giovedì 28 febbraio 2019

Soft skill (tradotte in italiano)


Proseguendo nella consultazione del dizionario della moderna pedagogia in lingua inglese non possiamo trascurare le soft skill: ce le chiede l'Europa, a coronamento delle competenze di cittadinanza ordoeuropea.
Le soft skill costituiscono un importante insieme di competenze trasversali, che vanno dagli attributi personali, ai tratti del carattere, alle capacità comportamentali e relazionali, comunicative e sociali, necessarie per il successo, nel lavoro come nella vita di tutti i giorni. Non ci troviamo, pertanto, di fronte a specifiche abilità tecniche o a conoscenze applicate (hard skill), ma ad attitudini (sviluppabili e coltivabili) che interessano più piani, spaziando dal sociale al personale, dall'interazione con gli altri alla consapevolezza di sé.
Un docente veramente capace e pienamente formato non potrà prescindere, nel proprio insegnamento, dalle soft skill, vista la loro importanza nel mercato del lavoro, sicuramente decisiva, considerando che nelle grandi e più dinamiche aziende non vi è recruiter (selezionatore di risorse umane) che non le ponga al centro delle proprie ricerche e valutazioni.
Una mappa completa delle soft skill supererebbe i confini di questo scritto divulgativo, necessariamente limitato e sintetico, non finalizzato alla stesura di un repertorio esaustivo. Attingendo dai più accreditati studi statunitensi ed europei è però doveroso ricordarne alcune, a cominciare dal PROBLEM SOLVING (l'attività organizzata del pensiero, capace di sciogliere i nodi problematici con soluzioni originali e creative, tanto richiesta dalle imprese interessate all'innovazione), che rinvia al TEAMWORK (l'attitudine al lavoro di squadra, una costante imprescindibile in azienda), che presuppone EMPATY (la capacità di immedesimarsi e di comprendere lo stato d'animo dei colleghi). In una simile prospettiva l'ASSERTIVITY (la capacità di esprimere in modo netto e chiaro idee, posizioni ed emozioni, nel rispetto degli altri e nella consapevolezza dei personali limiti) si associa alla STRESS RESISTANCE (la resistenza alla fatica fisica e mentale, con la forza di reagire ad eventuali, passeggere frustrazioni), in vista del conseguimento di FLEXIBILITY and ADAPTABILITY, l'abitudine a rendere flessibile la propria formazione e le proprie mansioni in un continuo processo di miglioramento e di di adattamento alle richieste del MERCATO.
D'altra parte le soft skill non si apprendono sui libri di testo scolastici, ma devono essere acquisite nel corso di un percorso educativo e formativo di qualità. Si conseguono, come risulta dalle più importanti ricerche e indagini transnazionali in ambiente UE, nel corso dell’esperienza di vita personale e lavorativa. Spesso imprenditori e recruiter ne lamentano la mancanza, sulla base di una lunga esperienza nei colloqui di lavoro, o ravvisano, anche nei canditati che non ne sono del tutto sprovvisti, l’incapacità di renderle manifeste. Ciò accade di frequente nel contesto italiano, da questo punto di vista ben al di sotto degli standard OCSE, nonostante i recenti sforzi per ridurre il gap.
Non è comunque mai facile travasare le soft skill nel traballante lessico della nostra desueta pedagogia. Bisogna purtroppo ammettere, ancora una volta, che su questo terreno sensibile siamo rimasti molto indietro rispetto al mondo anglosassone, la locomotiva della globalizzazione. Tuttavia, a ben riflettere, è possibile trovare anche nella nostra modesta tradizione nazionale qualche precedente culturale capace di avvicinarci alla comprensione delle soft skill, in qualche modo traducendone almeno lo spirito, se non la piena e completa teoria.
Ma passiamo subito ad alcuni esempi italiani che possano aiutarci a colmare la lacuna:

Assertivity


Dicesi assertività la capacità di esprimere pubblicamente, in modo netto e chiaro, personali idee ed emozioni. Attraverso l'assertività il lavoratore definisce la propria posizione in azienda e il proprio ruolo nel team dei colleghi, rispettandoli e sollecitando la loro approvazione.

Empaty


Empatia. Capacità di immedesimarsi nei colleghi e di comprendere le loro emozioni. Indispensabile nel lavoro di gruppo.

Stress resistance


Resistenza allo stress. Capacità di resistere alla fatica fisica e mentale, sopportando passeggere frustrazioni e/o eventuali umiliazioni, soprattutto se provenienti da colleghi e superiori.
Frase chiave: "Com'è buono Lei..."


Teamwork


Capacità di lavorare in gruppo, con spirito d'iniziativa, creatività e dedizione, condividendo la mission aziendale, nel team dei colleghi, come ci si attende da un'efficace ed efficiente risorsa umana.
Parola chiave, nei casi estremi: "BANZAI!"

Problem solving


Capacità di risolvere problemi, nell'interesse proprio e dell'azienda, assumendo spontaneamente decisioni creative, insieme alla posizione lavorativa più adatta alle richieste del mercato e alle personali competenze e attitudini.
"AHI AHI AHIA..."

Flexibility and adaptability


Non vi è recruiter che non ricerchi nell'aspirante la capacità di rendere flessibile la propria formazione, fluide le proprie mansioni, mobile il proprio profilo, in un continuo processo di miglioramento e di adattamento alle richieste aziendali.
Questa adattabilità, in particolare, quale risposta alle sfide della concorrenza e della globalizzazione, stimolando lo studente a diventare servile imprenditore di se stesso, occupa un posto speciale tra le competenze chiave europee e riassume in sé l'intero pacchetto delle soft skill. 
L'imprenditorialità, infatti, secondo la strategia di Lisbona, genera la società basata sulla conoscenza più dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro, nel quadro di un'economia sociale di mercato fortemente competitiva.
Lifelong learning, per tutta vita: BANZAI! AHI AHI AHIA...

venerdì 22 febbraio 2019

La concorrenza premia il merito e difende i cittadini?

Vi propongo un interessante esperimento mentale. Seguite con attenzione il seguente spot. Non è richiesto un grande sforzo. Dura solo pochi secondi. Tenete presente che lo spot è realizzato dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l'Antitrust) in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico. Viene da una fonte governativa del nostro paese e ha tutti i crismi dell'ufficialità. Si tratta, secondo chi lo ha prodotto e diffuso, di un esempio di buona comunicazione, di alto valore sociale ed educativo. La voce delle istituzioni. 
Buona visione:


Lo spot fa parte di una campagna istituzionale (ripeto istituzionale) sui frutti della concorrenza. Ne riporto il commento, tratto dal sito dell'authority:
"La campagna istituzionale “I frutti della concorrenza”, realizzata dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico, mette in evidenza come la realizzazione di un ambiente competitivo aumenti il benessere della società nel suo complesso. Gli effetti, infatti, non riguardano solo il tessuto imprenditoriale ma hanno ricadute e effetti benefici su tutta la collettività e il consumatore finale, incentivando l’innovazione, creando nuovi posti di lavoro, premiando il merito e riducendo le disuguaglianze. L’iniziativa si fonda quindi sul concetto che la concorrenza premia il merito, difende i cittadini, tutela i consumatori e riduce le disuguaglianze."
"L’Autorità intende, con la sua azione di vigilanza e di tutela, costruire un ambiente sempre più favorevole alla leale competizione. In questo contesto, l’informazione istituzionale su larga scala rivolta ai cittadini, costituisce uno degli strumenti per il rafforzamento del processo di consapevolezza del consumatore che diventa soggetto attivo e collaborativo all'interno del processo produttivo."
Chiedo a questo punto: com'è andato l'esperimento? Come inquadrare lo spot? Vi è piaciuto? In particolare: vi sembra felicemente istituzionale?
Se i "frutti della concorrenza" vi hanno appagato, passate pure oltre (non c'è più niente da fare per voi). Se invece, come mi auguro, nel corso della visione avete sentito che qualcosa non andava, o addirittura avete provato, come mi aspetto, un certo senso di ripugnanza, l'esperimento continua. Si tratta ora di capire da dove proviene quel disagio. E dove può portare.

Il secondo passo dell'esperimento consiste nel rivedere lo spot senza sonoro, accompagnandolo con il seguente commento di presentazione, che non è che una parafrasi con rielaborazione di quello originale:
"La campagna istituzionale "I danni della concorrenza", realizzata dall'Autorità Garante della Solidarietà e della Difesa del Cittadino dal mercato, in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico, mette in evidenza come la realizzazione di un ambiente competitivo miri al benessere di alcuni a discapito della società nel suo complesso. Gli effetti della competizione, infatti, mentre avvantaggiano pochi imprenditori, scaricano sulla collettività i loro costi sociali, sui lavoratori e sui consumatori finali, privilegiando il profitto immediato, disincentivando la ricerca e l'innovazione, non preoccupandosi delle ricadute negative sull'occupazione. L'iniziativa si fonda quindi sul concetto che la concorrenza non riconosce i veri meriti, opera al di fuori degli scopi sociali, nuoce ai cittadini, non tutela i consumatori e fa crescere le diseguaglianze."
 "L’Autorità intende, con la sua azione di vigilanza e di tutela, costruire un ambiente sempre più favorevole alla leale cooperazione, disincentivando l'individualismo competitivo e antisociale. In questo contesto, l’informazione istituzionale su larga scala costituisce uno degli strumenti per il rafforzamento della consapevolezza del cittadino, che da consumatore passivo diventa soggetto attivo e collaborativo all'interno del processo democratico."
Funziona? Direi di sì. Le immagini che scorrono sul video (campi coltivati, paesaggi trasformati dall'ingegno umano, lavoratori e tecnici all'opera) vanno bene anche per il secondo commento. Anzi, rappresentando il lavoro collettivo, sembrano adatti a esaltare la cooperazione, l'unità di intenti e la solidarietà piuttosto che la competizione. Dunque lo spot, completamente cambiato di segno attraverso il rimaneggiamento della presentazione, funzionerebbe ancora meglio. Ovviamente in senso opposto.

In realtà entrambi i commenti, applicati a un contesto così generico e scioccamente edificante, risultano unilaterali e poco significativi. La collaborazione solidale e la competizione in vista di un premio non possono infatti essere esaltate o condannate in astratto. La solidarietà sembra un bene, ma a volte (ad esempio all'interno di un sodalizio criminale) diventa complicità e omertà. La competitività è una molla potente per il raggiungimento di molti obiettivi, soprattutto nel gioco e nello sport, ma in tanti altri campi produce disastri (per esempio quando si tratta di tutelare il risparmio, la salute, la sicurezza e il benessere collettivo).
Solo nelle rozze ideologie tutto dipende e viene determinato da una sola parola, da un solo concetto, da un'unica e sempre valida ricetta. E in effetti lo spot sulla concorrenza che premia il merito è rozzamente ideologico e banalmente diseducativo, riproducendo una serie di luoghi comuni tipici del liberalismo economico.
Insomma, ci fanno pagare, attraverso canali istituzionali, un po' di propaganda neoliberista spacciandola per informazione. E il terzo passo dell'esperimento mentale consiste in questa riflessione: qui la falsità è piuttosto evidente e perciò meno pericolosa, ma come la mettiamo con tutto il resto dell'informazione, che, anche se in forma meno appariscente, è per lo più costruita nel medesimo modo e secondo gli stessi pregiudizi ordoliberali?

martedì 29 gennaio 2019

Ordoeuropeismo e scuola


"Il futuro politico dell’Unione Europea ha una sola dimensione umana, sociale e politica: la solidarietà! Per questo ogni giovane cittadino europeo si deve sentire responsabile nel promuovere una vera cultura della solidarietà a favore della persona umana e del bene comune." Così si legge nella pagina introduttiva del sito di una benemerita associazione che produce studi internazionali  "verso una nuova Europa del cambiamento: cooperazione, sicurezza, sviluppo e solidarietà".
Parole chiave: solidarietà, cooperazione, persona umana, bene comune, pace.
Ma è davvero questo il pensiero guida dello "spirito europeo"? Ma è proprio questa la linea a cui si fa riferimento quando si parla di "educazione europea"?
Chi è tentato di rispondere di sì è invitato a leggersi i documenti UE sul tema, cosa che ben pochi europeisti hanno fatto (la retorica europeista, infatti, non parte mai dalla lettura analitica delle norme e dei regolamenti, ma si limita a generiche affermazioni di principio dal sapore vagamente umanitario). Queste righe si propongono di fornire i primi strumenti per colmare la lacuna.

L'educazione ordoeuropea
Che cosa debba intendersi, secondo la UE, per "educazione europea" lo apprendiamo dalla cosiddetta strategia di Lisbona, di cui si è già parlato qui. Prima fonte di diritto per comprendere questa visione ideologica (utilitarista, scientista e neoliberale) della conoscenza e della formazione è il documento adottato dal Consiglio Europeo del 23 e 24 marzo 2000. Ne riporto l'obiettivo fondamentale, definito "strategico" e posto al centro di un "nuovo metodo di coordinamento" destinato a coinvolgere tutti i paesi UE:
Diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.
Il principio della competitività, secondo il vecchio dogma liberista, è ritenuto il motore della crescita e del miglioramento sociale. Anche la conoscenza deve adattarsi a questa convinzione. Anzi, nelle società e nelle economie dominate dalla scienza e dalla tecnica, conoscenza e istruzione diventano gli strumenti più importanti per il potenziamento della competitività. Non mancano riferimenti alla difesa dell'occupazione ("nuovi e migliori posti di lavoro") e alla "coesione sociale" (dunque a forme di cooperazione e di solidarietà), ma questi secondi obiettivi dipendono dal primo, in quanto derivanti dal livello di competitività che un paese è capace di raggiungere.
Questa insistenza sulla competizione, vista come principale fattore del progresso sociale, potrebbe andar bene per qualsiasi forma di liberalismo economico, scelta a caso tra le varie che, con diverse sfumature, si sono presentate nella storia delle ideologie. Nel contesto delle norme europee fa però riferimento a qualcosa di più preciso e va interpretata tenendo presente quanto si legge nel Trattato dell'Unione Europea (art. 3.3):
L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico.
Qui l'economia sociale di mercato, non solo competitiva ma "fortemente competitiva" e caratterizzata dall'idea che uno sviluppo equilibrato non possa sussistere senza stabilità dei prezzi (stabilità dei prezzi = obiettivo guida della politica economica), viene indicata come scelta costitutiva e fondante dell'Unione. Economia sociale di mercato quale condizione preliminare per il conseguimento del progresso sociale e per il miglioramento della qualità della vita.
Occorre a questo punto sapere che l'economia sociale di mercato, altrimenti detta "ordoliberalismus" (dalla rivista tedesca che ha promosso tale ideologia e che si intitolava, appunto, Ordo), non predica una generica fiducia nei mercati, non è un liberismo ingenuo. Nasce piuttosto, in Germania, dalla consapevolezza del fallimento dei mercati e dei governi liberali, e dalla tragica esperienza dei totalitarismi che ne sono derivati.
L'ordoliberalismo ha perso l'incondizionata fiducia nel mercato che caratterizzava i liberisti dell'Ottocento, non crede che l'iniziativa economica lasciata a se stessa possa spontaneamente garantire benessere e progresso. Continua però a vedere nella concorrenza e nella competitività le uniche forze capaci di provocare un miglioramento, e intende perciò preservarle, creando artificialmente un ordine favorevole alla loro libera espansione. L'ordine dei mercati non si afferma da solo, ma va, appunto, "instaurato", come dice il Trattato dell'Unione, cioè costruito e difeso intrecciando le regole dell'economia con quelle del diritto, demolendo i monopoli, incentivando la competizione e assicurando il mantenimento di equità e giustizia attraverso l'intervento pubblico. Le regole prima di tutto, nel rigore tipico della mentalità tedesca: l'orrore per l'inflazione che erode i capitali (da cui il totem della stabilità dei prezzi), l'ossessione del pareggio del bilancio statale (schwarze Null), la convinzione che il non contrarre debiti costituisca prova di superiorità morale.
Attraverso il rigore tedesco l'ideologia ordoliberale è entrata nei trattati UE, diventandone il pilastro economico e giuridico e operando come una specie di religione della competitività, professata nell'edificio sovranazionale (e antinazionale) del diritto comunitario. L'imprenditorialità è stata posta al di sopra di ogni altro valore, insieme al profitto.
Che ne è, allora, dello spirito europeo solidale e cooperativo da cui siamo partiti? Come si può scrivere, se si conoscono i trattati, che "il futuro politico dell'Unione Europea ha una sola dimensione umana, sociale e politica: la solidarietà"? Si tratta di un mero artificio retorico per deviare l'attenzione dalla sostanza, dal significato dei regolamenti e dalla natura dei programmi.
Al centro del progetto politico europeo non troviamo la solidarietà ma la competitività ordoliberale con il suo sistema di regole tedesche, le stesse dell'Unione e dell'euro. Tanto che, da qui in poi, per evitare gli equivoci e l'ingiustificata retorica, eviteremo il termine "europeismo" per utilizzare quello, più appropriato, di ordoeuropeismo.
Obiettivo della strategia di Lisbona è l'educazione ordoeuropea.

Che cosa chiede l'ordoeuropeismo alla scuola
La scuola ordoeuropeista vuole mettersi al servizio del mercato e delle aziende, vuole anzi diventare, essa stessa, un'azienda, impegnata a formare il capitale umano necessario a rispondere alle nuove sfide della globalizzazione e della concorrenza mondiale. Chiede perciò agli stati membri di conformarsi a queste intenzioni, mirando alla costruzione di competenze misurabili e certificabili, che siano funzionali agli interessi dell'Europa, come richiesto dalla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l'apprendimento permanente:
Tali obiettivi comprendono lo sviluppo di abilità per la società della conoscenza nonché obiettivi specifici per promuovere l'apprendimento delle lingue, sviluppare l'imprenditorialità e rispondere all'esigenza generalizzata di accrescere la dimensione europea nell'istruzione.
La subordinazione del sistema formativo all'impresa è il presupposto indiscusso su cui si sviluppa il testo. Nel sistema si entra per conformarsi, adattarsi, adeguarsi alle richieste della produzione, e ci si rimane per tutta la vita. Mai, nemmeno per un istante, sorge il sospetto che nella scuola possa anche nascondersi qualcosa di diverso:
Il quadro di azioni per lo sviluppo permanente delle competenze e delle qualifiche adottato dalle parti sociali europee nel marzo 2002 ribadisce la necessità che le imprese adattino le loro strutture più rapidamente per poter rimanere competitive. L'accresciuto lavoro di squadra, l'appiattimento delle gerarchie, la maggiore responsabilizzazione e una crescente necessità di mansioni polivalenti portano allo sviluppo di istituzioni formative. In tale contesto la capacità delle organizzazioni di identificare competenze, di mobilitarle e riconoscerle e di incoraggiarne lo sviluppo tra tutti i lavoratori rappresenta la base per nuove strategie competitive.
E quali sarebbero queste forze da "mobilitare" e sviluppare in vista dell'affermazione di sempre nuove strategie competitive? Si tratta, come è noto, delle otto competenze chiave europee: comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare a imparare; competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità; consapevolezza ed espressione culturale.
E c'è un'avvertimento finale: le competenze vengono considerate ugualmente importanti e non sarebbero disposte secondo un ordine gerarchico, anche se ciò non trova conferma nella struttura del testo, che sembra invece suggerire precisamente quel che l'avvertenza esclude, in un crescendo che va dall'apprendimento della propria lingua all'imprenditorialità, valore supremo.
Alla scuola dell'ordoeuropeismo ci si iscrive per imparare a imparare a farsi imprenditori di se stessi, in un percorso di istruzione permanente, che sollecita "l'adattamento dei sistemi di istruzione e formazione in risposta alle nuove esigenze di competenze mediante una migliore identificazione dei bisogni occupazionali e delle competenze chiave contestualmente ai programmi di riforma degli Stati membri" [vedi premessa n. 12 alla sopracitata raccomandazione europea], che è poi un modo per descrivere e legittimare, attraverso reticenti e tortuose circonlocuzioni, una completa e sottomessa adesione alle richieste del mercato, in una perenne condizione di precariato.

La competenza chiave
Riepilogando: il compito che l'ordoeuropeismo assegna alla scuola e a noi insegnanti è quello di crescere una generazione di "senza lavoro compiuti", cioè privi di una collocazione sociale riconosciuta, sans-papiers, ma felicemente adattati  alla condizione di eterni apprendisti in cerca di mutevoli occupazioni, all'interno di una concezione del diritto e dell'economia che conferisce a questa perdita dei diritti sociali l'aura di una gloriosa e stimolante avventura, vissuta come una sfida globale per imparare a imparare a cavarsela da sé, obbedendo agli stimoli del mercato, quali imprenditori di sé stessi, della propria precarietà e costitutiva miseria.
Tutte le abilità acquisibili a scuola potrebbero essere così riassunte in un'unica competenza chiave di cittadinanza ordoliberale: l'adattabilità al mercato. Virtù tanto importante da meritarsi le stigmate della verità, della realtà, dell'oggettività. E talmente oggettiva da poter essere pesata, misurata e addirittura certificata, e poi posta sul mercato per ricevere la corrispondente quantificazione in euro, talvolta come un credito formativo da riscuotere, più spesso come un debito da ripagare al prezzo di duri apprendistati, offrendo servizi svalutati e privi di un adeguato riconoscimento sociale.

martedì 15 gennaio 2019

Occupability


Come promesso di recente, in ampliamento del dizionario dei luoghi ingannevoli in inglese compatto, oggi parliamo di occupability, termine approssimativamente traducibile con l'italiano occupabilità, ma solo per rendere vagamente l'idea, ferma restando l'inevitabile perdita di significato che certe parole sensibili devono purtroppo subire nel passaggio dall'inglese all'italiano.
L'occupability, da non confondersi con l'anacronistica "occupazione fissa", spesso coniugata con un desueto "diritto al lavoro" tipico dell'assistenzialismo statale, mira al superamento dello studente tradizionale, passivo e pretenzioso (choosy, direbbe la Fornero), convinto che un titolo di studio possa garantirgli un posto fisso (e magari a carico di un ente pubblico) come un tempo avveniva nelle società chiuse e protezionistiche. A questo arretrato quadro, in una moderna economia della conoscenza aperta al mercato e intenzionata a diventare la più competitiva del mondo, in ottemperanza alla strategia europea di Lisbona deve contrapporsi un nuovo soggetto più dinamico e flessibile, in perenne formazione, occupabile in vari modi, anche attraverso canali diversi dall'assunzione e dalla connessa, spesso ingiustificata retribuzione anteposta alla formazione. 
L'occupability, appunto, indica la capacità delle persone (o, per meglio dire, delle risorse umane) di essere occupate o di saper cercare attivamente, di trovare e di svolgere temporaneamente lavory (o lavoretty, o lavoricchy), e al limite di inventarsely, senza troppo gravare sul sistema e anzi adattandosi prontamente alle esigenze della collettivity (dagli stakeholder alle aziende, dalle aziende alle banche, dalle banche alle banche, e così via dinamicamente). Si riferisce dunque all'abilità di ottenere un impiego (un primo o un nuovo impiego) quando necessario, effettuando transizioni da una condizione di non lavoro a un'occupazione qualsiasi, o, viceversa, da un'attuale condizione di precariato a una successiva esperienza di disoccupatybility, da intendersi però non come licenziamento e/o perdita di reddito (come accade ai semplici povery), ma come positiva opportunità di crescita professionale, nel quadro (dinamico) di un processo di formazione continua orientato al miglioramento e all'acquisizione di ulteriore competency, per tutta la vyta (life learning). Insomma "basta con la noia del posto fisso", come ha efficacemente teorizzato il senatore a vyta Monti.
Accrescere l’occupability è naturalmente un obiettivo prioritario delle politiche per l’occupazione dell'Unione europea, a cui sono diretti molti interventi cofinanziati dal Fondo sociale europeo (cofinanziati nel senso che il 50% ce lo mettiamo noi, mentre il restante 50%, cioè il presunto contributo europeo, è circa la metà del 100% che l'Italia dà all'UE per consentirle di fare, appunto, l'UE). Il che esalta l'importanza dell'obiettivo, dopo aver saputo che "ce lo chiede l'Europa" e noi paghiamo per due volte.
Ciò introduce un nuovo tema: il laboratorio di occupabilità.
I laboratory di occupability sono infatti previsti dalla Buona Scuola, e precisamente dai commi 60 e 61 della legge 107/2015.
Comma 60:
Per favorire lo sviluppo della didattica laboratoriale, le istituzioni scolastiche, anche attraverso i poli tecnico-professionali, possono dotarsi di laboratori territoriali per l’occupabilità attraverso la partecipazione, anche in qualità di soggetti cofinanziatori, di enti pubblici e locali, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, università, associazioni, fondazioni, enti di formazione professionale, istituti tecnici superiori e imprese private...
In altre parole: vengano avanti gli stakeholder, e tra questi non potevano mancare le mitiche imprese, per creare mitologiche sinergie tra pubblico e privato. E i privati "possono" intervenire "anche" in qualità di soggetti cofinanziatori. Anche sì. Ma anche sì vuole anche dire non necessariamente sì, e magari no. E ve lo dice uno che ha gestito vari progetti FSE, e sempre con sorpresina finale al momento del rendiconto. Dunque no. In modo tale che, ai sensi del comma 60, paghiamo noi per la terza volta.
Il comma 61 dice invece che "i soggetti esterni che usufruiscono dell’edificio scolastico per effettuare attività didattiche e culturali sono responsabili della sicurezza e del mantenimento del decoro degli spazi". Pure gli spazi (comprensivi di energia elettrica, supporto logistico e riscaldamento) si pigliano, 'sti stakeholder, a sbafo. E che l'ultimo spenga almeno la luce e chiuda la porta.

Nei laboratory di occupability gli studenti imparano comunque a destreggiarsi nella precarietà. Sarebbe offensivo dire che la scuola di stato li addestra (o istiga) a vivere di espedienti. Ma bisognerebbe anche ricordare che l'istruzione e l'educazione partono da presupposti diversi.
Insensibile a queste preoccupazioni, tuttavia, l'occupability continua ad allargarsi nei nostri istituti, occupando aule e laboratori, come una competency più promettente delle altre, a sua volta composta da un insieme di abilità e competenze minori, assetate di vita e di un lavoro che non c'è più. Ma ciò ci conduce nel mondo scintillante delle soft skill, per cui sarà necessario un post ad hoc.