domenica 30 dicembre 2018

In arrivo altri tagli alla scuola? La risposta è no, ma...

Le opposizioni denunciano un altro colpo di mano ai danni della cultura: con il bilancio 2019 sarebbero in arrivo altri tagli alla scuola (ben quattro miliardi, se ho ben compreso, sottratti ai disabili e agli svantaggiati). Anche il Corriere certifica il misfatto: è proprio vero, i tagli ci sono. E pensare che, come diceva Victor Hugo, nei momenti di crisi non bisognerebbe risparmiare sull'istruzione, e anzi spendere di più. Miserabili! Hanno ignorato l'appello di Victor Hugo, secondo il Corriere.
Ma è proprio vero?
No, non è vero. Nel 2019, come vedremo, le spese per istruzione aumenteranno di circa due miliardi di euro rispetto alla previsione del 2018. E anche le altre stime del precedente governo (Gentiloni), relative all'anno 2020, sono state riviste al rialzo. Dunque più soldi alla scuola e non meno, per quest'anno e per l'anno prossimo. Niente tagli ma incrementi di spesa rispetto alle previsioni fin qui note. Anche se le opposizioni e il Corriere non ci stanno. I tagli non si notano per il momento, però, in prospettiva, nel triennio, ma...
Un "ma" in effetti c'è. Un vistoso "ma" che da anni pesa sulla nostra finanza pubblica, e che, soprattutto quando si tratta di ragionare in prospettiva e di mostrare le tendenze, conduce a vere e proprie mistificazioni, con deliberate falsificazioni a partire da dati reali ma sempre manipolati, in obbedienza al Fiscal compact e agli altri vincoli europei. Non importa se al governo c'è Conte o Gentiloni, non importa se siamo in Francia, in Italia o in Germania. Le regole europee sono assurde e inapplicabili per tutti e devono per forza essere adattate, aggirate, violate. Ciascuno lo fa a modo suo, ma il vizio è di tutti. Di questo, però, parleremo alla fine. Per il momento osserviamo il successivo quadro:


Sono le spese per l'istruzione scolastica (missione 22 del bilancio statale) negli ultimi 12 anni, dal governo Berlusconi IV a Conte (fonte Senato.it). Si tratta di una storia di tagli al personale e agli stipendi, compiuti in nome del rigore di bilancio e dell'Europa, con parziali restituzioni reclamizzate come "riforme epocali" (in realtà mance), una storia che proverò a riassumere qui in poche parole.
Nel 2010, per effetto di tagli al personale (aumento del numero degli allievi per classe, riduzione del tempo scuola e revisione al ribasso dei curricoli) e agli stipendi (blocco dei contratti), si vedono i primi frutti del piano di attacco all'istruzione pubblica compiuto dal governo Berlusconi IV. "Lo chiedeva l'Europa", come ancora si usava dire, in ottemperanza al patto di stabilità e alla strategia di Lisbona. Nel 2011 la spesa per la scuola, ritenuta uno "spendificio" dal ministro (Gelmini), comincia a scendere sensibilmente, secondo i piani di Tremonti, rigoroso, ma non del tutto, e non abbastanza "europeo", dunque da abbattere a colpi di spread. E abbattuto Tremonti, con l'arrivo di Monti, può andare senza ostacoli a regime la politica contraria allo "spendificio" scolastico, e la spesa per istruzione tocca il suo punto più basso (2012/2013), in una disastrosa parentesi che, col passare del tempo, nella considerazione dei danni prodotti, sempre più verrà ricordata come un vero e proprio periodo di dominazione straniera, nell'interesse della finanza internazionale apolide. Caduto Monti, il breve governo Letta lascia inalterata la situazione. Con l'arrivo di Renzi, anche per far fronte al crescente malcontento, vi è invece un tentativo di rilanciare la scuola pubblica, ma all'interno della visione neoliberista caldeggiata dalle varie direttive europee, che vorrebbero ridisegnare i sistemi formativi in funzione dei mercati, sotto il valore guida della competitività. Ne deriva un goffo tentativo di riforma, incompatibile con la scuola italiana e condotto con scarsa consapevolezza critica e insufficiente conoscenza del sistema. I tagli operati dai precedenti governi vengono in parte restituiti con mance che sostituiscono i contratti nazionali e deprimono quelli locali. L'organico viene ampliato attraverso la creazione di nuovi posti,  che mirano all'esaurimento delle graduatorie più affollate ma non tengono conto delle esigenze delle scuole, con il risultato di aggravare un precariato che si vorrebbe superare e di intervenire con provvedimenti distruttivi sul reclutamento dei docenti. Per effetto di queste velleitarie misure la spesa cresce nel 2016. Tale crescita è accompagnata da un'esagerata enfasi propagandistica (la Buona Scuola), come se si trattasse di un grande investimento pubblico sull'educazione, ma a ben guardare non è che un ritorno ai livelli del 2009 e 2010 (prima dei tagli Berlusconi IV). La spesa per istruzione (missione 22) del 2016 (44,8 miliardi) non supera di molto quella del 2010 (44,2 miliardi). Tutto qui. Chi volesse approfondire il tema dell'inefficienza e inefficacia delle spese della Buona Scuola potrà farlo attraverso questo post.
Dopo il fallimento della Buona Scuola, con il governo Gentiloni, le spese per la missione 22 aumentano ancora di poco, per effetto di trascinamento, a norme invariate. Ma nel 2018 viene al pettine un grande nodo, quello del contratto scuola, bloccato contro il diritto nazionale e costituzionale perché "ce lo chiedeva l'Europa" (l'Europa chiede sempre qualcosa di incostituzionale). Gli impegni che il governo è costretto ad assumere per rinnovarlo, per quanto insufficienti e destinati a risolversi in cifre assai modeste, comportano pur sempre un significativo finanziamento, data la vasta platea interessata, e riaprono un fronte di spesa (e di conflitto) rimasto a lungo silenzioso. Siamo dunque a fine ciclo. Una fine più fisiologica che politicamente consapevole, prodotta da un falso riformismo che ha mancato tutti i suoi obiettivi e che viene ora congedato senza rimpianti dall'istituzione scolastica a dal corpo elettorale.
Espressione di questa svolta, favorito da questa situazione, pur non avendo fatto nulla per rilanciare il riformismo, anzi essendosene ben guardato, il governo Conte è fisiologicamente discontinuo rispetto ai governi precedenti. Ha inoltre ereditato una serie di problemi aperti, a lungo evasi o aggravati, che di per sé comportano la necessità di incrementare la spesa per l'istruzione. E in effetti la previsione approvata per il 2019 (48,3 miliardi) supera di due miliardi quella dell'esercizio Gentiloni 2018 (46,3 miliardi), che pure costituiva la spesa più alta, nel confronto con quelle del precedente decennio. Tale incremento solo per una quota minima è il risultato delle nuove norme introdotte dalla manovra finanziaria, e per lo più discende, invece, da impegni già presi nel corso del 2018, su questioni non più rinviabili, prima fra tutte il contratto nazionale.
Non si vede, allora, come qualcuno possa affermare che il bilancio 2019 prevede nuovi tagli ed è restrittivo rispetto a quelli che lo hanno preceduto. Un'analisi approfondita delle spese per la missione 22 nei bilanci statali degli ultimi 12 anni dimostra precisamente il contrario.

Due tabelle possono chiarirci definitivamente le idee sulla manovra economica per la scuola del 2019.
La prima riguarda il punto di partenza, il bilancio 2018 (governo Gentiloni), vedi documentazione su Senato.it:


Osserviamo la riga 1 (grigia). La prima cifra riporta la spesa (aggiornata e stabilizzata) a carico del bilancio del precedente esercizio 2017: 45.906,5 milioni. Subito a destra, nella colonna BLV, relativa al 2018, troviamo un'altra cifra: 46.000,9 milioni. BLV significa Bilancio a Legislazione Invariata e indica la previsione di spesa che automaticamente si imporrebbe sulla base della semplice applicazione delle norme vigenti, approvate nei precedenti esercizi. Ci dice, in pratica, quanto sarebbe costata l'istruzione scolastica nel 2018 se il governo non avesse previsto modifiche alla spesa del 2017, attraverso le rimodulazioni e la manovra. Nelle altre colonne di destra sono invece riportati gli effetti dell'azione governativa. La sezione II riguarda le rimodulazioni e le modifiche senza variazione di leggi. La sezione I è invece dedicata alle innovazioni legislative. Le cifre sono comunque contenute e dipendono da interventi marginali. Il saldo finale è di 46.155,6 milioni, con un incremento di soli 249 milioni della spesa del 2017. Ci troviamo di fronte, nella sostanza, a una riedizione del bilancio del precedente esercizio. Non vi sono comunque tagli. La previsione finale è la più alta dell'ultimo decennio.

La seconda tabella, strutturata come la prima, riguarda il punto di arrivo, il bilancio 2019 (governo Conte), vedi documentazione su Senato.it:






Dato di partenza sulla prima riga: 46.312,6 milioni (si tratta della spesa consolidata, derivata dalla legge di bilancio 2018). Nella vicina colonna BLV troviamo però una sorpresa. La riscrittura del bilancio a legislazione invariata sale a 48.241,7 milioni, quasi due miliardi in più, una somma considerevole. Come mai?
Si tratta, come ho già detto, del nodo del contratto nazionale scuola che è venuto al pettine (dopo alcuni anni di sospensione delle regole costituzionali e democratiche, al grido di "ce lo chiede l'Europa"). Il suo rinnovo, con aumenti per altro molto contenuti e deludenti, ha comportato impegni coperti solo parzialmente nel 2018. Nel 2019 la copertura dovrà essere invece totale, con il risultato che vediamo. Seguono altri timidi interventi di maggiore spesa nelle sezioni II e I (il più significativo riguarda il potenziamento del tempo pieno nella scuola primaria), per ulteriori 75,2 milioni. Il risultato finale per il 2019 è 48.316,9 milioni. Non è certo una rivoluzione, ma una cosa è comunque indiscutibile e chiara: la spesa prevista è la più alta dal 2008 ad oggi.

Da dove vengono, allora, le preoccupazioni del Corriere (e delle opposizioni), e la convinzione, data per assodata, che siano in arrivo pesanti tagli alla scuola?
L'errore deriva da un uso strumentale di due tabelle ricavate dalle previsioni triennali 2018 e 2019, e precisamente da una considerazione tanto malevola quanto ingiustificata della seconda (2019), dopo avere volontariamente ignorato la prima (2018), che ne costituisce la premessa.
Chi è a conoscenza della variabilità e dell'inattendibilità delle previsioni triennali (anche quelle "ce le chiede l'Europa") ha già capito che stiamo parlando di nulla. Cominciamo comunque, come si sarebbe dovuto fare, dalla prima tabella 2018, governo Gentiloni:


I dati non sono confrontabili con quelli fin qui riportati e commentati, relativi alle sole spese della missione 22 (istruzione scolastica). Costituiscono infatti la somma di  tutte le previsioni di spesa del Miur, considerando anche la missione 23 (istruzione universitaria) più altre voci. La prima cifra sottolineata è il risultato complessivo della legge di bilancio 2017, la seconda è l'incremento previsto per il 2018, di circa 900 milioni. I dati cerchiati in rosso rappresentano, o meglio dovrebbero rappresentare, le previsioni 2019 e 2020, che sono però decrementi: meno 337 milioni nel 2019; meno 1.283 milioni nel 2020. Ma come è possibile? Evidentemente non è possibile. Abbiamo visto che nel 2019, per semplice effetto di trascinamento, a legislazione invariata (colonna BLV), vi sarà un incremento di spesa di due miliardi. Appare dunque chiaro che si tratta di previsioni "ottimistiche", cioè truccate, dettate dalle preoccupazioni di bilancio derivanti dall'adesione ai vincoli europei (di nuovo, il problema è sempre lì). Bisogna ipocritamente dichiarare che le maggiori spese di oggi saranno compensate dai risparmi di domani, per altro già esclusi dalle norme in vigore.
Tabella di previsione triennale con metodo "europeo". Un metodo non solo italiano ma obbligatorio in tutti i paesi UE e per ogni governo. Ne sono maestri, come al solito, i primi della classe, cioè i tedeschi, che abitualmente rinfacciano agli altri la violazione di regole che sono i primi a calpestare.
Forti della conoscenza di questo collaudato metodo passiamo alla seconda tabella 2019, governo Conte:


La prima cifra sottolineata in rosso è il risultato complessivo della legge di bilancio 2018. La seconda è lo stanziamento 2019 (incremento superiore ai due miliardi, quasi interamente determinato dal rinnovo del CCNL). Le due cifre cerchiate in rosso, previsioni 2020 e 2021, perseverano invece, "europeisticamente" e irrealisticamente, nell'indicare un decremento di spesa. Il dato del 2020 incrementa di 1.277 milioni la previsione al ribasso del precedente triennale 2018/20, ma opera una riduzione di 1.325 milioni rispetto al bilancio annuale 2019, riduzione che nel 2021 sale addirittura a circa quattro miliardi. 
A queste previsioni ribassiste, tipiche delle pianificazioni triennali in chiave europea, chiaramente insostenibili e destinate a essere accantonate al momento della stesura dei bilanci annuali (quelli veri), si giunge semplicemente "dimenticando" le voci di spesa, o facendo figurare come interventi una tantum spese che sono invece fisse e obbligatorie, in quanto determinate da leggi. Nel caso in esame la "dimenticanza" riguarda soprattutto i posti in deroga di sostegno, che non figurano nell'organico di diritto e sono occupati da docenti precari. Ma se i posti non figurano gli allievi esistono e le norme sul sostegno anche. Si tratta pertanto di spese strutturali che vengono deliberatamente nascoste. Per evitare il trucchetto contabile bisognerebbe confessare che fin dal 2020 il Miur spenderà nel complesso più di 60 miliardi. E ciò senza alcuna innovazione, a legislazione vigente, per forza di inerzia derivante dal bilancio corrente. E a maggior ragione nel 2021 (più di 60 e non 55), anche non considerando che gli stanziamenti sul sostegno dovranno aumentare e che parte dei precari verrà stabilizzata (anche questo "ce lo chiede l'Europa", che non sempre è coerente con se stessa).

Dall'esame comparato degli ultimi piani triennali di spesa si ricavano dati ben poco attendibili sul futuro della scuola e dell'Italia. Si comprende però bene che per chiunque governi, per Conte come per Gentiloni, c'è un problema con le regole di bilancio europee. Tanto che mentire è obbligatorio per tutti. Di questo bisognerà parlare, ed è un bene che con l'attuale governo si sia cominciato a farlo.
E il fatto che gli "europeisti" del Corriere, ad uso di politica interna, si attacchino a questi insignificanti e inattendibili dati è l'unica cosa davvero significativa. Significa che sono proprio disperati.

martedì 11 dicembre 2018

Unità didattica gilets jaunes

Circola in rete, riportata sui profili Facebook di molti simpatizzanti, una Carta ufficiale dei gilets jaunes. Non è attendibile, dicono gli editorialisti dei grandi quotidiani, gli stessi ricordati al punto 15 della stessa carta non attendibile, accanto agli "editocrati" ("mettre un terme à la propagande des éditocrates").
La carta ufficiale non sarebbe attendibile appunto perché non ufficiale. Non è stata emanata da un direttivo, non c'è la firma di un segretario, non proviene da un congresso, non è comparsa su un grande quotidiano (anzi i grandi quotidiani, cioè gli editocrati, si sono ben guardati dal diffonderla).
A riprova della non attendibilità vi sarebbero anche (sempre secondo gli editocrati) le oscure modalità con cui la carta è stata diffusa. Chi ci sarà mai dietro? Forse i soliti: gli hacker russi, gli ideologi di Trump, i servizi segreti della Brexit? Interrogativi che da soli dimostrano quanto siano spaesati "les journalistes" e come del nuovo e inatteso fenomeno non abbiano capito nulla.
Che qualcosa di ufficiale c'è lo ha dimostrato comunque ieri sera Macron, che a reti unificate ha dovuto misurarsi suo malgrado con alcune di queste proposte, cedendo su punti che fino a qualche giorno fa non sembravano negoziabili.
Bisognerebbe chiarire quel che la stampa non comprende. Se non a scuola, dove?
Cominciando dalla premessa della carta: "Visto che i politici fingono di non capire, visto che le rivendicazioni raccolte qua e là sono assolutamente insufficienti..." Occorre approfondire...




Propongo un'unità didattica sul tema. Ritengo superfluo declinare obiettivi, tempi e strumenti. Mi limito a suggerire alcune domande a cui, al termine delle attività didattiche, gli studenti (e prima di loro gli insegnanti) dovrebbero essere in grado di rispondere:
- A quali correnti politiche o ideali si ispirano le 25 proposte dei gilet gialli?
- Quali altri movimenti ricordano?
- Quali sono i bersagli polemici più evidenti?
- Quali posizioni emergono nei confronti dell'UE, della Nato, dell'euro, degli stati africani e del franco CFA (il franco africano)?
- Come si ricollegano queste posizioni al tema dell'immigrazione?
- Che cosa propongono i gilet gialli per la scuola?
- Esistono movimenti simili anche in altri paesi europei?
- Perché Macron, in un primo momento indisponibile al confronto, è stato costretto a rispondere?

Per facilitare il lavoro pubblico qui sotto la Carta dei gilet gialli tradotta in italiano mantenendo l'impostazione grafica originale.
Cliccare due volte sull'immagine per ingrandire:


venerdì 30 novembre 2018

Falsi amici


Occhio ai falsi amici in lingua inglese. I documenti europei destinati alla scuola ne sono pieni. Ne faremo un dizionarietto a puntate, cominciando dalle amicizie più pericolose:

Governance
La governance tende ad essere scambiata per il governo, ma si tratta ovviamente di un penoso equivoco. Il governo, infatti, ricorda l'indirizzo politico di uno stato, l'esecutivo nazionale, le elezioni, gli accordi tra partiti, la cosiddetta "democrazia", un termine poco scientifico, che si presta a fraintendimenti. Governo, insomma, è un concetto grossolano, una rozza semplificazione racchiusa in un'equivoca parola. Chi la usa con troppa fiducia e ingenuità, in italiano, è portato a distinguerla frettolosamente da altri termini affini ma subordinati: dall'amministrazione, che si addice a realtà più piccole, che rischiano di essere sottoposte allo stato (e quindi all'azione del governo); dalla direzione, che si riferisce alla guida di organizzazioni e società; dalla gestione, tipica di uffici che agiscono in applicazione di indirizzi decisi a un livello superiore. Troppe cavillose distinzioni, troppe anacronistiche gerarchie, che finiscono col dare un'eccessiva importanza al governo, con la scusa, appunto, della cosiddetta "democrazia", idea certamente rispettabile ma sempre sul punto di scadere nel teatrino della politica, nella demagogia o nel populismo. L'italiano, poi, è una lingua che molto si presta a queste elucubrazioni, ed è pertanto particolarmente esposta a possibili degenerazioni.
Meglio allora passare al più sintetico e pragmatico inglese e usare governance per unificare l'intera problematica. La governance non è proprio un governo, ma è più che una mera amministrazione, e può indicare un'efficace direzione, nonché i solidi principi di una buona gestione. E quando vi è una buona gestione diffusa e un'efficace direzione viene anche ridimensionata l'esigenza di avere un forte governo, che finalmente, senza ergersi a protagonista, potrà limitarsi ad arbitrare, prevenendo così il rischio di eventuali errori. Ecco la governance, che fa riferimento a un sistema di pesi e contrappesi, tipico delle società aperte, plurali, dinamiche e competitive. Nella governance chi governa non è mai solo, mai abbandonato a se stesso, e sembra in realtà a sua volta amministrato dentro una cornice più ampia, sensibile alle esigenze degli attori economici e sociali (ad esempio le imprese, le aziende e le banche, o, ancor meglio, le banche e le banche). E d'altra parte, per contrappeso, anche chi amministra chi governa, grazie alla comune governance, a ben guardare, appare "ex ante" eterodiretto da solidi principi di buona gestione, che garantiscono una mutua e sistemica cooperazione (le imprese per le banche, le banche per le imprese, ma anche e soprattutto, a garanzia dei depositi e dunque dell'interesse generale, le banche per le banche).
Tale complesso intreccio istituzionale, economico e giuridico, costituisce appunto la governance, e con questa il metodo autenticamente democratico, un metodo che pone le libere società al riparo dai rischi del populismo e della demagogia, sempre presenti nei processi elettorali, in particolare nei momenti di crisi. Infatti, quando gli elettori scelgono nel senso dell'interesse collettivo, della competenza e della libertà (e dunque per le imprese libere e per le libere imprese, tipicamente le banche), grazie alla governance prevale la buona gestione nel riconoscimento dei meriti dei meritevoli. Qualora, però, in spregio allo spirito democratico e alla scienza economica, dovessero imporsi i populismi, con il ritorno a governi di non competenti, di non meritevoli e di non tolleranti, sarà allora la governance a intervenire e a rimediare, rimettendo in equilibrio il sistema con l'aiuto dei mercati, del ranking, dello spread e degli altri indicatori scientifici, attraverso interventi conformi alla reale realtà delle cose e all'effettiva fattualità dei fatti.
In campo scolastico, dopo anni  di astratto egualitarismo e di mancato riconoscimento dei meriti dei meritevoli, si è sentita finalmente l'esigenza di una vera governance, capace di  introdurre linee di competitività e di scientificità nel settore, dotando anche le scuole di adeguati strumenti, di un ranking e di uno spread, secondo le ricerche OCSE e il metodo sperimentale Invalsi. Tale policy, rivolta all'innovazione e al miglioramento continuo, sta però faticando a imporsi, attraverso un tormentato processo, che ha trovato nella legge 107/2015 (Buona scuola) la sua espressione più completa e ambiziosa, ma per il momento ancora disattesa. Un ritardo che potrebbe costare caro al nostro paese...

Policy
Soggetti non adeguatamente formati potrebbero tradurre la policy con il termine italiano "politica", un concetto in verità troppo generico e carico di ambiguità. Va subito chiarito, invece, che la policy rappresenta una dimensione ben più concreta e fondata metodologicamente.
La policy, precisamente, è infatti quel che rimane della politica dopo che si è adottata la governance. Dunque una politica purificata, depurata dai suoi errori grazie alla governance. Più niente che possa ricondurre alle ideologie, ai settarismi, ai nazionalismi, alle chiusure e ai partitismi del passato. La policy, al contrario, è aperta al futuro, alle novità, alle tecnologie e agli attori del cambiamento, ai produttori, ai consumatori, alle imprese socialmente responsabili e trainanti, dalle company alle authority, dai gruppi finanziari agli istituti di credito, dalle banche alle banche e alle banche.

Stakeholder
Gli stakeholder sono i principali interlocutori nella costruzione della policy all'interno di un corretto sistema di governance, e stanno precisamente all'origine del progetto (quali artefici della domanda) e alla sua conclusione (quali utilizzatori del prodotto). Nella scuola riformata, nel senso della costruzione di un curricolo per competenze €uropee, dovrebbero contribuire in misura decisiva sia al momento dell'input che a quello dell'output.
Purtroppo il termine, talvolta rozzamente tradotto con "portatori di interesse", nel contesto italiano, spesso incline a disconoscere la portata sociale degli interessi economici e a comprimere il mercato, non è stato per il momento ben compreso e metabolizzato. A causa di questo ritardo culturale, non operano ancora, nel nostro sistema scolastico, veri e propri stakeholder, come si afferma con crudezza qui.

Competence
La competence è quella forma di competitività che trasforma la risorsa studente (orientata al profitto scolastico) in risorsa umana effettiva (impegnata in compiti di realtà, cioè diretti al profitto economico).
La competitività della competence, in quanto indirizzata allo sviluppo e all'incremento del PIL, rappresenta anche l'unico modo per ridurre il debito e per rafforzare, di conseguenza, i diritti sociali, venendo così incontro ai bisogni collettivi.
In una società "basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo", vedi strategia di Lisbona, non ci sono alternative. Non c'è altra strada per ridurre povertà e disoccupazione, o meglio per contenerle entro limiti fisiologici e strutturali.

Competency
Secondo alcuni la competency è un sinonimo della competence. Secondo altri la competence si riferisce alle risorse umane in generale (human resources), mentre la competency riguarda setting più specificamente scolastici (competency-based learning).
Al pari della competence, comunque, anche la competency, operando nel senso del riconoscimento dei diritty socialy, riduce povery e disoccupaty, già ridotti in precedenza in myseriah dall'austerity della policy della governance. Ciò avviene, però, non attraverso la creazione di posti di lavoro da parte dello stato (ohibò), azione proibita perché non conforme alla governance, ma incentivando l'occupability, di cui vi parleremo un'altra volta...

Nel frattempo, credeteci, e se volete di conseguenza conseguire nuovi credici formativi, abbonatevi al dizionario dei luoghi ingannevoli, inglese - italiano, italian - english, e occhio ai falsi amici in inglese compatto.

domenica 25 novembre 2018

Bravo Bussetti, finalmente...


Abbiamo scherzato sul ministro Bussetti, qualche mese fa, per la sua prudenza eccessiva davanti ai ruderi della Buona Scuola, per la sua timidezza e per le sue cravatte di seta lombarda.
Ma ora dobbiamo sinceramente e seriamente appoggiarlo. Finalmente un chiaro segnale di discontinuità rispetto alla legge 107 e ai danni prodotti al sistema di reclutamento dei docenti, analiticamente descritti qui.
Negli ultimi venti anni di pedagogia del gambero ogni nuovo ministro ha infatti varato una sua velleitaria controriforma: corsi a pagamento, specializzazioni, corsi annuali, biennali, triennali. SSIS, PAS, TFA e FIT, tormentose tappe verso la costruzione di un sistema perverso, che somigliava alla fine a un lungo viaggio senza arrivo e sempre più complicato, inutile, iniquo e ripetitivo. Concorsi che ammettono a corsi che, dopo esami, ammettono ad altri concorsi, per frequentare, se tutto va bene, un ennesimo percorso. Una specie di gioco dell'oca, per di più a pagamento, e alimentando la crescita di una sorta di burocrazia parassitaria della formazione, una folla di pseudo-esperti o di espertologi che si nutrono di precariato (del precariato degli altri) e hanno interesse a prolungarlo.
Ora, ci dice Bussetti, per tutti questi espertisti ed espertini è venuto il momento del congedo: "Stop abilitazioni a pagamento, concorso più breve e abilitante. Abolito FIT."
Bravo Bussetti. Temevamo che l'inversione di tendenza, rispetto ai danni della Buona Scuola, fosse troppo debole e incerta. Fino ad oggi, purtroppo, è stato così. Ma non in questo caso. Qui il messaggio è ben chiaro, e può aprire finalmente la strada verso un atteso cambiamento.

Non a caso espertologi ed espertisti, sentendosi in partenza, cercano di bloccare tutto. Per farlo ricorrono al genere letterario a loro più congeniale, da sempre: l'appello.
Un appello in apparenza rivolto allo stesso ministro, ma che, a ben guardare, per chi sa leggerlo, sembra più che altro indirizzato a un complicato, insidioso, scivoloso apparato ministeriale, cercando consonanze e complicità. Messaggio in codice: REMATE CONTRO.
Gli apparati, si sa, spesso composti, a loro volta, da espertini ed espertoni, possono fare molto e dispongono di tanti canali nascosti per interferire, anche a nome e a tutela dell'espertologia...
E questo rappresenta un ulteriore motivo per schierarsi convintamente dalla parte di Bussetti. Forza Marco. Ma attento alle faine (manine) ministeriali. E chiama se hai bisogno. Senza di noi, senza le scuole autonome, non c'è MIUR che tenga.

giovedì 25 ottobre 2018

Niente politica a scuola?

Lo scorso giugno la deputata leghista Vanessa Cattoi, rimproverando una dirigente scolastica per una sua iniziativa (evidentemente sgradita alla Lega), ha dichiarato: "Il ruolo dell'insegnante dovrebbe prevedere l'astensione dal commento politico anche perché, altrimenti, potrebbero sorgere dubbi circa l'imparzialità dell'insegnamento stesso". Stupisce che una parlamentare della Repubblica possa abbandonarsi ad affermazioni così rozze e ingenue. L'astensione non è imparzialità, ma una posizione tra le altre, una delle decisioni possibili, spesso la peggiore. Cultura e politica non si possono separare. E nemmeno si possono separare cultura e scuola, nonostante i tentativi di alcune recenti riforme neoliberali ed "europee". La scuola non è trasmissione di una inesistente "opinione neutrale", ma introduzione alla cittadinanza attiva, al confronto di idee, alla partecipazione politica. Così la pensavano gli uomini che hanno scritto la nostra Costituzione.
Ha dunque avuto buon gioco la preside Scalfi, rispondendo all'incauta Cattoi: «Esiste un articolo della Costituzione che tutela la libertà d'espressione e non mi pare che escluda i dirigenti scolastici. Esiste anche la norma per cui i parlamentari si impegnano a far rispettare la Costituzione. Questo mi aspetterei, da una deputata... A scuola c'è una pluralità di idee, i ragazzi sono condotti allo sviluppo del senso critico. In vista delle elezioni, abbiamo invitato i rappresentanti di 5 stelle, destra e sinistra. Perché questo è il senso della scuola."
Diciamoci la verità: non è che la deputata Cattoi, nel confronto, abbia fatto proprio una bella figura.

Credevo che il discorso fosse chiuso. Leggo invece oggi, su Orizzonte Scuola: "Niente politica, siamo a scuola. A sostenere il concetto è il ministro della Pubblica Istruzione." Possibile? Bussetti avrebbe dichiarato: "In classe non si deve fare politica. La scuola ha il compito fondamentale di stimolare il pensiero critico, i docenti siano responsabili." Ora, la dichiarazione rilasciata lo scorso giugno dalla preside Scalfi basta a comprendere come la prima affermazione sia in contrasto con la seconda. A scuola la politica concorre alla formazione del pensiero critico. Il pensiero critico, d'altra parte, non può non incontrare la politica. Voglio sperare che le fuorvianti parole attribuite al ministro siano frutto di una semplificazione giornalistica. Sperem ben, come dicono a Varese.

E invece a scuola c'è molto bisogno di politica e di educazione alla politica, unica via per difendersi dalle ideologie e resistere alle menzogne. Ciò vale sempre, in generale, ma in particolare in questi giorni difficili, mentre a causa di ingiustificate pressioni, che si presentano appunto come "opinione neutrale" o addirittura come "verità scientifica", il nostro paese è sotto attacco, denigrato sulla base di erronei pregiudizi ordoliberisti, minacciato da poteri finanziari non democratici e incompatibili con i principi e con i diritti costituzionali. Opporsi a queste mistificazioni attraverso l'esercizio del pensiero critico è compito della scuola italiana. Se non a scuola, dove? Ciò appare tanto più doveroso quanto più cresce la cattiva informazione e il rumore prodotto da alcune forze politiche che, nel tentativo di nascondere le proprie gravi responsabilità storiche, vorrebbero arrendersi a interessi stranieri, fino all'autolesionismo che spinge a tifare per lo spread e al collaborazionismo di chi si augura un golpe finanziario e il disconoscimento del voto democratico.

Ma allora, se le cose stanno così (e stanno proprio così), più politica a scuola, viva l'Italia e abbasso Moscovici.


martedì 23 ottobre 2018

Scuola vs cultura


Ricorre quest'anno (2018) il centenario della nascita di Luigi Pareyson (1918), filosofo dell'esistenzialismo cristiano, del personalismo, dell'ermeneutica e dell'ontologia della libertà. La ricorrenza ha interessato soprattutto gli istituti di filosofia e poco il grande pubblico. Eppure il pensiero di Pareyson mi sembra attuale, capace di interpretare e di spiegare lucidamente problemi e difficoltà che stanno attraversando l'Italia e la scuola, anche dal punto di vista politico. Di recente mi ha colpito un suo articolo, scritto durante la Resistenza, con tutta probabilità nel 1944, per il giornale clandestino del Partito d'Azione L'Italia libera. All'epoca Pareyson era responsabile dell'Ufficio del comando delle formazioni partigiane Giustizia e Libertà per la provincia di Cuneo (incarico ricoperto almeno fino all'uccisione dell'amico Duccio Galimberti, forse la più importante figura della Resistenza piemontese, massacrato dai fascisti nel dicembre 1944). L'articolo si intitola Ancora su "Scuola e cultura". Ne riporto la prima parte:

La formula "scuola contro cultura" pare, nella sua brevità, un paradosso. Ma, esaminata più a fondo, si rivela come una conseguenza necessaria di una determinata concezione dello stato e della vita politica: di quella concezione che possiamo chiamare "liberale" in contrapposizione alla concezione "democratica".
L'atteggiamento del liberale (e non intendiamo per "liberale" né, filosoficamente, l'uomo libero che crede nella libertà, né, classicamente, il borghese che la difende come un privilegio, ma, storicamente, colui che combatte in sede pratica per l'affermazione dei diritti umani naturali dell'individuo contro l'invadenza dello stato dispotico), l'atteggiamento del liberale di fronte al problema politico è determinato prevalentemente da un sentimento che si può definire come "paura dello stato". Per il liberale lo stato è sempre il Leviatano che divora i suoi sudditi: corruttore in morale, sperperatore in economia. Per combattere il maleficio dello stato, si aprono dunque al liberale due strade: o sottrargli alcune delle funzioni che arbitrariamente e rovinosamente si è arrogato, o, quando non si è così forti da sottrargliele, sminuire, di queste funzioni, il valore e la portata. La prima via è quella che conduce alla proclamazione della libertà: libertà di commercio vuol dire sottrarre allo stato la funzione economica, libertà di pensiero vuol dire sottrarre allo stato la funzione educativa. La seconda via è quella che conduce alla trasformazione dello stato in gestore di pubblici servizi: se non si può fare in modo che la difesa del popolo sia esercitata da associazioni private, l'esercito per lo meno non sia più un corpo privilegiato che partecipa in qualche modo della magnificenza della sovranità, ma sia un organismo professionalmente e tecnicamente perfetto e perfezionabile, senza indirizzo o velleità politiche, sia cioè un pubblico servizio; parimenti, nel caso della funzione educativa, se non si può sottrarre allo stato del tutto l'istituzione scolastica, non abbia più la scuola alcuna pretesa culturale, di formazione delle coscienze, ma sia anch'essa null'altro che un organismo esclusivamente indirizzato all'esecuzione di un compito tecnico, insensibile alle correnti spirituali che si agitano nel paese, sia insomma un pubblico servizio.
Scuola contro cultura, in sostanza, è una formula che ricopre la vera antitesi implicita in una schietta concezione liberale, tra stato e individuo. La scuola è affare dello stato; la cultura degli individui. E siccome l'individuo è in una situazione di continua difesa armata e legittima contro lo stato, individuo contro stato vuol dire, nella sfera del problema educativo, cultura contro scuola.
Ora di fronte a siffatta formula si può osservare che la tecnicizzazione della scuola, come di ogni altra funzione pubblica veramente vitale, presenta un pericolo permanente: l'assoggettamento dell'organismo statale, ridotto nel complesso delle sue funzioni ad un semplice meccanismo esecutivo, in potere di chi per primo vi metta sopra le mani. La scuola tecnicizzata, l'esercito tecnicizzato, i servizi amministrativi tecnicizzati, diventano facile e sicuro dominio del primo occupante. La via al dispotismo è maggiormente aperta là dove lo stato, anziché essere l'insieme ordinato e coordinato delle istituzioni popolari, è un gestore di pubblici servizi. Chi s'impadronisce di questi servizi, diventa immediatamente padrone del popolo, tutore esclusivo del suo benessere e della sua vita. La scuola tecnicizzata, staccata dall'elemento naturale, in cui solo può vivere, staccata dalla cultura, è uno dei più comodi strumenti che l'inclinazione dispotica, insita nei governanti di tutti i colori, abbia a sua disposizione per farsi valere. Si osservi: se una resistenza vi è stata da parte della scuola italiana alla fascistizzazione della scuola, dipende esclusivamente dal fatto che la scuola italiana, e soprattutto quel ginnasio-liceo contro cui oggi si alza la voce da tutte le parti, era una scuola non tecnicizzata, ma colta, era insomma una scuola di cultura, o almeno una scuola che bene o male rappresentava la cultura, vale a dire la situazione attuale del pensiero civile e della scienza civilizzatrice, meglio che ogni altra scuola; e tanto più la scuola si difese, quanto più era scuola di cultura libera e non di istruzione professionale, quanto più insomma era una scuola e non un pubblico servizio.
Alla paura dello stato, propria alla concezione liberale, la concezione democratica contrappone la trasformazione radicale dello stato per opera dell'instaurazione e dell'effettivo funzionamento delle istituzioni popolari dell'autogoverno, in modo che nello stato non vi sia più ragione di aver paura. Poco importa che lo stato abbia determinate funzioni e le eserciti con maggiore o minore ampiezza, quando si sappia che queste funzioni sono comunque controllate e dirette da chi vi ha interesse, quando queste funzioni rappresentino, di qualunque natura siano e qualunque estensione possiedano, funzioni di autogoverno. Contro la tentazione del dispotismo, non vi è esautorazione o restrizione dello stato che valga; una sola è la garanzia: l'autogoverno, cioè la democrazia.
In uno stato democratico ci si può permettere tra l'altro anche il lusso di una scuola di cultura, senza incorrere nel pericolo che questa monopolizzi il sapere a detrimento della libertà di pensiero, diventi scuola etica a danno della moralità della scuola, cioè della libertà dell'insegnamento; perché in un regime di autogoverno non vi è un'opinione ufficiale ma se mai soltanto un'opinione pubblica, non vi sono direttive etico-politiche, imposte dall'alto, ma indirizzi di pensiero che si aprono la strada in mezzo agli altri, perché rappresentano meglio lo stato della civiltà contemporanea e il progresso civile. E come la democrazia permette la scuola di cultura, a sua volta la scuola di cultura assicura e rafforza la democrazia, perché una scuola colta non può non essere veicolo di libere persuasioni, baluardo contro il ritorno della barbarie sotto veste dei miti della pseudocultura.

Chi è interessato a completare la lettura dell'articolo potrà trovarlo in Iniziativa e libertà, edito da Mursia, un volume che raccoglie scritti politico-culturali, di filosofia della politica e di filosofia morale non ricompresi in altre opere approntate dallo stesso autore.
Questo testo del 1944, destinato alla stampa clandestina antifascista durante la Resistenza, fa parte di un gruppo di scritti che mirano a tracciare il profilo di una scuola democratica, per un'Italia liberata, in vista di un progetto di riforma generale del sistema educativo (Pareyson, nel 1945, sarà responsabile del CLN-Scuola del Piemonte).
L'atteggiamento liberale e quello democratico non vengono qui presentati come coincidenti, contrariamente a quanto altri comunemente hanno pensato e pensano. Il democratico e il liberale si trovano invece in opposizione, e in modo particolarmente visibile di fronte al problema educativo.
La diffidenza verso le istituzioni nazionali, la statofobia tipica del liberalismo, porta a restringere il più possibile il perimetro della scuola statale, nel timore che possa diventare veicolo di indottrinamento. Le scuole vengono così privatizzate, e, quando ciò non è possibile, almeno ridotte a servizi pubblici, indirizzati a erogare agli utenti saperi utilitaristici e meramente tecnici, avulsi dagli indirizzi di pensiero che animano la società. E ciò finisce col separare scuola e cultura.
All'opposto il democratico vede nella scuola un'istituzione popolare, che deve essere partecipata e diretta da chi vi ha interesse, attraverso la costruzione di funzioni di autogoverno. In questa prospettiva, che sembra anticipare di un quarantennio le migliori teorizzazioni sull'autonomia scolastica, non vi sono rischi di indottrinamento né paura dello stato, in quanto in un regime di autogoverno non esistono verità ufficiali e direttive imposte dall'alto. Vi è, invece, un confronto di indirizzi molteplici, che si affermano nel contesto dell'opinione pubblica, grazie alla loro capacità di interpretare le esigenze della civiltà contemporanea e del progresso civile. La scuola non è solo un servizio, ma prolunga la cultura del suo tempo, in cui è immersa. La cittadinanza attiva, concretamente esercitata, è il suo vero e più profondo contenuto.
Questa fiducia nelle istituzioni democratiche (si pensi, ad esempio, alle posizioni di Calamandrei sulla scuola come organo costituzionale) ha animato, in varie forme, il riformismo scolastico fino agli anni Ottanta. Mentre, dagli anni Novanta in poi, la spinta innovativa ha perso forza. Siamo tornati a una scuola utilitarista, dominata da preoccupazioni tecniche e strumentali, e almeno in teoria presentata come funzionale a vincoli esterni (il Mercato, l'Europa, le sfide della competitività, i rapporti OCSE, L'Invalsi e così via). Sotto l'influenza dell'ideologia tecnocratica e liberista dell'Unione europea, l'ultimo ventennio si è risolto in una deriva neoliberale senza sbocchi, approdata alla cosiddetta Buona Scuola e al suo inevitabile e prevedibile fallimento: scuola contro cultura e cultura contro scuola.

giovedì 13 settembre 2018

Buona Scuola: analisi della spesa

Che la Buona Scuola si sia tradotta in un rovinoso insuccesso sembra ormai un dato acquisito. Perfino i suoi promotori, che attualmente si trovano in grave difficoltà e perdono ogni giorno consensi, cominciano a riconoscerne il fallimento, ma con moderazione e senza esagerare. Ora, con qualche reticenza, ammettono che sì, ci sono stati degli errori di comunicazione... e forse non solo di comunicazione... però, a conti fatti, si vede a occhio nudo che la pubblica istruzione ha ricevuto maggiori risorse. Rispetto ai tagli operati nel passato ci sarebbe dunque almeno stata, se non altro, un'inversione di tendenza...
L'inversione di tendenza: questo sembra essere diventato, dopo tanto discutere, il nuovo punto di equilibrio, l'ultima triste scusante, che, oltre a rappresentare un'efficace scappatoia, potrebbe anche salvare la faccia alla Buona Scuola (e soprattutto a chi  l'ha maldestramente pensata e approvata).
Avevo già notato questo cambiamento di intonazione. 
Ma a questa giustificazione corrisponde qualcosa di osservabile? L'inversione di tendenza, anche restando in superficie, alla mera aritmetica della spesa statale, c'è davvero stata? Stiamo parlando di un dato reale o di una semplice impressione, vera solo all'interno di convinzioni politiche accettate per fede o per appartenenza?
Si è lungamente detto che, grazie alla 107, le risorse per la scuola hanno registrato un cospicuo incremento: tra i 3 e i 7 miliardi, a seconda dei metodi usati nel conteggio, dei giorni e dei giornali. La disinvoltura con cui si sono sparate certe cifre, sempre diverse, dovrebbe costituire di per sé un monito e un invito all'approfondimento. Fermo restando che quando c'è un incremento (se c'è) occorre sempre capire in rapporto a che cosa. Lo stesso vale naturalmente per i decrementi. Questo per non fare la fine della Gelmini in un confronto con Letta svoltosi nel 2011, che è emblematico per capire come sinistra e destra, per parecchi anni (precisamente dal 1992), si siano rinfacciate, con argomenti da treccartari, i tagli che hanno fatto insieme. Potete trovare il video nella pagina introduttiva del blog, accompagnato da una spiegazione.
Ciò premesso prendiamo le spese per la scuola (Missione n. 22 del bilancio dello Stato: Istruzione scolastica) nell'ultimo decennio. La tabella è elaborata sulla base dei dati contenuti nelle periodiche analisi delle spese per missioni e programmi, a cura del Servizio del bilancio del Senato (spese annuali indicate con valori assoluti in milioni di euro): 

Ho già osservato, sempre nella pagina introduttiva appena citata, che tra il 2009 e il 2010, mentre nelle scuole giustamente si protestava contro i tagli programmati dalla legge 133/2008 (Gelmini, Brunetta, Tremonti), la spesa per istruzione scolastica aumentava, anche se di poco, per effetto della precedente legislazione ancora in vigore. I decrementi attesi si realizzavano solo negli anni successivi, specialmente nel 2012, dopo la caduta del governo Berlusconi IV, e si mantenevano invariati con i governi Monti e Letta, e nel primo anno del governo Renzi. La legge 107 è del 2015 e i risultati si vedono nel 2016. Vi è un incremento di circa 3,2 miliardi di euro sull'anno precedente, ma non sulla spesa media del decennio. Si vedano le cifre evidenziate in rosso. Lo stanziamento 2016 è di 44.799 milioni di euro, e non si discosta molto dalla spesa del 2010 (governo Berlusconi, ministero Gelmini).
Che cosa è avvenuto? Le oscillazioni di spesa dipendono da vari fattori, ma badando alle voci principali possono essere riassunte così: il governo di centrodestra ha tagliato sul personale aumentando il numero degli allievi per classe e assottigliando gli orari di lezione (meno tempo pieno alla primaria, meno ore di lettere alle medie, riduzione del tempo prolungato, alleggerimento dei curricoli agli istituti superiori); Monti e Letta si sono ben guardati dal mettere in discussione questi "risparmi" (e come avrebbero potuto farlo nelle condizioni in cui hanno sgovernato sotto il ricatto dell'Europa?); il governo Renzi, invece, ha restituito le cattedre tagliate, ritornando più o meno ai livelli di spesa di sei anni prima, con un incremento non certo esaltante (+ 615 milioni).
Sì, ma... quali cattedre? I "risparmi" Gelmini (o meglio Tremonti) erano tagli lineari, dovuti alla contrazione dei curricoli, che toccava un po' tutte le classi di concorso. La restituzione della Buona Scuola, prevalentemente compiuta attraverso la trovata del cosiddetto "organico potenziato", ha invece "restituito" altro. Non le cattedre che le scuole richiedevano, segnalando ad esempio la necessità di professori di matematica, materie letterarie, lingue straniere, sostegno, sulla base del proprio specifico fabbisogno, per compensare i tagli subiti o per riempire i posti vuoti, ma quelle individuate invece dal ministero per "sistemare", attraverso l'immissione in ruolo, i precari storici ancora presenti nelle graduatorie ad esaurimento, per esempio docenti di discipline giuridiche ed economiche, arte, musica, educazione fisica.
Nessuna relazione, quindi, tra il fabbisogno delle scuole e l'organico potenziato. Anzi un'opposizione, facile da capire. Perché, infatti, gli insegnanti destinati al potenziamento erano rimasti così a lungo nelle graduatorie ad esaurimento? Ma proprio perché, appunto, appartenevano a classi di concorso meno richieste in quanto meno presenti nei piani di studio, o caratterizzate da un eccessivo numero di aspiranti rispetto al numero limitato dei posti, il che è lo stesso.
E qui viene spontanea una domanda: perché creare cattedre che non ci sono, solo per svuotare le graduatorie ad esaurimento, lasciando contemporaneamente scoperti posti effettivamente esistenti e richiesti dalle scuole? Ciò è dipeso da una convinzione (o illusione) ideologica, presente nella Buona Scuola, che riteneva possibile eliminare progressivamente tutte le graduatorie, a cominciare da quelle ad esaurimento, per assumere i docenti solo attraverso concorsi per esami e tirocini, cancellando così il precariato, la vituperata "supplentite". Si tratta di un programma insensato e ingiusto, ma soprattutto irrealizzabile, che di per sé rivela una scarsa conoscenza, pari solo alla presunzione, delle dinamiche profonde e strutturali della scuola, che non possono essere abolite per decreto, ma vanno piuttosto studiate e comprese, e poi governate nel rispetto della storia e della complessità del sistema. Non mi dilungo qui sul punto. Chi vuole approfondire può leggersi la pagina sul precariato.
Tirando le somme, dopo un decennio di spesa oscillante, il combinato disposto di tagli e di ripensamenti, nel gioco delle parti tra destra e sinistra, ha condotto a un curioso risultato involontario. Per risparmiare abbiamo tagliato posti veri per poi tornare, sei anni dopo, allo stesso livello di spesa attraverso immissioni in ruolo su posti finti. Ma non era meglio guardare al fabbisogno insoddisfatto? Non conveniva immettere in ruolo dando la priorità alla copertura dei posti reali rimasti scoperti?
Quanto ai precari delle graduatorie ad esaurimento, va ricordato che, pur non trovando una cattedra libera nella propria classe di concorso, non erano disoccupati. Molti di loro lavoravano stabilmente sul sostegno, e qui, pur non possedendo il prescritto titolo di specializzazione, avevano accumulato una pluriennale esperienza da riconoscere e da valorizzare. Bisognava completare la loro formazione con l'attribuzione del titolo mancante attraverso corsi riservati, per lasciarli dove si trovavano, su cattedre vere e necessarie. Sono stati invece spostati in altre scuole (e spesso in altre regioni), anche dove la loro classe di concorso era ampiamente coperta, o addirittura non faceva parte del piano di studi. E i posti di sostegno forzatamente abbandonati? Quelli, naturalmente, sono andati a nuovi precari, con minore esperienza. Potenziamento del precariato, quindi, in contrasto con l'iniziale, ideologico proponimento di eliminare la "supplentite".
Il confronto dei dati del 2016 con quelli del 2010 conduce a una diagnosi: a parità di organici e di investimenti, una minore efficacia, e una conferma di inefficienza di fronte ai bisogni insoddisfatti.
La spesa è rimasta grosso modo la stessa, anche se ora è meno ragionevole e qualificata.
E l'inversione di tendenza? C'è? A me non sembra. Se qualcuno riesce a vederla mi scriva.

domenica 9 settembre 2018

Se non a scuola, dove?


Sono diventato preside grazie a un concorso indetto nel 1990, più di 27 anni fa, svolgendo in otto ore un tema sull'analisi della domanda educativa, in condizioni difficili (ricordo perfino gente appesa alle finestre dell'hotel Ergife di Roma che protestava, già allora, contro la pessima organizzazione dell'esame). Com'è lontano quel tema. Non ne so ripetere esattamente il titolo e nemmeno lo svolgimento, ma è molto probabile che abbia scritto che il termine "domanda", in campo educativo, assume un significato molto diverso da quello che gli attribuiscono di solito gli economisti. Un risvolto economico, volendo, si può trovare anche qui, come sempre, ma non tocca l'essenza del problema. Sono inoltre sicuro di avere citato la legge 517/77, quella che attribuisce a ciascun allievo il diritto a un percorso individualizzato, che prevede la rimozione dei famosi ostacoli di cui parla l'art. 3 della Costituzione, e in qualche punto del testo avrò certamente anche ricordato che la prima finalità della scuola italiana è (era) la formazione dell'uomo e del cittadino. Niente di speciale, né di particolare. Ero solo un concorsista che aveva studiato la lezione.
Il problema di oggi è: 27 anni dopo potrei rifare quel tema?
Quell'idea sarebbe ancora proponibile e mi farebbe, come allora, ammettere agli orali? 
Sì in teoria, no in pratica.
Non c'è nessuno che l'abbia smentita in un testo di legge, perché manca la maggioranza politica in grado di farlo, ma c'è sempre qualcuno che, senza scontrarsi con una maggioranza politica capace di fermarlo, riesce a toglierla dai punti all'ordine del giorno e a deviare il discorso, una volta perché è talmente scontata che è inutile ripeterla (eh già, siamo tutti d'accordo), un'altra volta perché a forza di ripeterla si rimane nel passato e si perdono le sfide della competitività e della modernizzazione (e anche su questo punto dobbiamo essere tutti d'accordo, e se qualcuno per caso non lo è, guai a lui). Spingono in tal senso interessi forti, anche se non abbastanza da poter cambiare la trama costituzionale, ma sufficienti ad alterare la natura della domanda educativa. E qui, vedi come in un'altra partita cambiando le carte cambia anche il gioco, il termine "domanda" va invece inteso in senso strettamente economico, e per essere precisi, anzi addirittura rigorosi, come "abbattimento della domanda interna". 

Per abbattere la domanda interna, cioè i consumi e il benessere della popolazione, bisogna ridurre gli stipendi, aumentare le tasse, comprimere la spesa dello Stato, e quindi meno lavoro, meno sanità pubblica, meno previdenza sociale, meno istruzione gratuita. Il che è precisamente quel che è avvenuto in Italia negli ultimi anni, e che continua ad avvenire in obbedienza al regime eurista in cui siamo lentamente sprofondati. Crescente sottomissione a regole esterne (eteronomia) contro indipendenza nazionale organizzata a tutela dei cittadini (autonomia).
Mi sembra evidente che il soggetto posto al centro della domanda educativa che è derivata dalla Costituzione sia un ostacolo a un simile processo. Non occorre insistere molto sul concetto. Se il primo obiettivo della scuola è la formazione dell'uomo e del cittadino che emerge dal disegno costituzionale, entra nel pensiero comune l'idea che il lavoro, l'istruzione, l'assistenza sanitaria siano diritti, non lussi, non abusi. Non solo. Più si è istruiti e più si è consapevoli di questo fatto. I diritti diventano, appunto, un fatto e non una generica promessa. Un fatto che costituisce un grave problema per l'Europa.

L'Europa finanziaria non ha scelta. Non c'è alternativa: se vogliamo continuare a tagliare gli stipendi, i servizi sociali e le pensioni, e a trasferire risorse pubbliche al privato, e debiti privati al pubblico, dobbiamo invertire il nostro modo di pensare. L'uomo e il cittadino che la scuola, come organo costituzionale, intende formare rimuovendo ogni ostacolo, deve a sua volta diventare il principale ostacolo, e il più grande impedimento da rimuovere in nome del profitto e della competitività. Occorre dunque farne un bersaglio della propaganda "progressista", e su questa costruire una nuova antipedagogia, la pedagogia del gambero.
Bisogna dimostrare che i presunti diritti del cattivo soggetto legittimato dai principi della Costituzione ("un accidioso individuo" come diceva Padoa Schioppa) sono infondati, perché riferiti a un personaggio che ha tutti i caratteri del parassita: fannullone, sprecone, disoccupato e soprattutto indebitato. E un debitore strutturale non merita il benessere che uno Stato clientelare e spendaccione gli ha garantito.
Ne nasce una vera e propria filosofia della denigrazione nazionale.
Convincere un popolo che mirare al proprio benessere è un male e che accettare sacrifici inutili, anzi controproducenti, è un bene, non è tanto facile. Ma se si hanno a disposizione quasi tutti i mezzi di comunicazione, se si può contare sull'appoggio e sulla complicità di quasi tutti i partiti politici, è possibile tentare, e anche riuscire, almeno per un periodo, finché la verità non venga inevitabilmente a galla.
Per spingere un popolo all'autolesionismo è un'ottima strategia puntare sul senso di colpa collettivo: attraverso false informazioni seminare la discordia tra le generazioni, convincere i padri di avere danneggiato i figli, e i figli di essere stati derubati dai padri; fiaccare il morale di chi lavora spingendolo a credersi incapace e improduttivo; alimentare la diffidenza, la sfiducia e l'odio contro ogni funzione pubblica o potere statale, rappresentato come marcio e corrotto per definizione; sollecitare lo sconforto, scoraggiare la partecipazione e premiare il disprezzo nazionale fino a promuovere vere e proprie forme di autorazzismo; specializzare in questi compiti distruttivi schiere di giornalisti, pubblicisti, commentatori, facendo della denigrazione della propria storia e del proprio paese un genere letterario di sicuro successo, anzi il mestiere che più di ogni altro garantisce una rapida carriera all'insegna della menzogna.
Possono così diffondersi facilmente e circolare trionfalmente panzane sul tipo di quelle che seguono:

1. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità per due generazioni.
2. I padri hanno contratto un debito pubblico che i figli dovranno ripagare.
3. Il debito pubblico, prodotto dalla corruzione, ha impedito all'Italia di crescere.
4. Non abbiamo più margini, con tutto 'sto debito pubblico che ci hanno lasciato...
5. Il debito pubblico è il primo problema dell'Italia.
6. Ogni italiano nasce con 35mila euro di debito.
7. Questa spesa pensionistica è un lusso che non possiamo più permetterci.
8. Questo Stato spendaccione è un lusso che non possiamo più permetterci.
9. Questa sanità sprecona è un lusso che non possiamo più permetterci.
10. La corruzione dei politici ci costa 60 miliardi all'anno.
11. La casta corrotta ci costa 40... 50... 60...  90 miliardi all'anno...
12. Per rimettere le cose a posto ci vorranno 15 anni di seria politica della formica.
13. Per rimettere le cose a posto bisogna tagliare le pensioni.
14. Per rimettere le cose a posto cominciamo a ridurre il numero dei parlamentari.
15. Per rimettere le cose a posto cominciamo a ridurre il numero degli statali.
16. Basta con il mito del posto fisso.
17. Meno male che c'è l'ombrello protettivo dell'Europa.
18. Grazie all'Europa siamo diventati un paese normale.
19. Per l'Europa non siamo abbastanza competitivi.
20. Grazie al vincolo dell'Europa aumenteremo la nostra produttività.
21. Le riforme che ci chiede l'Europa ci renderanno più competitivi.
22. L'Italia è più corrotta della Germania.
23. I tedeschi sono più seri degli italiani.
24. Perfino gli spagnoli e i portoghesi ci stanno superando.
25. Dobbiamo essere riconoscenti all'Europa.
26. Perché non ci si debba più vergognare di essere italiani...
27. Occorrono riforme vere e non all'italiana.
28. Grazie all'Europa 60 anni di pace.
29. Grazie all'Euro possiamo difenderci dalla Cina.
30. E meno male che non abbiamo più le lirette in tasca...
31. Grazie a San Draghi...

Sono 31 fandonie scelte a caso, tra le molte frottole euriste che a forza di comparire sui giornali, dopo migliaia di passaggi televisivi, hanno fatto breccia nel pensiero e nell'immaginazione di milioni di persone.
Ma anche se molto ripetute e pubblicizzate si tratta pur sempre di panzane.
In quanto panzane possono essere smentite e smontate facilmente. Come? Facendo quello che i professori da sempre raccomandano di fare: Studiare. Basta studiare. Verificare ogni affermazione. Confrontare le fonti. Scartare i falsi. Tirare le somme. Non c'è luogo migliore della scuola  per combattere la cattiva propaganda.
Se non a scuola, dove?

La formazione è già una critica all'euro, inevitabilmente.
Al crescere dall'informazione, della ricerca e dello spirito critico, cresce nello studente la capacità di riconoscere le fandonie, e di integrare l'elenco, dalla numero 32 in avanti. E alla fine ci arriveranno tutti, perfino i meno motivati e i ripetenti, e addirittura gli ultimi ritardatari della Bocconi.

mercoledì 15 agosto 2018

Governance illuminata

Governance: parola nobile nel gergo europeista.
Da Eurino Informino, soggetto telematico collettivo per la cittadinanza italiana, riceviamo uno spunto per un'unità didattica sul metodo del "dispotismo illuminato" e della "democrazia limitata", che, secondo Padoa Schioppa, ministro delle finanze di Prodi, ha determinato la costruzione dell'Europa (intesa come Ue).
La conoscenza di un suo scritto del 1999 (Gli insegnamenti dell'avventura europea) è importante per la comprensione della mentalità e delle credenze poste alla base della cosiddetta "governance europea". Andrebbe letto in classe.






Dal diario di un illuminato...

A leggere gli articoli, i saggi e le interviste dei padri dell'euro e dell'Europa non può sfuggire un'opera di intensa auto-celebrazione, uno sforzo continuo per accreditarsi presso le opinioni pubbliche quali statisti di spessore, lungimiranti e illuminati.
Ma sarà vero? Noi crediamo, piuttosto, che dalla lettura dei padri dell'euro non emergano né grandi menti, né grandi consapevolezze di carattere scientifico, né tanto meno grandi uomini. Tutto è purtroppo tristemente chiaro, uniformemente mediocre, e le poche e stentate idee che si possono reperire, che difficilmente farebbero presa in un ambiente culturale aperto a un confronto vero, non sembrano molto diverse da quelle che si sentono ripetere in certi dipartimenti di economia, dove con troppa frequenza e con ingiustificata autostima si rimastica un sapere settoriale, riduttivo e autoreferenziale.
Padri magari nobili ma non certo profondi. Più bancari che banchieri. Più ragionieri che pensatori. E comunque, per tornare all'osservazione iniziale, sempre impegnati a simulare una qualche superiore illuminazione.

Tra gli italiani, il più illuminato di tutti, in questo senso perverso, ci è sembrato Tommaso Padoa Schioppa, già ministro delle finanze nel secondo esecutivo Prodi. Purtroppo è scomparso improvvisamente qualche anno fa. Non ha fatto in tempo a vedere il disastro prodotto dal governo dell'europeista Monti. Pensiamo però che anche di fronte ai ruderi ingloriosi del liberalismo economico avrebbe continuato a sentirsi un illuminato, membro di un'élite, uomo fuori dal comune, padre della patria eurista e della sinistra sottomessa:

Questa e le altre citazioni presenti nel testo sono tratte da un articolo del 1999, pubblicato
in francese sul periodico Commentaire (n. 87/99): Gli insegnamenti dell'avventura europea

Padoa Schioppa assumeva qui (autunno 1999) una posa da illuminato, con sguardo aperto ma fermo, guidato da certezze economiche, per lo più infondate, da cui ricavava l'impressione di avere un rapporto privilegiato con la realtà, e quindi il diritto di decidere anche per gli altri, per il loro bene. Una convinzione che ha accomunato nella storia tanti esaltati e che era, e ancora sembra, molto diffusa tra impiegati, dirigenti, consulenti e funzionari che popolano gli organismi sovranazionali dell'euro-burocratismo.
Nelle scuole, per vaccinare le nuove generazioni (vaccinazione ritornata obbligatoria), durante le ore di educazione alla cittadinanza dovremmo studiare con attenzione questa patetica ma dispotica psicologia. Credendosi illuminata dall'alto si sente dispensata dalla ricerca del consenso. Si ritiene perciò superiore alla democrazia e utilizza lo strumento di influenti burocrazie, che si sottraggono al controllo dei parlamenti, per iniettare nel corpo vivo degli stati regolamenti, disposizioni, indirizzi incompatibili con la loro storia e con le convinzioni radicate nei cittadini e nelle costituzioni. Ma non essendo questo un processo storico profondo, trattandosi di un raggiro che può durare solo finché non viene scoperto, i suoi effetti sono destinati nel tempo a rivelarsi insostenibili, fino ad essere giustamente ripudiati con disonore, dopo avere generato tensioni, proteste, crisi, conflitti (proprio come sta accadendo con l'euro).
Il dispotismo illuminato degli euro-burocrati, anche se, come incessantemente ripetono i suoi adepti, respinge la violenza e la guerra (ma non la menzogna), produce danni paragonabili a quelli che un tempo venivano causati dalle epidemie e dalle carestie. Il nuovo morbo non aggredisce però i corpi ma i sistemi democratici: una sorta di moderna peste del diritto e dell'economia, la peste di Bruxelles.

Padoa Schioppa riponeva invece grande fiducia in questa euro-peste, che erode e deforma le istituzioni statali al di fuori dai processi elettorali, sentendosi "libera" dai fastidi della costruzione del consenso e della mediazione tra interessi diversi, e nel testo citato la considerava una "procedura perfettamente legittima" e rivoluzionaria:
"Questa maniera di condurre la vita politica instaura tra coloro che l’adottano dei rapporti completamente differenti dalle relazioni stabilite nel quadro tradizionale. Liberata completamente dal contrasto tra le parti, dai gruppi d’interessi, dalla nazionalità, dall'esigenza elettorale, dalla necessità del guadagno, essa conferisce a chi l’adotta una grande libertà d’azione, e da questo fatto, una efficacia decuplicata. Essa crea inoltre una disponibilità particolare per la cooperazione, lo scambio gratuito di idee e di contributi, la generosità reciproca.
In realtà, questo modo d’azione politica è quello dei rivoluzionari, e così si riassume: creazione di un nuovo ordine; generosità disinteressata, cospirazione, idealismo; alleanza dell’attività politica e di un altro mestiere. La costruzione europea è una rivoluzione, anche se i suoi rivoluzionari non sono cospiratori pallidi e magri, ma impiegati, funzionari, banchieri e professori." [sottolineature nostre]
Che dire di questo idealista cospiratore che combina l'attività politica con "un altro mestiere"? Di che mestiere si tratterebbe? A prima vista, per come viene descritto, sembrerebbe quello del faccendiere, del trafficante di influenze, del manipolatore delle istituzioni pubbliche (ma, intendiamoci, a fin di bene) o del golpista gentile (ma per l'Europa, attenzione, e nel ripudio della violenza e dei nazionalismi). Insomma un eroico mestatore, intrallazzatore sì, ma di notevole livello, non pallido e magro, ma alto funzionario, banchiere e illustre professore. Super scortato, ultra protetto e ben introdotto a Bruxelles. Chi avrebbe il coraggio di mettere dentro un "rivoluzionario" simile? Chi, soprattutto, avrebbe l'occasione e gli strumenti per farlo? Ma nessuno, purtroppo.
E poi, secondo Padoa Schioppa, i progressi dell'Europa sono stati favoriti dalla democrazia limitata e dalle "illuminazioni" di questo personaggio. Vediamone un paio, quelle fondamentali, sempre attingendo dallo stesso testo:

Prima "illuminazione", a proposito della cosiddetta "libertà economica":
"È precisamente per creare la libertà economica tra paesi partecipanti che il legislatore di Bruxelles, con una forza e una coerenza che i processi politici interni agli Stati non avrebbero saputo sviluppare, ha alleggerito e sfrondato la legislazione e le istituzioni economiche degli Stati membri per adattarli al mercato e alla concorrenza. A giusto titolo, la costruzione europea ha dunque significato più mercato e più governo."
Seconda "illuminazione", su poteri pubblici e privati:
"Se le regole del mercato sono veramente indipendenti dal regime della proprietà e se, di più, sono proibiti gli aiuti pubblici che falsino la concorrenza, a che cosa serve la proprietà pubblica? Se, inoltre, le finanze dello Stato devono essere sanate, è raccomandato, e anche necessario, privatizzare."
Con ciò dovrebbe essere chiaro in che direzione si muovono i "rivoluzionari" di Padoa Schioppa con "generosità reciproca" e "scambio gratuito di idee". Idee certamente generose e gratuite per loro, ma costosissime e ingenerose per chi ne paga il prezzo. Come l'idea che "ha alleggerito e sfrondato la legislazione e le istituzioni economiche degli Stati membri" (cioè lo Stato sociale), con una coerenza che "i processi politici interni agli Stati" (cioè la democrazia)  non avrebbero mai avuto (ma è ovvio, altrimenti si sarebbe trattato di stati non democratici). Come quell'altra idea metafisica circa l'esistenza di "regole del mercato veramente indipendenti dal regime di proprietà". Ma dove collocare questo "veramente"? Nell'Essere? Nella Natura? In Dio? Nella Legge Originaria? Di ciò non si dice. Si ritiene però che gli aiuti pubblici vadano proibiti per non falsare l'indimostrata armonia della concorrenza, che va sempre bene, a patto che lo Stato vi partecipi con le mani legate, come un debitore tra gli altri, anzi come una somma di debiti privati. Ma allora, "a che cosa serve la proprietà pubblica?" Ma a niente, appunto. Quindi è meglio che diventi privata al più presto e senza troppe storie.
Sembra così normale (una caratteristica della "realtà") che i debiti privati diventino pubblici, e che lo Stato, da indebitato, sia costretto a cedere i suoi beni al privato, cioè alla causa dei suoi debiti futuri. Quando questo circolo vizioso diventa la regola "è raccomandato, e anche necessario, privatizzare". Quando la regola si irrigidisce poi in un trattato, e il trattato è vincolante per l'adesione a una moneta comune, abbiamo l'euro e la "rivoluzione" alla Padoa Schioppa è compiuta. Secondo la sua opinione il risultato finale sarebbe frutto di una "procedura perfettamente legittima".

Sull'ultimo punto è necessario obiettare. Che la procedura sia "perfettamente legittima" è solo un'illusione, frutto di un economicismo che ritiene possibile la creazione di una moneta senza storia, senza popolo, senza consenso, governata  attraverso influenze, manovre e sotterfugi incompatibili con l'esistenza di uno Stato di diritto.
La procedura è invece illegittima, e chi volesse approfondire l'argomento, in un percorso di educazione alla cittadinanza, potrà farlo qui o direttamente sul sito del prof. Giuseppe Guarino o anche grazie a questo video:


Secondo il professore la dottrina dell'austerità che accompagna l'euro sarebbe una degenerazione degli accordi originari tra stati, una modificazione unilaterale e illegittima imposta dalla Commissione attraverso l'aggiramento e la manipolazione delle norme autentiche. Dunque "non chiamatelo Euro", perché siamo di fronte, ormai, a un'altra moneta, determinata da un golpe e diversa da quella a suo tempo progettata.
Questa interpretazione lascia spazio a una speranza: che, impugnate le regole "cattive", dopo averle ripudiate si possa ritornare a un euro "buono", compatibile con gli investimenti pubblici, la crescita equilibrata, il welfare e le democrazie.
Ma si tratta di una speranza fondata? A noi pare che una moneta che nasce sul principio dell'indipendenza delle banche centrali, che sottrae agli stati la possibilità di avere una politica economica autonoma, che assoggetta i cittadini europei ai ricatti di burocrati non eletti (appunto gli illuminati alla Padoa Schioppa), sia sbagliata in radice e senza la possibilità di una correzione. Ma soprattutto incompatibile con la Costituzione italiana, da cui si è allontanata, con una graduale e sistematica azione eversiva, tuttora in atto.

Comportamenti illegali che mettono a repentaglio il benessere, la sicurezza e il lavoro di milioni di persone non possono essere classificati come semplici illeciti amministrativi. Il fatto che vi sia una responsabilità collettiva, e non un colpevole in particolare, non deve impedire di riconoscerli come crimini. Solo dopo essere passati attraverso questa esperienza traumatica, che comporta un grande cambiamento nel modo di vivere e di pensare, diventa lecito sperare in una finale amnistia, che non ci faccia assistere al brutto spettacolo di una nuova Norimberga.
Ma quest'atto di riconciliazione e di generosità non sarà possibile finché il dispotismo illuminato che ha architettato l'euro non venga battuto culturalmente e politicamente, e collocato nell'unica posizione che gli compete in uno Stato democratico di diritto: sul banco degli imputati.

venerdì 10 agosto 2018

La sinistra sottomessa e la scuola

Chi si attendeva dal nuovo governo un completo abbandono della legge 107 ha già motivo di rammaricarsi. Le novità sono infatti poche e timide e non alterano per il momento il quadro liberista e aziendalista che ha ispirato la Buona Scuola (e insieme l'ha resa insopportabile, determinando il suo fallimento).
Denunciare la mancanza, che rinvia a una promessa non mantenuta, è inevitabile e giusto. Non può però diventare un pretesto per riabilitare chi ha portato la scuola italiana in questa penosa situazione, come ci propongono alcune voci interessate (voci dal piddì e dai suoi dintorni e cespugli).

I documenti che circolano nei nostri istituti risentono ancora del gergo della Buona Scuola. Accountability, policy, governance, stakeholder, aziendalismo scolastico oltre ogni misura, e perfino al di là del pudore e del senso dell'umorismo. Rendicontare. Dimostrare. Essere efficienti e produttivi. Parlare di insegnamento e apprendimento come se fossero oggetti in produzione, e fingere perfino che sia possibile misurarli, pesarli, calcolarli. Anzi pretenderlo. Certificare. Monitorare. Ottimizzare. Il sistema deve dare prova di affidabilità funzionando senza sprechi. A questa caricatura, a questa scimmiottatura di una fabbrica, viene ridotta la scuola quando la si pensa sotto il segno del Mercato, del produttivismo, dell'economicismo, del liberismo e del privato che si contrappone al pubblico come garanzia di efficienza.

Ovvio che una simile idea non sarebbe nemmeno proponibile senza una serie di pregiudizi di carattere culturale e politico. L'inevitabile prevalenza del privato sull'economia pubblica. L'idea che l'interesse collettivo debba passare attraverso il sacrificio dei ceti più deboli. La compressione dei diritti sociali vista come premessa per un benessere futuro e come garanzia di una maggiore competitività nel presente. La riduzione della politica nazionale all'accettazione di regole e vincoli internazionali imposti da organismi e interessi non controllati democraticamente. Questo è il clima che apre la strada alla Buona Scuola, alla sua concezione della formazione e del sapere. Un clima che non possiamo interamente attribuire a Renzi e ai suoi cattivi consiglieri e che rinvia a una lunga storia, quella di una sinistra che, orfana della sua prospettiva storica, si è completamente arresa alla finanza.
Sinistra sottomessa, o subalterna, o bancaria, o €uropea, o eurista, o filo-tedesca, chiamatela come volete, ma è facilmente riconoscibile nelle parole dei suoi personaggi:






Una sinistra subalterna che ha fatto dell'austerità la sua bandiera. La sinistra che pur di governare ha accettato, in nome dell'euro, il lavoro sporco che a nessuna destra era mai riuscito. 
La Buona Scuola doveva essere il coronamento di questo processo, il suo suggello dal punto di vista culturale, ridisegnando i ruoli (dirigenti, docenti, studenti) in adesione al modello neoliberista di formazione.
Per il momento è andata male, anzi molto male, oltre le previsioni più negative, ma il progetto non è stato completamente accantonato, e c'è chi pensa di poterlo prolungare per inerzia, lasciandolo galleggiare, sonnecchiando nell'ordinaria amministrazione, per poi riproporlo al momento buono in condizioni più favorevoli delle attuali.
Così ragionano dalle parti del piddì (e cespugli). Dovrebbero scorrere l'elenco dei danni e chiedere scusa, ma non lo faranno. O meglio lo faranno solo alla fine, quando non vedranno altra strada per salvarsi, e allora sarà tardi, e cominceranno a darsi la colpa reciprocamente come già si intuisce da qualche segnale.
Nel frattempo bisogna stare attenti a non cadere nelle trappole. Non riabilitare frettolosamente chi ha dato prova di grande incapacità e tenere bene a mente quello che si è sperimentato e imparato in questi anni: tra sinistra sottomessa e scuola italiana c'è piena incompatibilità.

giovedì 2 agosto 2018

Cravatte

Come ogni ministro Bussetti interviene, presenzia, esterna. Ma siamo solo agli inizi e la fisionomia del suo ministero non è ancora ben chiara. Qual è infatti la costante nella sua intensa attività ministeriale? Quasi impossibile dirlo. Non lo sappiamo ancora. E allora è ovvio che, in mancanza di una definita filosofia, l'attenzione cada sulla cravatta, anzi sulle cravatte (un repertorio vasto e articolato, coniugando eleganza e sobrietà). Prevalgono i blu e gli azzurri, in un tripudio di sete lombarde. Questa, per il momento, è l'unica tendenza sicuramente rilevabile. E niente patacche verdi da leghista della prima ora, avete notato? Del resto il governo, nelle intenzioni dei suoi promotori, dovrebbe essere gialloblu (blu Salvini), e non gialloverde (verde Bossi Padania), come è stato malignamente ribattezzato, con l'intenzione di nuocergli, dalla stampa dominante avversa, economicamente mainstream e politicamente corretta (i soloni del pensiero unico mondializzato).
Certo, sul piano strettamente scolastico, bisogna ammettere che, proprio in opposizione al pensiero unico degli ultimi due decenni €uropei, ci aspettavamo qualcosina in più. Per esempio:
Abrogazione della 107/15 (Buona Scuola) senza se e senza ma.
Fine dell'eteronomia scolastica e ritorno all'autonomia.
Fine della pedagogia del gambero e ricollocazione della scuola italiana nell'orizzonte costituzionale.
Chiusura dell'Invalsi e ritorno alla valutazione formativa affidata alle istituzioni scolastiche autonome e agli insegnanti.

Fino ad oggi si è vista soltanto la soppressione della chiamata diretta, che però, a ben guardare, sembrava già boccheggiante e agonizzante da sé, avviata verso sicura morte naturale.

Insomma, in assenza di vere novità, cerchiamo di sondare il futuro sulla base dei primi e pochi indizi che abbiamo: cravatte. E che nessuno dica che si tratta di un approccio superficiale e metodologicamente fatuo. Non credo a chi pensa che dietro le apparenze si nasconda sempre un inganno. Vero è invece che in molti casi, soprattutto in politica, è l'abito che fa il monaco. Non trascuriamo dunque il repertorio Bussetti. Le cravatte contano, raccontano e promettono...