino da dietro (alle spalle) con la Giannini. Ma la scuola tiene duro, incorreggibile, antieconomica, irriducibile, ogni mattina riapre con ostinazione nonostante Francoforte e Bruxelles…
Forse non sono state completamente esplorate tutte le sue possibilità e la sua forza. L'autonomia scolastica, anche se sotto attacco, non essendo stata abrogata, può perciò farsi ancora valere, ma come resistenza attiva alla pedagogia del gambero.