Cambia il governo e si torna a parlare di riforma della scuola. Verrà superata? O sarà piuttosto cancellata e poi ricostruita da zero? Oppure i nuovi arrivati, dopo avere a lungo promesso di raderla al suolo, finiranno per confermarla con modifiche marginali, ponendo le basi per un altro insuccesso? La sensazione è che il sistema scolastico sia sempre in procinto di essere rifatto daccapo, e nonostante questo (o forse proprio per questo) sia immobile, destinato a sopravvivere indefinitamente a se stesso e a ritornare ogni volta al punto di partenza. E non è una tendenza di questi ultimi giorni. Sono vent'anni che si va avanti così: dal "mosaico" di Berlinguer al "punto a capo" della Moratti, dal "cacciavite" di Fioroni al dilettantismo della Gelmini, fino alla Buona Scuola, che dei precedenti tentativi ha raccolto il peggio, portando alle conseguenze estreme la pedagogia del gambero.
Propongo di tralasciare le contrapposizioni di superficie e di interpretare la lunga sequenza delle riforme incompiute e fallite, che spero sia ormai alle nostre spalle, come un unico processo degenerativo: un processo unitario, al di là dei conflitti apparenti, perché indirizzato all'abbandono dell'idea di scuola proposta dalla Costituzione, con una prolungata deriva verso una concezione privatistica, liberista e mercatistica della formazione.
La linea di sviluppo del riformismo scolastico dell'ultimo ventennio è un processo involutivo: dalla scuola pensata come organo costituzionale si arretra, per tappe successive, all'istruzione e alla conoscenza concepite come strumenti del mercantilismo europeista.
Questo velleitario riformismo, sempre annunciante una Grande Riforma Epocale, che mai si realizza, continuamente si ripropone attraverso il perdurare di una mentalità centralistica, burocratica e tecnocratica, dettata da indirizzi europei. Mentre si dimentica che la complessità della scuola di massa non può più essere governata da un Centro, da una presunta razionalità assoluta, e che il sistema formativo non può rinnovarsi facendo affluire le direttive dall'alto (eteronomia e tecnocrazia) ma solo assecondando i processi che partono dal basso (autonomia e democrazia).
Non vi è dunque alcun bisogno di un'ennesima riforma destinata a fallire, perché rigettata dalle viventi comunità scolastiche e svuotata di senso, ma è necessario affidarsi alle soluzioni che provengono dalle singole scuole e che si ottengono facendole funzionare in autonomia, secondo la propria imprevedibile complessità interna.
Il mito della Grande Riforma deve cedere il passo al senso della complessità.
Piero Romei, il più influente teorico italiano dell'autonomia scolastica, che ho citato ampiamente in una delle pagine introduttive (Autonomia vs Eteronomia), ha ripreso nei suoi lavori, per spiegare la complessità della scuola, la curiosa metafora della partita di calcio di Karl Weick, uno dei fondatori della psicologia dell'organizzazione.
Propongo di tralasciare le contrapposizioni di superficie e di interpretare la lunga sequenza delle riforme incompiute e fallite, che spero sia ormai alle nostre spalle, come un unico processo degenerativo: un processo unitario, al di là dei conflitti apparenti, perché indirizzato all'abbandono dell'idea di scuola proposta dalla Costituzione, con una prolungata deriva verso una concezione privatistica, liberista e mercatistica della formazione.
La linea di sviluppo del riformismo scolastico dell'ultimo ventennio è un processo involutivo: dalla scuola pensata come organo costituzionale si arretra, per tappe successive, all'istruzione e alla conoscenza concepite come strumenti del mercantilismo europeista.
Questo velleitario riformismo, sempre annunciante una Grande Riforma Epocale, che mai si realizza, continuamente si ripropone attraverso il perdurare di una mentalità centralistica, burocratica e tecnocratica, dettata da indirizzi europei. Mentre si dimentica che la complessità della scuola di massa non può più essere governata da un Centro, da una presunta razionalità assoluta, e che il sistema formativo non può rinnovarsi facendo affluire le direttive dall'alto (eteronomia e tecnocrazia) ma solo assecondando i processi che partono dal basso (autonomia e democrazia).
Non vi è dunque alcun bisogno di un'ennesima riforma destinata a fallire, perché rigettata dalle viventi comunità scolastiche e svuotata di senso, ma è necessario affidarsi alle soluzioni che provengono dalle singole scuole e che si ottengono facendole funzionare in autonomia, secondo la propria imprevedibile complessità interna.
Il mito della Grande Riforma deve cedere il passo al senso della complessità.
Piero Romei, il più influente teorico italiano dell'autonomia scolastica, che ho citato ampiamente in una delle pagine introduttive (Autonomia vs Eteronomia), ha ripreso nei suoi lavori, per spiegare la complessità della scuola, la curiosa metafora della partita di calcio di Karl Weick, uno dei fondatori della psicologia dell'organizzazione.
Consiste nell'immaginare una strana partita giocata su un campo inclinato di forma circolare, con molte porte sistemate sulla circonferenza, senza un ordine preciso. I giocatori non sono organizzati in squadre e possono entrare e uscire a piacere, facendo gol in una porta qualsiasi e modificando il punteggio. Ma la cosa più importante è che questo incomprensibile gioco viene giocato come se avesse senso.
Proviamo ora a sostituire i giocatori con gli studenti e con i docenti, il pubblico con i genitori, l'arbitro con il preside e avremo un'immagine dell'attività scolastica. Ma la scuola deve avere senso, e in effetti a un osservatore esterno non potrebbe sfuggire che tutti gli attori del gioco tendono a dargliene uno, e a tratti sembrano sicuri di conoscerlo e mostrano di condividerlo. Anche se, al termine della partita, lo stesso osservatore non saprebbe trovare le parole per descriverlo, e certamente avrebbe dei dubbi perfino sul risultato.
Questa immagine può essere usata per spiegare la natura del problema organizzativo che si incontra operando nella complessità del sistema scolastico. Le varie componenti agiscono in un proprio orizzonte di senso, che si è formato in contesti assai lontani tra loro, e si incontrano nell'esperienza della scuola già indirizzate da diverse provenienze, intenzioni, aspettative. Dare uno scopo alle azioni personali dentro un simile ambiente di lavoro, contrassegnato dalla presenza di finalità mobili e di compiti non determinati in maniera univoca, comporta la creazione di legami deboli. Le norme e le direttive esistono, e possono essere anche analitiche e dettagliate, ma il loro eventuale carattere prescrittivo è ammorbidito dal grande margine interpretativo che l'organizzazione, per preservarsi, deve attribuire ai suoi membri, pena l'impossibilità di funzionare.
La scuola è pertanto un'organizzazione complessa a legame debole, cioè caratterizzata da una relazione tra le parti in gioco necessaria, ma discontinua, occasionale, non precisamente codificabile. Il suo funzionamento dipende dall'autonomia dei suoi membri e dalla capacità di autodeterminarsi, in particolare attraverso l’iniziativa dei piccoli gruppi, che possono avviare sperimentazioni e innovazioni in un settore, senza che ciò debba produrre necessariamente delle modificazioni negli altri.
Questa flessibilità è però anche un limite evidente, in quanto, ai pericoli di tipo strutturale, assomma la variabilità imprevedibile dei comportamenti individuali, che spesso ostacolano lo sviluppo dei processi e dei meccanismi di integrazione operativa, che dovrebbero garantire la coerenza dell'insieme. Le unità scolastiche sembrano così organismi facilmente esposti alla disgregazione. Weick e Romei insegnano a studiarne le dinamiche interne, spontanee o indotte, allo scopo di individuare le opportune azioni di governo, che possano irrigidire e rafforzare alcuni legami fondamentali, per aumentare l'efficacia complessiva del sistema. Ne deriva un'azione collettiva diretta ad aggregare, esercitata nei punti chiave e sensibili, dove più si fa sentire l'effetto disgregante.
La strategia organizzativa parte dunque dall'accettazione della presenza di legami deboli (perché ciò è strutturale) e individua quelli da rafforzare, in quanto posti in una posizione critica (perché ciò è indispensabile per indirizzare la struttura). Nel personale scolastico la provenienza (fedeltà agli schemi individuali di riferimento e all'origine delle proprie convinzioni) tende a prevalere sull'appartenenza (fedeltà all'organizzazione e alle sue richieste), ma, come si è ben compreso osservando una metaforica partita di calcio, è generalizzata l'esigenza che la scuola debba avere e abbia senso.La costruzione di un senso collettivo è perciò il tema dell'organizzazione scolastica, con la scelta di rafforzare quei legami che determinano la fisionomia dell'istituzione, i punti su cui bisogna intervenire per dirigerla e controllarla, le azioni e i criteri per valutarla dall'interno (autovalutazione di istituto).
La ricerca di senso rinvia a un sistema di valori, e i valori all'operazione fondamentale della scuola: la valutazione. Valutazione dell'efficacia dell'insegnamento, della validità dell'apprendimento e degli studenti. Valutazione che consiste non solo e non tanto nel riconoscere valori preesistenti (provenienti dall'esperienza pregressa delle componenti scolastiche), quanto piuttosto nel formarne collettivamente dei nuovi (non ancora presenti al momento dell'apertura del processo e quindi prodotti dall'istituzione).
Che la costruzione di un senso collettivo sia il compito della scuola appare chiaro da sempre, nel passato e nel presente, ma in situazioni ben diverse. Mentre in passato poteva ancora esistere un Centro capace di dettare finalità e obiettivi all'intero sistema, oggi, di fronte alle richieste contrastanti e ai bisogni diversificati che condizionano la scolarità di massa, questo non è più possibile. Le scuole devono ormai svolgere un compito smisurato e multiforme, in risposta a domande talmente articolate e contraddittorie da apparire irriducibili a un denominatore comune. Rimane in esse, tuttavia, la problematica consapevolezza di avere una stessa origine, e idealmente anche una medesima destinazione. Una percezione di senso che, come quella dello spettatore della strana partita immaginata da Weick, è però assai vaga e non trova parole precise con cui descriversi. Ciò appare in modo speciale nei programmi e negli indirizzi nazionali, che si sono sovrapposti in decenni di buoni proponimenti, e che insieme costituiscono un repertorio di enunciati molto suggestivi ma per nulla operativi. Espressioni quali "collocare nel mondo", "formare l'uomo e il cittadino", "garantire il successo formativo", ci spingono verso finalità da tutti condivisibili, ma condivisibili proprio in virtù della loro generica e astratta formulazione, che si presta a svariate interpretazioni, tutte legittime in democrazia, ma tendenti ad elidersi reciprocamente fino allo stallo.
Il solo riferimento agli indirizzi nazionali pone il docente davanti a un compito infinito, lontanissimo dalle urgenze che si presentano in classe e che ciascuno deve affrontare giorno per giorno in solitudine. Ne deriva un disagio che Romei chiamava "mal di scuola". Chi ne è affetto, schiacciato dal peso di sfuggenti finalità generali che non si traducono mai in un prodotto tangibile, sprofonda nel sentimento di inadeguatezza ("insegnare è ormai inutile, non serve più"); o ancor peggio si convince di essere portatore dell'unico senso autentico della scuola, disconosciuto da un ambiente insensibile e ostile. Un ambiente vissuto come troppo lassista ("oh, non esistono più il rigore e la serietà di una volta, il sistema non riconosce il merito"); o al contrario percepito come troppo conservatore ("ah, nessuno si impegna veramente per cambiare, il sistema non premia il merito"). Opposti e inconciliabili modi di pensare e di subire il disagio, nella frustrazione di presunti meriti ingiustamente non riconosciuti, ma in realtà reciprocamente avversi e impegnati ad annullarsi in un gioco a somma zero. Opposti dolori, ma sintomi di una stessa malattia.
Dal "mal di scuola" si guarisce comprendendo che, nella complessità della scuola di massa, non è più proponibile una razionalità "assoluta", cioè svincolata dal contingente e dal locale, che possa dal Centro ridefinire il senso dell'istruzione e della formazione, e modificarne l'impianto grazie a un nuovo e coerente disegno, introdotto dall'esterno per decreto (e dunque con un'azione di eteronomia scolastica, in opposizione alle viventi autonomie). Non è questo un obiettivo praticabile, ma se anche lo fosse non sarebbe auspicabile.
Non esiste, nel sistema scolastico, uno stesso senso per tutti, ma una generale e problematica richiesta di senso, che per essere efficace e produttiva deve articolarsi in una molteplicità di sensi particolari, aderenti a situazioni e a bisogni molto diversi tra loro.
Ne consegue che il problema di senso che la scuola di massa ha di fronte può essere risolto solo localmente, all'interno di una comunità ben definita, in risposta a un'esigenza specifica, attraverso una sperimentazione che coinvolga un sufficiente numero di attori, ma non così ampio da rendere troppo lunghi e complicati i necessari momenti di mediazione, in vista di un accordo collettivo sul prodotto di istituto (o piano formativo). In questo processo alcuni legami deboli vengono rafforzati, irrigiditi, precisati. Le enunciazioni astratte si chiariscono in attività condivise. L'organizzazione, pur continuando a basarsi sull'autonomia dei singoli, e anzi richiedendola, si fa più coesa e prende forma intorno a un valore comunemente riconosciuto, che, prima ancora di essere formalizzato, si presenta come clima organizzativo, o collegialità informale. E non è di aiuto la faticosa ricerca dei meriti dei docenti e degli studenti da premiare, in quanto ciò che è meritevole di attenzione ha la forza per imporsi nei fatti da sé.
Il prodotto finale non è del preside, né dei docenti, né degli studenti, né di altre componenti, ma della scuola, ed è riuscito proprio quando non è più riconducibile a un singolo autore, ma quasi sembra essersi fatto da sé, come il migliore equilibrio possibile tra le forze in gioco.
Questo senso della complessità, che è all'origine dell'autonomia delle singole scuole, suggerisce un mutamento di indirizzo anche quando si agisce a un livello più generale di sistema. Si tratta infatti di attivare una diversa visione dell'organizzazione scolastica, critica nei confronti del riformismo classico di stampo centralistico, e capace di interpretare le strutture della formazione, i cicli di istruzione, gli indirizzi di studio, i quadri disciplinari, come organismi storici, memorie collettive, eventi non casuali e non manipolabili in modo arbitrario, ma dotati di tendenze interne che vanno analizzate, prima comprese e poi stimolate, in modo tale che possano autonomamente evolversi e progredire, sviluppando le potenzialità latenti attraverso la ricerca ed eliminando gli errori nel percorso, grazie alla sperimentazione e ai risultati dell'autovalutazione.
L'autonomia scolastica, in questo senso, coincide con la riforma: ultima e unica riforma ancora possibile.
Non è esatto parlare di due distinti temi: l'autonomia e (senza accento) la riforma.
Più giusto è invece dire: l'autonomia è (con accento) la riforma della scuola.
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