Cominciamo dall'inizio, cioè dal decreto legislativo 258, che nel 1999 trasformava il vecchio Cede (Centro europeo dell'educazione) in Invalsi. L'art.1, comma 3, così definiva i compiti della neonata creatura:
"In particolare, l'Istituto valuta l'efficienza e l'efficacia del sistema di istruzione nel suo complesso ed analiticamente, ove opportuno anche per singola istituzione scolastica, inquadrando la valutazione nazionale nel contesto internazionale; studia le cause dell'insuccesso e della dispersione scolastica con riferimento al contesto sociale ed alle tipologie dell'offerta formativa; conduce attività di valutazione sulla soddisfazione dell'utenza; fornisce supporto e assistenza tecnica all'amministrazione per la realizzazione di autonome iniziative di valutazione e supporto alle singole istituzioni scolastiche anche mediante la predisposizione di archivi informatici liberamente consultabili; valuta gli effetti degli esiti applicativi delle iniziative legislative che riguardano la scuola; valuta gli esiti dei progetti e delle iniziative di innovazione promossi in ambito nazionale; assicura la partecipazione italiana a progetti di ricerca internazionale in campo valutativo e nei settori connessi dell'innovazione organizzativa e didattica."
Non c'è dubbio: siamo di fronte a un organismo di ricerca e di supporto alla nascente autonomia scolastica. L'Invalsi doveva valutare l'efficienza e l'efficacia del sistema di istruzione nel suo insieme, ponendo in secondo piano eventuali interventi specifici sulle scuole. In un solo punto si fa infatti riferimento alla possibilità di operare "ove opportuno anche per singola istituzione scolastica", ma il compito fondamentale resta quello di fornire strumenti e archivi per la valutazione, e non di valutare direttamente (e di conseguenza in modo parziale e standardizzato) istituti e classi, sovrapponendosi alle autonomie.
L'Invalsi nasce con una priorità (o missione) di ricerca valutativa di sistema e non di immediata valutazione delle scuole; è chiaro?
Mi sembra inoppugnabile. Basta saper leggere. E infatti nei primi anni di autonomia scolastica nessuno metteva in discussione questa ovvietà.
Posto l'ovvio, passiamo ora a ciò che è meno ovvio, e non può essere visto senza un momento di riflessione. Se i compiti valutativi dell'Invalsi si sviluppano davvero come azione di sistema, preservando al contempo l'autonomia delle unità scolastiche, e anzi promuovendola, in una logica di rete, deve valere per l'ente la seguente massima:
"Dobbiamo insegnare alle scuole a valutare ciò che fanno, e non a fare ciò che qualcuno vuole valutare."
Questo qualcuno, a seconda di come si è orientati ideologicamente e politicamente, può essere il Miur, la Commissione dei 40 Saggi, il Programma, lo Stato, oppure l'€uropa (che ha sempre qualcosa da chiedere), o anche, per i mistici, il Mercato (che è in fondo un altro modo per dire l'€uropa), o lo stesso Invalsi. Non è importante sapere chi sia questo impalpabile "qualcuno", è invece essenziale capire che non deve esserci.
La valutazione formativa (e autonoma) è tale proprio perché non si riferisce a un esterno "qualcuno", ma porta in sé il suo criterio e la sua regola. Ogni scuola, nel modello formativo di funzionamento, trova nell'interpretazione della concreta situazione, e quindi nel proprio contesto sociale e ambientale, il percorso della valutazione e il valore da riconoscere, insieme e inscindibilmente.
All'ente esterno di supporto (l'Invalsi) spetta invece, e solo, il compito di diffondere un metodo nella rete, incrementando le conoscenze, le tecniche, gli strumenti di misurazione e gli esempi, dati e materiali.
La valutazione, che è interpretazione, ha sempre bisogno di punti di riferimento. Ben venga dunque l'Invalsi. L'interpretazione è infatti sempre interpretazione di qualcosa, di fatti e di dati. Ma cessa di essere interpretazione quando si ferma a questi, appiattendosi sul fatto e sul dato.
In conclusione, sulla base di tali premesse, alcune ovvie e altre meno, in regime di autonomia scolastica le scuole scelgono: che cosa valutare e come, a partire da quello che fanno; mentre l'ente di ricerca fornisce gli strumenti, registra i risultati e analizza le tendenze: che cosa fa e dove sta andando il sistema.
Possiamo dire che negli ultimi anni l'Invalsi abbia operato in questa direzione?
Quasi tutte le energie si sono concentrate nella produzione e nella somministrazione di prove nazionali. Agli allievi e ai docenti sono stati dati discutibili compiti da eseguire e da correggere, piuttosto che strumenti da discutere e da sviluppare. Con grande enfasi si sono diffusi punteggi, tabelle e grafici, dovendo poi ammettere, con gli esperti, che tanti numeri, come ben sappiamo, non dicono niente di per sé. E tuttavia, nonostante ciò, si è continuato, davanti agli incompetenti e all'opinione giornalistica, a magnificarne la novità, l'importanza e l'utilità. L'incoerenza metodologica, grazie a tale doppiezza, è diventata una prassi corrente per barcamenarsi nel sistema, e mentre si conferma che valutare non è solo misurare, non si fa che misurazione. Mentre si afferma che non è corretta la valutazione per confronto tra allievi, tra classi e tra scuole, e che anzi induce all'errore, non si propongono che confronti.
Risiede appunto nel confronto il pericolo maggiore. Se le prove Invalsi fossero per le scuole uno strumento accanto agli altri, se venissero usate e incrociate con un repertorio di verifiche e di osservazioni affidato agli insegnanti, potrebbero forse costituire un utile contributo alla valutazione. Ma non è così. Isolate dal resto, evidenziate con i crismi dell'ufficialità, poste al centro dell'attività dell'ente e rese obbligatorie, assumono un rilievo decisivo, che non dovrebbero avere e che non meritano. Diventano, appunto, l'unico termine, diffuso su scala nazionale, a cui confrontare gli allievi, tra loro e con un presunto standard di apprendimento. Associate alle competenze lasciano intendere, a chi non ha approfondito il tema, di esserne la certificazione. Una semplificazione inaccettabile, metodologicamente infondata e indifendibile sul piano scientifico. Ma d'altra parte, se una simile, grossolana approssimazione in qualche modo non operasse, come si potrebbe attribuire tanto peso e dedicare tante energie a una semplice prova strutturata?
Nella logica del confronto vengono coinvolti anche i docenti (non si possono infatti confrontare le classi senza prendere in considerazione anche maestri e professori). E dal momento che non si fa mistero della volontà di stendere classifiche sulla base dei risultati, e gli unici risultati registrati, pubblicati e diffusi a livello nazionale, sono quelli dell'Invalsi, scatta un pernicioso incentivo. Non a valutare ciò che si considera importante fare, ma a fare ciò che l'Invalsi ha stabilito di valutare. Precisamente l'esatto contrario dell'obiettivo a cui dovrebbe mirare un ente di ricerca e di supporto all'autonomia.
Ci si prepara dunque per le prove Invalsi. C'è l'ora di matematica, l'ora di italiano e l'ora di Invalsi. E diventa indispensabile far così, nell'interesse dell'allievo, del buon nome della scuola e del prof (che non ci crede, ma intanto si attrezza). E le case editrici rispecchiano questi bisogni. E c'è il libro di matematica, l'antologia, la grammatica e il testo di Invalsi. Sale, parallelamente alle discipline e senza influenzarne l'insegnamento, il termometro dell'Invalsite, una nuova febbre.
E così dall'Invalsi, che nasceva da una buona idea, deriva l'Invalsite, che è invece una malattia.
L'Invalsite è un disturbo della valutazione che, in contrasto con i suoi presupposti iniziali, che sembravano formativi, produce invece solo confronti e misurazioni, nell'intento di conformarsi non a ciò che effettivamente si fa, perché ritenuto educativo e istruttivo, ma alle aspettative di un ente esterno (peraltro non chiare). Plastico esempio di eteronomia scolastica. E ciò, dicono gli invalsisti, anche al fine di assicurare "la partecipazione italiana a progetti di ricerca europea e internazionale in campo valutativo, rappresentando il Paese negli organismi competenti". (Competenti?)
In altre parole: ce lo chiede l'€uropa, un'altra volta.
E chi se no?
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