giovedì 28 febbraio 2019

Soft skill (tradotte in italiano)


Proseguendo nella consultazione del dizionario della moderna pedagogia in lingua inglese non possiamo trascurare le soft skill: ce le chiede l'Europa, a coronamento delle competenze di cittadinanza ordoeuropea.
Le soft skill costituiscono un importante insieme di competenze trasversali, che vanno dagli attributi personali, ai tratti del carattere, alle capacità comportamentali e relazionali, comunicative e sociali, necessarie per il successo, nel lavoro come nella vita di tutti i giorni. Non ci troviamo, pertanto, di fronte a specifiche abilità tecniche o a conoscenze applicate (hard skill), ma ad attitudini (sviluppabili e coltivabili) che interessano più piani, spaziando dal sociale al personale, dall'interazione con gli altri alla consapevolezza di sé.
Un docente veramente capace e pienamente formato non potrà prescindere, nel proprio insegnamento, dalle soft skill, vista la loro importanza nel mercato del lavoro, sicuramente decisiva, considerando che nelle grandi e più dinamiche aziende non vi è recruiter (selezionatore di risorse umane) che non le ponga al centro delle proprie ricerche e valutazioni.
Una mappa completa delle soft skill supererebbe i confini di questo scritto divulgativo, necessariamente limitato e sintetico, non finalizzato alla stesura di un repertorio esaustivo. Attingendo dai più accreditati studi statunitensi ed europei è però doveroso ricordarne alcune, a cominciare dal PROBLEM SOLVING (l'attività organizzata del pensiero, capace di sciogliere i nodi problematici con soluzioni originali e creative, tanto richiesta dalle imprese interessate all'innovazione), che rinvia al TEAMWORK (l'attitudine al lavoro di squadra, una costante imprescindibile in azienda), che presuppone EMPATY (la capacità di immedesimarsi e di comprendere lo stato d'animo dei colleghi). In una simile prospettiva l'ASSERTIVITY (la capacità di esprimere in modo netto e chiaro idee, posizioni ed emozioni, nel rispetto degli altri e nella consapevolezza dei personali limiti) si associa alla STRESS RESISTANCE (la resistenza alla fatica fisica e mentale, con la forza di reagire ad eventuali, passeggere frustrazioni), in vista del conseguimento di FLEXIBILITY and ADAPTABILITY, l'abitudine a rendere flessibile la propria formazione e le proprie mansioni in un continuo processo di miglioramento e di di adattamento alle richieste del MERCATO.
D'altra parte le soft skill non si apprendono sui libri di testo scolastici, ma devono essere acquisite nel corso di un percorso educativo e formativo di qualità. Si conseguono, come risulta dalle più importanti ricerche e indagini transnazionali in ambiente UE, nel corso dell’esperienza di vita personale e lavorativa. Spesso imprenditori e recruiter ne lamentano la mancanza, sulla base di una lunga esperienza nei colloqui di lavoro, o ravvisano, anche nei canditati che non ne sono del tutto sprovvisti, l’incapacità di renderle manifeste. Ciò accade di frequente nel contesto italiano, da questo punto di vista ben al di sotto degli standard OCSE, nonostante i recenti sforzi per ridurre il gap.
Non è comunque mai facile travasare le soft skill nel traballante lessico della nostra desueta pedagogia. Bisogna purtroppo ammettere, ancora una volta, che su questo terreno sensibile siamo rimasti molto indietro rispetto al mondo anglosassone, la locomotiva della globalizzazione. Tuttavia, a ben riflettere, è possibile trovare anche nella nostra modesta tradizione nazionale qualche precedente culturale capace di avvicinarci alla comprensione delle soft skill, in qualche modo traducendone almeno lo spirito, se non la piena e completa teoria.
Ma passiamo subito ad alcuni esempi italiani che possano aiutarci a colmare la lacuna:

Assertivity


Dicesi assertività la capacità di esprimere pubblicamente, in modo netto e chiaro, personali idee ed emozioni. Attraverso l'assertività il lavoratore definisce la propria posizione in azienda e il proprio ruolo nel team dei colleghi, rispettandoli e sollecitando la loro approvazione.

Empaty


Empatia. Capacità di immedesimarsi nei colleghi e di comprendere le loro emozioni. Indispensabile nel lavoro di gruppo.

Stress resistance


Resistenza allo stress. Capacità di resistere alla fatica fisica e mentale, sopportando passeggere frustrazioni e/o eventuali umiliazioni, soprattutto se provenienti da colleghi e superiori.
Frase chiave: "Com'è buono Lei..."


Teamwork


Capacità di lavorare in gruppo, con spirito d'iniziativa, creatività e dedizione, condividendo la mission aziendale, nel team dei colleghi, come ci si attende da un'efficace ed efficiente risorsa umana.
Parola chiave, nei casi estremi: "BANZAI!"

Problem solving


Capacità di risolvere problemi, nell'interesse proprio e dell'azienda, assumendo spontaneamente decisioni creative, insieme alla posizione lavorativa più adatta alle richieste del mercato e alle personali competenze e attitudini.
"AHI AHI AHIA..."

Flexibility and adaptability


Non vi è recruiter che non ricerchi nell'aspirante la capacità di rendere flessibile la propria formazione, fluide le proprie mansioni, mobile il proprio profilo, in un continuo processo di miglioramento e di adattamento alle richieste aziendali.
Questa adattabilità, in particolare, quale risposta alle sfide della concorrenza e della globalizzazione, stimolando lo studente a diventare servile imprenditore di se stesso, occupa un posto speciale tra le competenze chiave europee e riassume in sé l'intero pacchetto delle soft skill. 
L'imprenditorialità, infatti, secondo la strategia di Lisbona, genera la società basata sulla conoscenza più dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro, nel quadro di un'economia sociale di mercato fortemente competitiva.
Lifelong learning, per tutta vita: BANZAI! AHI AHI AHIA...

venerdì 22 febbraio 2019

La concorrenza premia il merito e difende i cittadini?

Vi propongo un interessante esperimento mentale. Seguite con attenzione il seguente spot. Non è richiesto un grande sforzo. Dura solo pochi secondi. Tenete presente che lo spot è realizzato dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l'Antitrust) in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico. Viene da una fonte governativa del nostro paese e ha tutti i crismi dell'ufficialità. Si tratta, secondo chi lo ha prodotto e diffuso, di un esempio di buona comunicazione, di alto valore sociale ed educativo. La voce delle istituzioni. 
Buona visione:


Lo spot fa parte di una campagna istituzionale (ripeto istituzionale) sui frutti della concorrenza. Ne riporto il commento, tratto dal sito dell'authority:
"La campagna istituzionale “I frutti della concorrenza”, realizzata dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico, mette in evidenza come la realizzazione di un ambiente competitivo aumenti il benessere della società nel suo complesso. Gli effetti, infatti, non riguardano solo il tessuto imprenditoriale ma hanno ricadute e effetti benefici su tutta la collettività e il consumatore finale, incentivando l’innovazione, creando nuovi posti di lavoro, premiando il merito e riducendo le disuguaglianze. L’iniziativa si fonda quindi sul concetto che la concorrenza premia il merito, difende i cittadini, tutela i consumatori e riduce le disuguaglianze."
"L’Autorità intende, con la sua azione di vigilanza e di tutela, costruire un ambiente sempre più favorevole alla leale competizione. In questo contesto, l’informazione istituzionale su larga scala rivolta ai cittadini, costituisce uno degli strumenti per il rafforzamento del processo di consapevolezza del consumatore che diventa soggetto attivo e collaborativo all'interno del processo produttivo."
Chiedo a questo punto: com'è andato l'esperimento? Come inquadrare lo spot? Vi è piaciuto? In particolare: vi sembra felicemente istituzionale?
Se i "frutti della concorrenza" vi hanno appagato, passate pure oltre (non c'è più niente da fare per voi). Se invece, come mi auguro, nel corso della visione avete sentito che qualcosa non andava, o addirittura avete provato, come mi aspetto, un certo senso di ripugnanza, l'esperimento continua. Si tratta ora di capire da dove proviene quel disagio. E dove può portare.

Il secondo passo dell'esperimento consiste nel rivedere lo spot senza sonoro, accompagnandolo con il seguente commento di presentazione, che non è che una parafrasi con rielaborazione di quello originale:
"La campagna istituzionale "I danni della concorrenza", realizzata dall'Autorità Garante della Solidarietà e della Difesa del Cittadino dal mercato, in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico, mette in evidenza come la realizzazione di un ambiente competitivo miri al benessere di alcuni a discapito della società nel suo complesso. Gli effetti della competizione, infatti, mentre avvantaggiano pochi imprenditori, scaricano sulla collettività i loro costi sociali, sui lavoratori e sui consumatori finali, privilegiando il profitto immediato, disincentivando la ricerca e l'innovazione, non preoccupandosi delle ricadute negative sull'occupazione. L'iniziativa si fonda quindi sul concetto che la concorrenza non riconosce i veri meriti, opera al di fuori degli scopi sociali, nuoce ai cittadini, non tutela i consumatori e fa crescere le diseguaglianze."
 "L’Autorità intende, con la sua azione di vigilanza e di tutela, costruire un ambiente sempre più favorevole alla leale cooperazione, disincentivando l'individualismo competitivo e antisociale. In questo contesto, l’informazione istituzionale su larga scala costituisce uno degli strumenti per il rafforzamento della consapevolezza del cittadino, che da consumatore passivo diventa soggetto attivo e collaborativo all'interno del processo democratico."
Funziona? Direi di sì. Le immagini che scorrono sul video (campi coltivati, paesaggi trasformati dall'ingegno umano, lavoratori e tecnici all'opera) vanno bene anche per il secondo commento. Anzi, rappresentando il lavoro collettivo, sembrano adatti a esaltare la cooperazione, l'unità di intenti e la solidarietà piuttosto che la competizione. Dunque lo spot, completamente cambiato di segno attraverso il rimaneggiamento della presentazione, funzionerebbe ancora meglio. Ovviamente in senso opposto.

In realtà entrambi i commenti, applicati a un contesto così generico e scioccamente edificante, risultano unilaterali e poco significativi. La collaborazione solidale e la competizione in vista di un premio non possono infatti essere esaltate o condannate in astratto. La solidarietà sembra un bene, ma a volte (ad esempio all'interno di un sodalizio criminale) diventa complicità e omertà. La competitività è una molla potente per il raggiungimento di molti obiettivi, soprattutto nel gioco e nello sport, ma in tanti altri campi produce disastri (per esempio quando si tratta di tutelare il risparmio, la salute, la sicurezza e il benessere collettivo).
Solo nelle rozze ideologie tutto dipende e viene determinato da una sola parola, da un solo concetto, da un'unica e sempre valida ricetta. E in effetti lo spot sulla concorrenza che premia il merito è rozzamente ideologico e banalmente diseducativo, riproducendo una serie di luoghi comuni tipici del liberalismo economico.
Insomma, ci fanno pagare, attraverso canali istituzionali, un po' di propaganda neoliberista spacciandola per informazione. E il terzo passo dell'esperimento mentale consiste in questa riflessione: qui la falsità è piuttosto evidente e perciò meno pericolosa, ma come la mettiamo con tutto il resto dell'informazione, che, anche se in forma meno appariscente, è per lo più costruita nel medesimo modo e secondo gli stessi pregiudizi ordoliberali?

martedì 29 gennaio 2019

Ordoeuropeismo e scuola


"Il futuro politico dell’Unione Europea ha una sola dimensione umana, sociale e politica: la solidarietà! Per questo ogni giovane cittadino europeo si deve sentire responsabile nel promuovere una vera cultura della solidarietà a favore della persona umana e del bene comune." Così si legge nella pagina introduttiva del sito di una benemerita associazione che produce studi internazionali  "verso una nuova Europa del cambiamento: cooperazione, sicurezza, sviluppo e solidarietà".
Parole chiave: solidarietà, cooperazione, persona umana, bene comune, pace.
Ma è davvero questo il pensiero guida dello "spirito europeo"? Ma è proprio questa la linea a cui si fa riferimento quando si parla di "educazione europea"?
Chi è tentato di rispondere di sì è invitato a leggersi i documenti UE sul tema, cosa che ben pochi europeisti hanno fatto (la retorica europeista, infatti, non parte mai dalla lettura analitica delle norme e dei regolamenti, ma si limita a generiche affermazioni di principio dal sapore vagamente umanitario). Queste righe si propongono di fornire i primi strumenti per colmare la lacuna.

L'educazione ordoeuropea
Che cosa debba intendersi, secondo la UE, per "educazione europea" lo apprendiamo dalla cosiddetta strategia di Lisbona, di cui si è già parlato qui. Prima fonte di diritto per comprendere questa visione ideologica (utilitarista, scientista e neoliberale) della conoscenza e della formazione è il documento adottato dal Consiglio Europeo del 23 e 24 marzo 2000. Ne riporto l'obiettivo fondamentale, definito "strategico" e posto al centro di un "nuovo metodo di coordinamento" destinato a coinvolgere tutti i paesi UE:
Diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.
Il principio della competitività, secondo il vecchio dogma liberista, è ritenuto il motore della crescita e del miglioramento sociale. Anche la conoscenza deve adattarsi a questa convinzione. Anzi, nelle società e nelle economie dominate dalla scienza e dalla tecnica, conoscenza e istruzione diventano gli strumenti più importanti per il potenziamento della competitività. Non mancano riferimenti alla difesa dell'occupazione ("nuovi e migliori posti di lavoro") e alla "coesione sociale" (dunque a forme di cooperazione e di solidarietà), ma questi secondi obiettivi dipendono dal primo, in quanto derivanti dal livello di competitività che un paese è capace di raggiungere.
Questa insistenza sulla competizione, vista come principale fattore del progresso sociale, potrebbe andar bene per qualsiasi forma di liberalismo economico, scelta a caso tra le varie che, con diverse sfumature, si sono presentate nella storia delle ideologie. Nel contesto delle norme europee fa però riferimento a qualcosa di più preciso e va interpretata tenendo presente quanto si legge nel Trattato dell'Unione Europea (art. 3.3):
L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico.
Qui l'economia sociale di mercato, non solo competitiva ma "fortemente competitiva" e caratterizzata dall'idea che uno sviluppo equilibrato non possa sussistere senza stabilità dei prezzi (stabilità dei prezzi = obiettivo guida della politica economica), viene indicata come scelta costitutiva e fondante dell'Unione. Economia sociale di mercato quale condizione preliminare per il conseguimento del progresso sociale e per il miglioramento della qualità della vita.
Occorre a questo punto sapere che l'economia sociale di mercato, altrimenti detta "ordoliberalismus" (dalla rivista tedesca che ha promosso tale ideologia e che si intitolava, appunto, Ordo), non predica una generica fiducia nei mercati, non è un liberismo ingenuo. Nasce piuttosto, in Germania, dalla consapevolezza del fallimento dei mercati e dei governi liberali, e dalla tragica esperienza dei totalitarismi che ne sono derivati.
L'ordoliberalismo ha perso l'incondizionata fiducia nel mercato che caratterizzava i liberisti dell'Ottocento, non crede che l'iniziativa economica lasciata a se stessa possa spontaneamente garantire benessere e progresso. Continua però a vedere nella concorrenza e nella competitività le uniche forze capaci di provocare un miglioramento, e intende perciò preservarle, creando artificialmente un ordine favorevole alla loro libera espansione. L'ordine dei mercati non si afferma da solo, ma va, appunto, "instaurato", come dice il Trattato dell'Unione, cioè costruito e difeso intrecciando le regole dell'economia con quelle del diritto, demolendo i monopoli, incentivando la competizione e assicurando il mantenimento di equità e giustizia attraverso l'intervento pubblico. Le regole prima di tutto, nel rigore tipico della mentalità tedesca: l'orrore per l'inflazione che erode i capitali (da cui il totem della stabilità dei prezzi), l'ossessione del pareggio del bilancio statale (schwarze Null), la convinzione che il non contrarre debiti costituisca prova di superiorità morale.
Attraverso il rigore tedesco l'ideologia ordoliberale è entrata nei trattati UE, diventandone il pilastro economico e giuridico e operando come una specie di religione della competitività, professata nell'edificio sovranazionale (e antinazionale) del diritto comunitario. L'imprenditorialità è stata posta al di sopra di ogni altro valore, insieme al profitto.
Che ne è, allora, dello spirito europeo solidale e cooperativo da cui siamo partiti? Come si può scrivere, se si conoscono i trattati, che "il futuro politico dell'Unione Europea ha una sola dimensione umana, sociale e politica: la solidarietà"? Si tratta di un mero artificio retorico per deviare l'attenzione dalla sostanza, dal significato dei regolamenti e dalla natura dei programmi.
Al centro del progetto politico europeo non troviamo la solidarietà ma la competitività ordoliberale con il suo sistema di regole tedesche, le stesse dell'Unione e dell'euro. Tanto che, da qui in poi, per evitare gli equivoci e l'ingiustificata retorica, eviteremo il termine "europeismo" per utilizzare quello, più appropriato, di ordoeuropeismo.
Obiettivo della strategia di Lisbona è l'educazione ordoeuropea.

Che cosa chiede l'ordoeuropeismo alla scuola
La scuola ordoeuropeista vuole mettersi al servizio del mercato e delle aziende, vuole anzi diventare, essa stessa, un'azienda, impegnata a formare il capitale umano necessario a rispondere alle nuove sfide della globalizzazione e della concorrenza mondiale. Chiede perciò agli stati membri di conformarsi a queste intenzioni, mirando alla costruzione di competenze misurabili e certificabili, che siano funzionali agli interessi dell'Europa, come richiesto dalla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l'apprendimento permanente:
Tali obiettivi comprendono lo sviluppo di abilità per la società della conoscenza nonché obiettivi specifici per promuovere l'apprendimento delle lingue, sviluppare l'imprenditorialità e rispondere all'esigenza generalizzata di accrescere la dimensione europea nell'istruzione.
La subordinazione del sistema formativo all'impresa è il presupposto indiscusso su cui si sviluppa il testo. Nel sistema si entra per conformarsi, adattarsi, adeguarsi alle richieste della produzione, e ci si rimane per tutta la vita. Mai, nemmeno per un istante, sorge il sospetto che nella scuola possa anche nascondersi qualcosa di diverso:
Il quadro di azioni per lo sviluppo permanente delle competenze e delle qualifiche adottato dalle parti sociali europee nel marzo 2002 ribadisce la necessità che le imprese adattino le loro strutture più rapidamente per poter rimanere competitive. L'accresciuto lavoro di squadra, l'appiattimento delle gerarchie, la maggiore responsabilizzazione e una crescente necessità di mansioni polivalenti portano allo sviluppo di istituzioni formative. In tale contesto la capacità delle organizzazioni di identificare competenze, di mobilitarle e riconoscerle e di incoraggiarne lo sviluppo tra tutti i lavoratori rappresenta la base per nuove strategie competitive.
E quali sarebbero queste forze da "mobilitare" e sviluppare in vista dell'affermazione di sempre nuove strategie competitive? Si tratta, come è noto, delle otto competenze chiave europee: comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare a imparare; competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità; consapevolezza ed espressione culturale.
E c'è un'avvertimento finale: le competenze vengono considerate ugualmente importanti e non sarebbero disposte secondo un ordine gerarchico, anche se ciò non trova conferma nella struttura del testo, che sembra invece suggerire precisamente quel che l'avvertenza esclude, in un crescendo che va dall'apprendimento della propria lingua all'imprenditorialità, valore supremo.
Alla scuola dell'ordoeuropeismo ci si iscrive per imparare a imparare a farsi imprenditori di se stessi, in un percorso di istruzione permanente, che sollecita "l'adattamento dei sistemi di istruzione e formazione in risposta alle nuove esigenze di competenze mediante una migliore identificazione dei bisogni occupazionali e delle competenze chiave contestualmente ai programmi di riforma degli Stati membri" [vedi premessa n. 12 alla sopracitata raccomandazione europea], che è poi un modo per descrivere e legittimare, attraverso reticenti e tortuose circonlocuzioni, una completa e sottomessa adesione alle richieste del mercato, in una perenne condizione di precariato.

La competenza chiave
Riepilogando: il compito che l'ordoeuropeismo assegna alla scuola e a noi insegnanti è quello di crescere una generazione di "senza lavoro compiuti", cioè privi di una collocazione sociale riconosciuta, sans-papiers, ma felicemente adattati  alla condizione di eterni apprendisti in cerca di mutevoli occupazioni, all'interno di una concezione del diritto e dell'economia che conferisce a questa perdita dei diritti sociali l'aura di una gloriosa e stimolante avventura, vissuta come una sfida globale per imparare a imparare a cavarsela da sé, obbedendo agli stimoli del mercato, quali imprenditori di sé stessi, della propria precarietà e costitutiva miseria.
Tutte le abilità acquisibili a scuola potrebbero essere così riassunte in un'unica competenza chiave di cittadinanza ordoliberale: l'adattabilità al mercato. Virtù tanto importante da meritarsi le stigmate della verità, della realtà, dell'oggettività. E talmente oggettiva da poter essere pesata, misurata e addirittura certificata, e poi posta sul mercato per ricevere la corrispondente quantificazione in euro, talvolta come un credito formativo da riscuotere, più spesso come un debito da ripagare al prezzo di duri apprendistati, offrendo servizi svalutati e privi di un adeguato riconoscimento sociale.

martedì 15 gennaio 2019

Occupability


Come promesso di recente, in ampliamento del dizionario dei luoghi ingannevoli in inglese compatto, oggi parliamo di occupability, termine approssimativamente traducibile con l'italiano occupabilità, ma solo per rendere vagamente l'idea, ferma restando l'inevitabile perdita di significato che certe parole sensibili devono purtroppo subire nel passaggio dall'inglese all'italiano.
L'occupability, da non confondersi con l'anacronistica "occupazione fissa", spesso coniugata con un desueto "diritto al lavoro" tipico dell'assistenzialismo statale, mira al superamento dello studente tradizionale, passivo e pretenzioso (choosy, direbbe la Fornero), convinto che un titolo di studio possa garantirgli un posto fisso (e magari a carico di un ente pubblico) come un tempo avveniva nelle società chiuse e protezionistiche. A questo arretrato quadro, in una moderna economia della conoscenza aperta al mercato e intenzionata a diventare la più competitiva del mondo, in ottemperanza alla strategia europea di Lisbona deve contrapporsi un nuovo soggetto più dinamico e flessibile, in perenne formazione, occupabile in vari modi, anche attraverso canali diversi dall'assunzione e dalla connessa, spesso ingiustificata retribuzione anteposta alla formazione. 
L'occupability, appunto, indica la capacità delle persone (o, per meglio dire, delle risorse umane) di essere occupate o di saper cercare attivamente, di trovare e di svolgere temporaneamente lavory (o lavoretty, o lavoricchy), e al limite di inventarsely, senza troppo gravare sul sistema e anzi adattandosi prontamente alle esigenze della collettivity (dagli stakeholder alle aziende, dalle aziende alle banche, dalle banche alle banche, e così via dinamicamente). Si riferisce dunque all'abilità di ottenere un impiego (un primo o un nuovo impiego) quando necessario, effettuando transizioni da una condizione di non lavoro a un'occupazione qualsiasi, o, viceversa, da un'attuale condizione di precariato a una successiva esperienza di disoccupatybility, da intendersi però non come licenziamento e/o perdita di reddito (come accade ai semplici povery), ma come positiva opportunità di crescita professionale, nel quadro (dinamico) di un processo di formazione continua orientato al miglioramento e all'acquisizione di ulteriore competency, per tutta la vyta (life learning). Insomma "basta con la noia del posto fisso", come ha efficacemente teorizzato il senatore a vyta Monti.
Accrescere l’occupability è naturalmente un obiettivo prioritario delle politiche per l’occupazione dell'Unione europea, a cui sono diretti molti interventi cofinanziati dal Fondo sociale europeo (cofinanziati nel senso che il 50% ce lo mettiamo noi, mentre il restante 50%, cioè il presunto contributo europeo, è circa la metà del 100% che l'Italia dà all'UE per consentirle di fare, appunto, l'UE). Il che esalta l'importanza dell'obiettivo, dopo aver saputo che "ce lo chiede l'Europa" e noi paghiamo per due volte.
Ciò introduce un nuovo tema: il laboratorio di occupabilità.
I laboratory di occupability sono infatti previsti dalla Buona Scuola, e precisamente dai commi 60 e 61 della legge 107/2015.
Comma 60:
Per favorire lo sviluppo della didattica laboratoriale, le istituzioni scolastiche, anche attraverso i poli tecnico-professionali, possono dotarsi di laboratori territoriali per l’occupabilità attraverso la partecipazione, anche in qualità di soggetti cofinanziatori, di enti pubblici e locali, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, università, associazioni, fondazioni, enti di formazione professionale, istituti tecnici superiori e imprese private...
In altre parole: vengano avanti gli stakeholder, e tra questi non potevano mancare le mitiche imprese, per creare mitologiche sinergie tra pubblico e privato. E i privati "possono" intervenire "anche" in qualità di soggetti cofinanziatori. Anche sì. Ma anche sì vuole anche dire non necessariamente sì, e magari no. E ve lo dice uno che ha gestito vari progetti FSE, e sempre con sorpresina finale al momento del rendiconto. Dunque no. In modo tale che, ai sensi del comma 60, paghiamo noi per la terza volta.
Il comma 61 dice invece che "i soggetti esterni che usufruiscono dell’edificio scolastico per effettuare attività didattiche e culturali sono responsabili della sicurezza e del mantenimento del decoro degli spazi". Pure gli spazi (comprensivi di energia elettrica, supporto logistico e riscaldamento) si pigliano, 'sti stakeholder, a sbafo. E che l'ultimo spenga almeno la luce e chiuda la porta.

Nei laboratory di occupability gli studenti imparano comunque a destreggiarsi nella precarietà. Sarebbe offensivo dire che la scuola di stato li addestra (o istiga) a vivere di espedienti. Ma bisognerebbe anche ricordare che l'istruzione e l'educazione partono da presupposti diversi.
Insensibile a queste preoccupazioni, tuttavia, l'occupability continua ad allargarsi nei nostri istituti, occupando aule e laboratori, come una competency più promettente delle altre, a sua volta composta da un insieme di abilità e competenze minori, assetate di vita e di un lavoro che non c'è più. Ma ciò ci conduce nel mondo scintillante delle soft skill, per cui sarà necessario un post ad hoc.

domenica 30 dicembre 2018

In arrivo altri tagli alla scuola? La risposta è no, ma...

Le opposizioni denunciano un altro colpo di mano ai danni della cultura: con il bilancio 2019 sarebbero in arrivo altri tagli alla scuola (ben quattro miliardi, se ho ben compreso, sottratti ai disabili e agli svantaggiati). Anche il Corriere certifica il misfatto: è proprio vero, i tagli ci sono. E pensare che, come diceva Victor Hugo, nei momenti di crisi non bisognerebbe risparmiare sull'istruzione, e anzi spendere di più. Miserabili! Hanno ignorato l'appello di Victor Hugo, secondo il Corriere.
Ma è proprio vero?
No, non è vero. Nel 2019, come vedremo, le spese per istruzione aumenteranno di circa due miliardi di euro rispetto alla previsione del 2018. E anche le altre stime del precedente governo (Gentiloni), relative all'anno 2020, sono state riviste al rialzo. Dunque più soldi alla scuola e non meno, per quest'anno e per l'anno prossimo. Niente tagli ma incrementi di spesa rispetto alle previsioni fin qui note. Anche se le opposizioni e il Corriere non ci stanno. I tagli non si notano per il momento, però, in prospettiva, nel triennio, ma...
Un "ma" in effetti c'è. Un vistoso "ma" che da anni pesa sulla nostra finanza pubblica, e che, soprattutto quando si tratta di ragionare in prospettiva e di mostrare le tendenze, conduce a vere e proprie mistificazioni, con deliberate falsificazioni a partire da dati reali ma sempre manipolati, in obbedienza al Fiscal compact e agli altri vincoli europei. Non importa se al governo c'è Conte o Gentiloni, non importa se siamo in Francia, in Italia o in Germania. Le regole europee sono assurde e inapplicabili per tutti e devono per forza essere adattate, aggirate, violate. Ciascuno lo fa a modo suo, ma il vizio è di tutti. Di questo, però, parleremo alla fine. Per il momento osserviamo il successivo quadro:


Sono le spese per l'istruzione scolastica (missione 22 del bilancio statale) negli ultimi 12 anni, dal governo Berlusconi IV a Conte (fonte Senato.it). Si tratta di una storia di tagli al personale e agli stipendi, compiuti in nome del rigore di bilancio e dell'Europa, con parziali restituzioni reclamizzate come "riforme epocali" (in realtà mance), una storia che proverò a riassumere qui in poche parole.
Nel 2010, per effetto di tagli al personale (aumento del numero degli allievi per classe, riduzione del tempo scuola e revisione al ribasso dei curricoli) e agli stipendi (blocco dei contratti), si vedono i primi frutti del piano di attacco all'istruzione pubblica compiuto dal governo Berlusconi IV. "Lo chiedeva l'Europa", come ancora si usava dire, in ottemperanza al patto di stabilità e alla strategia di Lisbona. Nel 2011 la spesa per la scuola, ritenuta uno "spendificio" dal ministro (Gelmini), comincia a scendere sensibilmente, secondo i piani di Tremonti, rigoroso, ma non del tutto, e non abbastanza "europeo", dunque da abbattere a colpi di spread. E abbattuto Tremonti, con l'arrivo di Monti, può andare senza ostacoli a regime la politica contraria allo "spendificio" scolastico, e la spesa per istruzione tocca il suo punto più basso (2012/2013), in una disastrosa parentesi che, col passare del tempo, nella considerazione dei danni prodotti, sempre più verrà ricordata come un vero e proprio periodo di dominazione straniera, nell'interesse della finanza internazionale apolide. Caduto Monti, il breve governo Letta lascia inalterata la situazione. Con l'arrivo di Renzi, anche per far fronte al crescente malcontento, vi è invece un tentativo di rilanciare la scuola pubblica, ma all'interno della visione neoliberista caldeggiata dalle varie direttive europee, che vorrebbero ridisegnare i sistemi formativi in funzione dei mercati, sotto il valore guida della competitività. Ne deriva un goffo tentativo di riforma, incompatibile con la scuola italiana e condotto con scarsa consapevolezza critica e insufficiente conoscenza del sistema. I tagli operati dai precedenti governi vengono in parte restituiti con mance che sostituiscono i contratti nazionali e deprimono quelli locali. L'organico viene ampliato attraverso la creazione di nuovi posti,  che mirano all'esaurimento delle graduatorie più affollate ma non tengono conto delle esigenze delle scuole, con il risultato di aggravare un precariato che si vorrebbe superare e di intervenire con provvedimenti distruttivi sul reclutamento dei docenti. Per effetto di queste velleitarie misure la spesa cresce nel 2016. Tale crescita è accompagnata da un'esagerata enfasi propagandistica (la Buona Scuola), come se si trattasse di un grande investimento pubblico sull'educazione, ma a ben guardare non è che un ritorno ai livelli del 2009 e 2010 (prima dei tagli Berlusconi IV). La spesa per istruzione (missione 22) del 2016 (44,8 miliardi) non supera di molto quella del 2010 (44,2 miliardi). Tutto qui. Chi volesse approfondire il tema dell'inefficienza e inefficacia delle spese della Buona Scuola potrà farlo attraverso questo post.
Dopo il fallimento della Buona Scuola, con il governo Gentiloni, le spese per la missione 22 aumentano ancora di poco, per effetto di trascinamento, a norme invariate. Ma nel 2018 viene al pettine un grande nodo, quello del contratto scuola, bloccato contro il diritto nazionale e costituzionale perché "ce lo chiedeva l'Europa" (l'Europa chiede sempre qualcosa di incostituzionale). Gli impegni che il governo è costretto ad assumere per rinnovarlo, per quanto insufficienti e destinati a risolversi in cifre assai modeste, comportano pur sempre un significativo finanziamento, data la vasta platea interessata, e riaprono un fronte di spesa (e di conflitto) rimasto a lungo silenzioso. Siamo dunque a fine ciclo. Una fine più fisiologica che politicamente consapevole, prodotta da un falso riformismo che ha mancato tutti i suoi obiettivi e che viene ora congedato senza rimpianti dall'istituzione scolastica a dal corpo elettorale.
Espressione di questa svolta, favorito da questa situazione, pur non avendo fatto nulla per rilanciare il riformismo, anzi essendosene ben guardato, il governo Conte è fisiologicamente discontinuo rispetto ai governi precedenti. Ha inoltre ereditato una serie di problemi aperti, a lungo evasi o aggravati, che di per sé comportano la necessità di incrementare la spesa per l'istruzione. E in effetti la previsione approvata per il 2019 (48,3 miliardi) supera di due miliardi quella dell'esercizio Gentiloni 2018 (46,3 miliardi), che pure costituiva la spesa più alta, nel confronto con quelle del precedente decennio. Tale incremento solo per una quota minima è il risultato delle nuove norme introdotte dalla manovra finanziaria, e per lo più discende, invece, da impegni già presi nel corso del 2018, su questioni non più rinviabili, prima fra tutte il contratto nazionale.
Non si vede, allora, come qualcuno possa affermare che il bilancio 2019 prevede nuovi tagli ed è restrittivo rispetto a quelli che lo hanno preceduto. Un'analisi approfondita delle spese per la missione 22 nei bilanci statali degli ultimi 12 anni dimostra precisamente il contrario.

Due tabelle possono chiarirci definitivamente le idee sulla manovra economica per la scuola del 2019.
La prima riguarda il punto di partenza, il bilancio 2018 (governo Gentiloni), vedi documentazione su Senato.it:


Osserviamo la riga 1 (grigia). La prima cifra riporta la spesa (aggiornata e stabilizzata) a carico del bilancio del precedente esercizio 2017: 45.906,5 milioni. Subito a destra, nella colonna BLV, relativa al 2018, troviamo un'altra cifra: 46.000,9 milioni. BLV significa Bilancio a Legislazione Invariata e indica la previsione di spesa che automaticamente si imporrebbe sulla base della semplice applicazione delle norme vigenti, approvate nei precedenti esercizi. Ci dice, in pratica, quanto sarebbe costata l'istruzione scolastica nel 2018 se il governo non avesse previsto modifiche alla spesa del 2017, attraverso le rimodulazioni e la manovra. Nelle altre colonne di destra sono invece riportati gli effetti dell'azione governativa. La sezione II riguarda le rimodulazioni e le modifiche senza variazione di leggi. La sezione I è invece dedicata alle innovazioni legislative. Le cifre sono comunque contenute e dipendono da interventi marginali. Il saldo finale è di 46.155,6 milioni, con un incremento di soli 249 milioni della spesa del 2017. Ci troviamo di fronte, nella sostanza, a una riedizione del bilancio del precedente esercizio. Non vi sono comunque tagli. La previsione finale è la più alta dell'ultimo decennio.

La seconda tabella, strutturata come la prima, riguarda il punto di arrivo, il bilancio 2019 (governo Conte), vedi documentazione su Senato.it:






Dato di partenza sulla prima riga: 46.312,6 milioni (si tratta della spesa consolidata, derivata dalla legge di bilancio 2018). Nella vicina colonna BLV troviamo però una sorpresa. La riscrittura del bilancio a legislazione invariata sale a 48.241,7 milioni, quasi due miliardi in più, una somma considerevole. Come mai?
Si tratta, come ho già detto, del nodo del contratto nazionale scuola che è venuto al pettine (dopo alcuni anni di sospensione delle regole costituzionali e democratiche, al grido di "ce lo chiede l'Europa"). Il suo rinnovo, con aumenti per altro molto contenuti e deludenti, ha comportato impegni coperti solo parzialmente nel 2018. Nel 2019 la copertura dovrà essere invece totale, con il risultato che vediamo. Seguono altri timidi interventi di maggiore spesa nelle sezioni II e I (il più significativo riguarda il potenziamento del tempo pieno nella scuola primaria), per ulteriori 75,2 milioni. Il risultato finale per il 2019 è 48.316,9 milioni. Non è certo una rivoluzione, ma una cosa è comunque indiscutibile e chiara: la spesa prevista è la più alta dal 2008 ad oggi.

Da dove vengono, allora, le preoccupazioni del Corriere (e delle opposizioni), e la convinzione, data per assodata, che siano in arrivo pesanti tagli alla scuola?
L'errore deriva da un uso strumentale di due tabelle ricavate dalle previsioni triennali 2018 e 2019, e precisamente da una considerazione tanto malevola quanto ingiustificata della seconda (2019), dopo avere volontariamente ignorato la prima (2018), che ne costituisce la premessa.
Chi è a conoscenza della variabilità e dell'inattendibilità delle previsioni triennali (anche quelle "ce le chiede l'Europa") ha già capito che stiamo parlando di nulla. Cominciamo comunque, come si sarebbe dovuto fare, dalla prima tabella 2018, governo Gentiloni:


I dati non sono confrontabili con quelli fin qui riportati e commentati, relativi alle sole spese della missione 22 (istruzione scolastica). Costituiscono infatti la somma di  tutte le previsioni di spesa del Miur, considerando anche la missione 23 (istruzione universitaria) più altre voci. La prima cifra sottolineata è il risultato complessivo della legge di bilancio 2017, la seconda è l'incremento previsto per il 2018, di circa 900 milioni. I dati cerchiati in rosso rappresentano, o meglio dovrebbero rappresentare, le previsioni 2019 e 2020, che sono però decrementi: meno 337 milioni nel 2019; meno 1.283 milioni nel 2020. Ma come è possibile? Evidentemente non è possibile. Abbiamo visto che nel 2019, per semplice effetto di trascinamento, a legislazione invariata (colonna BLV), vi sarà un incremento di spesa di due miliardi. Appare dunque chiaro che si tratta di previsioni "ottimistiche", cioè truccate, dettate dalle preoccupazioni di bilancio derivanti dall'adesione ai vincoli europei (di nuovo, il problema è sempre lì). Bisogna ipocritamente dichiarare che le maggiori spese di oggi saranno compensate dai risparmi di domani, per altro già esclusi dalle norme in vigore.
Tabella di previsione triennale con metodo "europeo". Un metodo non solo italiano ma obbligatorio in tutti i paesi UE e per ogni governo. Ne sono maestri, come al solito, i primi della classe, cioè i tedeschi, che abitualmente rinfacciano agli altri la violazione di regole che sono i primi a calpestare.
Forti della conoscenza di questo collaudato metodo passiamo alla seconda tabella 2019, governo Conte:


La prima cifra sottolineata in rosso è il risultato complessivo della legge di bilancio 2018. La seconda è lo stanziamento 2019 (incremento superiore ai due miliardi, quasi interamente determinato dal rinnovo del CCNL). Le due cifre cerchiate in rosso, previsioni 2020 e 2021, perseverano invece, "europeisticamente" e irrealisticamente, nell'indicare un decremento di spesa. Il dato del 2020 incrementa di 1.277 milioni la previsione al ribasso del precedente triennale 2018/20, ma opera una riduzione di 1.325 milioni rispetto al bilancio annuale 2019, riduzione che nel 2021 sale addirittura a circa quattro miliardi. 
A queste previsioni ribassiste, tipiche delle pianificazioni triennali in chiave europea, chiaramente insostenibili e destinate a essere accantonate al momento della stesura dei bilanci annuali (quelli veri), si giunge semplicemente "dimenticando" le voci di spesa, o facendo figurare come interventi una tantum spese che sono invece fisse e obbligatorie, in quanto determinate da leggi. Nel caso in esame la "dimenticanza" riguarda soprattutto i posti in deroga di sostegno, che non figurano nell'organico di diritto e sono occupati da docenti precari. Ma se i posti non figurano gli allievi esistono e le norme sul sostegno anche. Si tratta pertanto di spese strutturali che vengono deliberatamente nascoste. Per evitare il trucchetto contabile bisognerebbe confessare che fin dal 2020 il Miur spenderà nel complesso più di 60 miliardi. E ciò senza alcuna innovazione, a legislazione vigente, per forza di inerzia derivante dal bilancio corrente. E a maggior ragione nel 2021 (più di 60 e non 55), anche non considerando che gli stanziamenti sul sostegno dovranno aumentare e che parte dei precari verrà stabilizzata (anche questo "ce lo chiede l'Europa", che non sempre è coerente con se stessa).

Dall'esame comparato degli ultimi piani triennali di spesa si ricavano dati ben poco attendibili sul futuro della scuola e dell'Italia. Si comprende però bene che per chiunque governi, per Conte come per Gentiloni, c'è un problema con le regole di bilancio europee. Tanto che mentire è obbligatorio per tutti. Di questo bisognerà parlare, ed è un bene che con l'attuale governo si sia cominciato a farlo.
E il fatto che gli "europeisti" del Corriere, ad uso di politica interna, si attacchino a questi insignificanti e inattendibili dati è l'unica cosa davvero significativa. Significa che sono proprio disperati.

martedì 11 dicembre 2018

Unità didattica gilets jaunes

Circola in rete, riportata sui profili Facebook di molti simpatizzanti, una Carta ufficiale dei gilets jaunes. Non è attendibile, dicono gli editorialisti dei grandi quotidiani, gli stessi ricordati al punto 15 della stessa carta non attendibile, accanto agli "editocrati" ("mettre un terme à la propagande des éditocrates").
La carta ufficiale non sarebbe attendibile appunto perché non ufficiale. Non è stata emanata da un direttivo, non c'è la firma di un segretario, non proviene da un congresso, non è comparsa su un grande quotidiano (anzi i grandi quotidiani, cioè gli editocrati, si sono ben guardati dal diffonderla).
A riprova della non attendibilità vi sarebbero anche (sempre secondo gli editocrati) le oscure modalità con cui la carta è stata diffusa. Chi ci sarà mai dietro? Forse i soliti: gli hacker russi, gli ideologi di Trump, i servizi segreti della Brexit? Interrogativi che da soli dimostrano quanto siano spaesati "les journalistes" e come del nuovo e inatteso fenomeno non abbiano capito nulla.
Che qualcosa di ufficiale c'è lo ha dimostrato comunque ieri sera Macron, che a reti unificate ha dovuto misurarsi suo malgrado con alcune di queste proposte, cedendo su punti che fino a qualche giorno fa non sembravano negoziabili.
Bisognerebbe chiarire quel che la stampa non comprende. Se non a scuola, dove?
Cominciando dalla premessa della carta: "Visto che i politici fingono di non capire, visto che le rivendicazioni raccolte qua e là sono assolutamente insufficienti..." Occorre approfondire...




Propongo un'unità didattica sul tema. Ritengo superfluo declinare obiettivi, tempi e strumenti. Mi limito a suggerire alcune domande a cui, al termine delle attività didattiche, gli studenti (e prima di loro gli insegnanti) dovrebbero essere in grado di rispondere:
- A quali correnti politiche o ideali si ispirano le 25 proposte dei gilet gialli?
- Quali altri movimenti ricordano?
- Quali sono i bersagli polemici più evidenti?
- Quali posizioni emergono nei confronti dell'UE, della Nato, dell'euro, degli stati africani e del franco CFA (il franco africano)?
- Come si ricollegano queste posizioni al tema dell'immigrazione?
- Che cosa propongono i gilet gialli per la scuola?
- Esistono movimenti simili anche in altri paesi europei?
- Perché Macron, in un primo momento indisponibile al confronto, è stato costretto a rispondere?

Per facilitare il lavoro pubblico qui sotto la Carta dei gilet gialli tradotta in italiano mantenendo l'impostazione grafica originale.
Cliccare due volte sull'immagine per ingrandire:


venerdì 30 novembre 2018

Falsi amici


Occhio ai falsi amici in lingua inglese. I documenti europei destinati alla scuola ne sono pieni. Ne faremo un dizionarietto a puntate, cominciando dalle amicizie più pericolose:

Governance
La governance tende ad essere scambiata per il governo, ma si tratta ovviamente di un penoso equivoco. Il governo, infatti, ricorda l'indirizzo politico di uno stato, l'esecutivo nazionale, le elezioni, gli accordi tra partiti, la cosiddetta "democrazia", un termine poco scientifico, che si presta a fraintendimenti. Governo, insomma, è un concetto grossolano, una rozza semplificazione racchiusa in un'equivoca parola. Chi la usa con troppa fiducia e ingenuità, in italiano, è portato a distinguerla frettolosamente da altri termini affini ma subordinati: dall'amministrazione, che si addice a realtà più piccole, che rischiano di essere sottoposte allo stato (e quindi all'azione del governo); dalla direzione, che si riferisce alla guida di organizzazioni e società; dalla gestione, tipica di uffici che agiscono in applicazione di indirizzi decisi a un livello superiore. Troppe cavillose distinzioni, troppe anacronistiche gerarchie, che finiscono col dare un'eccessiva importanza al governo, con la scusa, appunto, della cosiddetta "democrazia", idea certamente rispettabile ma sempre sul punto di scadere nel teatrino della politica, nella demagogia o nel populismo. L'italiano, poi, è una lingua che molto si presta a queste elucubrazioni, ed è pertanto particolarmente esposta a possibili degenerazioni.
Meglio allora passare al più sintetico e pragmatico inglese e usare governance per unificare l'intera problematica. La governance non è proprio un governo, ma è più che una mera amministrazione, e può indicare un'efficace direzione, nonché i solidi principi di una buona gestione. E quando vi è una buona gestione diffusa e un'efficace direzione viene anche ridimensionata l'esigenza di avere un forte governo, che finalmente, senza ergersi a protagonista, potrà limitarsi ad arbitrare, prevenendo così il rischio di eventuali errori. Ecco la governance, che fa riferimento a un sistema di pesi e contrappesi, tipico delle società aperte, plurali, dinamiche e competitive. Nella governance chi governa non è mai solo, mai abbandonato a se stesso, e sembra in realtà a sua volta amministrato dentro una cornice più ampia, sensibile alle esigenze degli attori economici e sociali (ad esempio le imprese, le aziende e le banche, o, ancor meglio, le banche e le banche). E d'altra parte, per contrappeso, anche chi amministra chi governa, grazie alla comune governance, a ben guardare, appare "ex ante" eterodiretto da solidi principi di buona gestione, che garantiscono una mutua e sistemica cooperazione (le imprese per le banche, le banche per le imprese, ma anche e soprattutto, a garanzia dei depositi e dunque dell'interesse generale, le banche per le banche).
Tale complesso intreccio istituzionale, economico e giuridico, costituisce appunto la governance, e con questa il metodo autenticamente democratico, un metodo che pone le libere società al riparo dai rischi del populismo e della demagogia, sempre presenti nei processi elettorali, in particolare nei momenti di crisi. Infatti, quando gli elettori scelgono nel senso dell'interesse collettivo, della competenza e della libertà (e dunque per le imprese libere e per le libere imprese, tipicamente le banche), grazie alla governance prevale la buona gestione nel riconoscimento dei meriti dei meritevoli. Qualora, però, in spregio allo spirito democratico e alla scienza economica, dovessero imporsi i populismi, con il ritorno a governi di non competenti, di non meritevoli e di non tolleranti, sarà allora la governance a intervenire e a rimediare, rimettendo in equilibrio il sistema con l'aiuto dei mercati, del ranking, dello spread e degli altri indicatori scientifici, attraverso interventi conformi alla reale realtà delle cose e all'effettiva fattualità dei fatti.
In campo scolastico, dopo anni  di astratto egualitarismo e di mancato riconoscimento dei meriti dei meritevoli, si è sentita finalmente l'esigenza di una vera governance, capace di  introdurre linee di competitività e di scientificità nel settore, dotando anche le scuole di adeguati strumenti, di un ranking e di uno spread, secondo le ricerche OCSE e il metodo sperimentale Invalsi. Tale policy, rivolta all'innovazione e al miglioramento continuo, sta però faticando a imporsi, attraverso un tormentato processo, che ha trovato nella legge 107/2015 (Buona scuola) la sua espressione più completa e ambiziosa, ma per il momento ancora disattesa. Un ritardo che potrebbe costare caro al nostro paese...

Policy
Soggetti non adeguatamente formati potrebbero tradurre la policy con il termine italiano "politica", un concetto in verità troppo generico e carico di ambiguità. Va subito chiarito, invece, che la policy rappresenta una dimensione ben più concreta e fondata metodologicamente.
La policy, precisamente, è infatti quel che rimane della politica dopo che si è adottata la governance. Dunque una politica purificata, depurata dai suoi errori grazie alla governance. Più niente che possa ricondurre alle ideologie, ai settarismi, ai nazionalismi, alle chiusure e ai partitismi del passato. La policy, al contrario, è aperta al futuro, alle novità, alle tecnologie e agli attori del cambiamento, ai produttori, ai consumatori, alle imprese socialmente responsabili e trainanti, dalle company alle authority, dai gruppi finanziari agli istituti di credito, dalle banche alle banche e alle banche.

Stakeholder
Gli stakeholder sono i principali interlocutori nella costruzione della policy all'interno di un corretto sistema di governance, e stanno precisamente all'origine del progetto (quali artefici della domanda) e alla sua conclusione (quali utilizzatori del prodotto). Nella scuola riformata, nel senso della costruzione di un curricolo per competenze €uropee, dovrebbero contribuire in misura decisiva sia al momento dell'input che a quello dell'output.
Purtroppo il termine, talvolta rozzamente tradotto con "portatori di interesse", nel contesto italiano, spesso incline a disconoscere la portata sociale degli interessi economici e a comprimere il mercato, non è stato per il momento ben compreso e metabolizzato. A causa di questo ritardo culturale, non operano ancora, nel nostro sistema scolastico, veri e propri stakeholder, come si afferma con crudezza qui.

Competence
La competence è quella forma di competitività che trasforma la risorsa studente (orientata al profitto scolastico) in risorsa umana effettiva (impegnata in compiti di realtà, cioè diretti al profitto economico).
La competitività della competence, in quanto indirizzata allo sviluppo e all'incremento del PIL, rappresenta anche l'unico modo per ridurre il debito e per rafforzare, di conseguenza, i diritti sociali, venendo così incontro ai bisogni collettivi.
In una società "basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo", vedi strategia di Lisbona, non ci sono alternative. Non c'è altra strada per ridurre povertà e disoccupazione, o meglio per contenerle entro limiti fisiologici e strutturali.

Competency
Secondo alcuni la competency è un sinonimo della competence. Secondo altri la competence si riferisce alle risorse umane in generale (human resources), mentre la competency riguarda setting più specificamente scolastici (competency-based learning).
Al pari della competence, comunque, anche la competency, operando nel senso del riconoscimento dei diritty socialy, riduce povery e disoccupaty, già ridotti in precedenza in myseriah dall'austerity della policy della governance. Ciò avviene, però, non attraverso la creazione di posti di lavoro da parte dello stato (ohibò), azione proibita perché non conforme alla governance, ma incentivando l'occupability, di cui vi parleremo un'altra volta...

Nel frattempo, credeteci, e se volete di conseguenza conseguire nuovi credici formativi, abbonatevi al dizionario dei luoghi ingannevoli, inglese - italiano, italian - english, e occhio ai falsi amici in inglese compatto.

domenica 25 novembre 2018

Bravo Bussetti, finalmente...


Abbiamo scherzato sul ministro Bussetti, qualche mese fa, per la sua prudenza eccessiva davanti ai ruderi della Buona Scuola, per la sua timidezza e per le sue cravatte di seta lombarda.
Ma ora dobbiamo sinceramente e seriamente appoggiarlo. Finalmente un chiaro segnale di discontinuità rispetto alla legge 107 e ai danni prodotti al sistema di reclutamento dei docenti, analiticamente descritti qui.
Negli ultimi venti anni di pedagogia del gambero ogni nuovo ministro ha infatti varato una sua velleitaria controriforma: corsi a pagamento, specializzazioni, corsi annuali, biennali, triennali. SSIS, PAS, TFA e FIT, tormentose tappe verso la costruzione di un sistema perverso, che somigliava alla fine a un lungo viaggio senza arrivo e sempre più complicato, inutile, iniquo e ripetitivo. Concorsi che ammettono a corsi che, dopo esami, ammettono ad altri concorsi, per frequentare, se tutto va bene, un ennesimo percorso. Una specie di gioco dell'oca, per di più a pagamento, e alimentando la crescita di una sorta di burocrazia parassitaria della formazione, una folla di pseudo-esperti o di espertologi che si nutrono di precariato (del precariato degli altri) e hanno interesse a prolungarlo.
Ora, ci dice Bussetti, per tutti questi espertisti ed espertini è venuto il momento del congedo: "Stop abilitazioni a pagamento, concorso più breve e abilitante. Abolito FIT."
Bravo Bussetti. Temevamo che l'inversione di tendenza, rispetto ai danni della Buona Scuola, fosse troppo debole e incerta. Fino ad oggi, purtroppo, è stato così. Ma non in questo caso. Qui il messaggio è ben chiaro, e può aprire finalmente la strada verso un atteso cambiamento.

Non a caso espertologi ed espertisti, sentendosi in partenza, cercano di bloccare tutto. Per farlo ricorrono al genere letterario a loro più congeniale, da sempre: l'appello.
Un appello in apparenza rivolto allo stesso ministro, ma che, a ben guardare, per chi sa leggerlo, sembra più che altro indirizzato a un complicato, insidioso, scivoloso apparato ministeriale, cercando consonanze e complicità. Messaggio in codice: REMATE CONTRO.
Gli apparati, si sa, spesso composti, a loro volta, da espertini ed espertoni, possono fare molto e dispongono di tanti canali nascosti per interferire, anche a nome e a tutela dell'espertologia...
E questo rappresenta un ulteriore motivo per schierarsi convintamente dalla parte di Bussetti. Forza Marco. Ma attento alle faine (manine) ministeriali. E chiama se hai bisogno. Senza di noi, senza le scuole autonome, non c'è MIUR che tenga.

giovedì 25 ottobre 2018

Niente politica a scuola?

Lo scorso giugno la deputata leghista Vanessa Cattoi, rimproverando una dirigente scolastica per una sua iniziativa (evidentemente sgradita alla Lega), ha dichiarato: "Il ruolo dell'insegnante dovrebbe prevedere l'astensione dal commento politico anche perché, altrimenti, potrebbero sorgere dubbi circa l'imparzialità dell'insegnamento stesso". Stupisce che una parlamentare della Repubblica possa abbandonarsi ad affermazioni così rozze e ingenue. L'astensione non è imparzialità, ma una posizione tra le altre, una delle decisioni possibili, spesso la peggiore. Cultura e politica non si possono separare. E nemmeno si possono separare cultura e scuola, nonostante i tentativi di alcune recenti riforme neoliberali ed "europee". La scuola non è trasmissione di una inesistente "opinione neutrale", ma introduzione alla cittadinanza attiva, al confronto di idee, alla partecipazione politica. Così la pensavano gli uomini che hanno scritto la nostra Costituzione.
Ha dunque avuto buon gioco la preside Scalfi, rispondendo all'incauta Cattoi: «Esiste un articolo della Costituzione che tutela la libertà d'espressione e non mi pare che escluda i dirigenti scolastici. Esiste anche la norma per cui i parlamentari si impegnano a far rispettare la Costituzione. Questo mi aspetterei, da una deputata... A scuola c'è una pluralità di idee, i ragazzi sono condotti allo sviluppo del senso critico. In vista delle elezioni, abbiamo invitato i rappresentanti di 5 stelle, destra e sinistra. Perché questo è il senso della scuola."
Diciamoci la verità: non è che la deputata Cattoi, nel confronto, abbia fatto proprio una bella figura.

Credevo che il discorso fosse chiuso. Leggo invece oggi, su Orizzonte Scuola: "Niente politica, siamo a scuola. A sostenere il concetto è il ministro della Pubblica Istruzione." Possibile? Bussetti avrebbe dichiarato: "In classe non si deve fare politica. La scuola ha il compito fondamentale di stimolare il pensiero critico, i docenti siano responsabili." Ora, la dichiarazione rilasciata lo scorso giugno dalla preside Scalfi basta a comprendere come la prima affermazione sia in contrasto con la seconda. A scuola la politica concorre alla formazione del pensiero critico. Il pensiero critico, d'altra parte, non può non incontrare la politica. Voglio sperare che le fuorvianti parole attribuite al ministro siano frutto di una semplificazione giornalistica. Sperem ben, come dicono a Varese.

E invece a scuola c'è molto bisogno di politica e di educazione alla politica, unica via per difendersi dalle ideologie e resistere alle menzogne. Ciò vale sempre, in generale, ma in particolare in questi giorni difficili, mentre a causa di ingiustificate pressioni, che si presentano appunto come "opinione neutrale" o addirittura come "verità scientifica", il nostro paese è sotto attacco, denigrato sulla base di erronei pregiudizi ordoliberisti, minacciato da poteri finanziari non democratici e incompatibili con i principi e con i diritti costituzionali. Opporsi a queste mistificazioni attraverso l'esercizio del pensiero critico è compito della scuola italiana. Se non a scuola, dove? Ciò appare tanto più doveroso quanto più cresce la cattiva informazione e il rumore prodotto da alcune forze politiche che, nel tentativo di nascondere le proprie gravi responsabilità storiche, vorrebbero arrendersi a interessi stranieri, fino all'autolesionismo che spinge a tifare per lo spread e al collaborazionismo di chi si augura un golpe finanziario e il disconoscimento del voto democratico.

Ma allora, se le cose stanno così (e stanno proprio così), più politica a scuola, viva l'Italia e abbasso Moscovici.


martedì 23 ottobre 2018

Scuola vs cultura


Ricorre quest'anno (2018) il centenario della nascita di Luigi Pareyson (1918), filosofo dell'esistenzialismo cristiano, del personalismo, dell'ermeneutica e dell'ontologia della libertà. La ricorrenza ha interessato soprattutto gli istituti di filosofia e poco il grande pubblico. Eppure il pensiero di Pareyson mi sembra attuale, capace di interpretare e di spiegare lucidamente problemi e difficoltà che stanno attraversando l'Italia e la scuola, anche dal punto di vista politico. Di recente mi ha colpito un suo articolo, scritto durante la Resistenza, con tutta probabilità nel 1944, per il giornale clandestino del Partito d'Azione L'Italia libera. All'epoca Pareyson era responsabile dell'Ufficio del comando delle formazioni partigiane Giustizia e Libertà per la provincia di Cuneo (incarico ricoperto almeno fino all'uccisione dell'amico Duccio Galimberti, forse la più importante figura della Resistenza piemontese, massacrato dai fascisti nel dicembre 1944). L'articolo si intitola Ancora su "Scuola e cultura". Ne riporto la prima parte:

La formula "scuola contro cultura" pare, nella sua brevità, un paradosso. Ma, esaminata più a fondo, si rivela come una conseguenza necessaria di una determinata concezione dello stato e della vita politica: di quella concezione che possiamo chiamare "liberale" in contrapposizione alla concezione "democratica".
L'atteggiamento del liberale (e non intendiamo per "liberale" né, filosoficamente, l'uomo libero che crede nella libertà, né, classicamente, il borghese che la difende come un privilegio, ma, storicamente, colui che combatte in sede pratica per l'affermazione dei diritti umani naturali dell'individuo contro l'invadenza dello stato dispotico), l'atteggiamento del liberale di fronte al problema politico è determinato prevalentemente da un sentimento che si può definire come "paura dello stato". Per il liberale lo stato è sempre il Leviatano che divora i suoi sudditi: corruttore in morale, sperperatore in economia. Per combattere il maleficio dello stato, si aprono dunque al liberale due strade: o sottrargli alcune delle funzioni che arbitrariamente e rovinosamente si è arrogato, o, quando non si è così forti da sottrargliele, sminuire, di queste funzioni, il valore e la portata. La prima via è quella che conduce alla proclamazione della libertà: libertà di commercio vuol dire sottrarre allo stato la funzione economica, libertà di pensiero vuol dire sottrarre allo stato la funzione educativa. La seconda via è quella che conduce alla trasformazione dello stato in gestore di pubblici servizi: se non si può fare in modo che la difesa del popolo sia esercitata da associazioni private, l'esercito per lo meno non sia più un corpo privilegiato che partecipa in qualche modo della magnificenza della sovranità, ma sia un organismo professionalmente e tecnicamente perfetto e perfezionabile, senza indirizzo o velleità politiche, sia cioè un pubblico servizio; parimenti, nel caso della funzione educativa, se non si può sottrarre allo stato del tutto l'istituzione scolastica, non abbia più la scuola alcuna pretesa culturale, di formazione delle coscienze, ma sia anch'essa null'altro che un organismo esclusivamente indirizzato all'esecuzione di un compito tecnico, insensibile alle correnti spirituali che si agitano nel paese, sia insomma un pubblico servizio.
Scuola contro cultura, in sostanza, è una formula che ricopre la vera antitesi implicita in una schietta concezione liberale, tra stato e individuo. La scuola è affare dello stato; la cultura degli individui. E siccome l'individuo è in una situazione di continua difesa armata e legittima contro lo stato, individuo contro stato vuol dire, nella sfera del problema educativo, cultura contro scuola.
Ora di fronte a siffatta formula si può osservare che la tecnicizzazione della scuola, come di ogni altra funzione pubblica veramente vitale, presenta un pericolo permanente: l'assoggettamento dell'organismo statale, ridotto nel complesso delle sue funzioni ad un semplice meccanismo esecutivo, in potere di chi per primo vi metta sopra le mani. La scuola tecnicizzata, l'esercito tecnicizzato, i servizi amministrativi tecnicizzati, diventano facile e sicuro dominio del primo occupante. La via al dispotismo è maggiormente aperta là dove lo stato, anziché essere l'insieme ordinato e coordinato delle istituzioni popolari, è un gestore di pubblici servizi. Chi s'impadronisce di questi servizi, diventa immediatamente padrone del popolo, tutore esclusivo del suo benessere e della sua vita. La scuola tecnicizzata, staccata dall'elemento naturale, in cui solo può vivere, staccata dalla cultura, è uno dei più comodi strumenti che l'inclinazione dispotica, insita nei governanti di tutti i colori, abbia a sua disposizione per farsi valere. Si osservi: se una resistenza vi è stata da parte della scuola italiana alla fascistizzazione della scuola, dipende esclusivamente dal fatto che la scuola italiana, e soprattutto quel ginnasio-liceo contro cui oggi si alza la voce da tutte le parti, era una scuola non tecnicizzata, ma colta, era insomma una scuola di cultura, o almeno una scuola che bene o male rappresentava la cultura, vale a dire la situazione attuale del pensiero civile e della scienza civilizzatrice, meglio che ogni altra scuola; e tanto più la scuola si difese, quanto più era scuola di cultura libera e non di istruzione professionale, quanto più insomma era una scuola e non un pubblico servizio.
Alla paura dello stato, propria alla concezione liberale, la concezione democratica contrappone la trasformazione radicale dello stato per opera dell'instaurazione e dell'effettivo funzionamento delle istituzioni popolari dell'autogoverno, in modo che nello stato non vi sia più ragione di aver paura. Poco importa che lo stato abbia determinate funzioni e le eserciti con maggiore o minore ampiezza, quando si sappia che queste funzioni sono comunque controllate e dirette da chi vi ha interesse, quando queste funzioni rappresentino, di qualunque natura siano e qualunque estensione possiedano, funzioni di autogoverno. Contro la tentazione del dispotismo, non vi è esautorazione o restrizione dello stato che valga; una sola è la garanzia: l'autogoverno, cioè la democrazia.
In uno stato democratico ci si può permettere tra l'altro anche il lusso di una scuola di cultura, senza incorrere nel pericolo che questa monopolizzi il sapere a detrimento della libertà di pensiero, diventi scuola etica a danno della moralità della scuola, cioè della libertà dell'insegnamento; perché in un regime di autogoverno non vi è un'opinione ufficiale ma se mai soltanto un'opinione pubblica, non vi sono direttive etico-politiche, imposte dall'alto, ma indirizzi di pensiero che si aprono la strada in mezzo agli altri, perché rappresentano meglio lo stato della civiltà contemporanea e il progresso civile. E come la democrazia permette la scuola di cultura, a sua volta la scuola di cultura assicura e rafforza la democrazia, perché una scuola colta non può non essere veicolo di libere persuasioni, baluardo contro il ritorno della barbarie sotto veste dei miti della pseudocultura.

Chi è interessato a completare la lettura dell'articolo potrà trovarlo in Iniziativa e libertà, edito da Mursia, un volume che raccoglie scritti politico-culturali, di filosofia della politica e di filosofia morale non ricompresi in altre opere approntate dallo stesso autore.
Questo testo del 1944, destinato alla stampa clandestina antifascista durante la Resistenza, fa parte di un gruppo di scritti che mirano a tracciare il profilo di una scuola democratica, per un'Italia liberata, in vista di un progetto di riforma generale del sistema educativo (Pareyson, nel 1945, sarà responsabile del CLN-Scuola del Piemonte).
L'atteggiamento liberale e quello democratico non vengono qui presentati come coincidenti, contrariamente a quanto altri comunemente hanno pensato e pensano. Il democratico e il liberale si trovano invece in opposizione, e in modo particolarmente visibile di fronte al problema educativo.
La diffidenza verso le istituzioni nazionali, la statofobia tipica del liberalismo, porta a restringere il più possibile il perimetro della scuola statale, nel timore che possa diventare veicolo di indottrinamento. Le scuole vengono così privatizzate, e, quando ciò non è possibile, almeno ridotte a servizi pubblici, indirizzati a erogare agli utenti saperi utilitaristici e meramente tecnici, avulsi dagli indirizzi di pensiero che animano la società. E ciò finisce col separare scuola e cultura.
All'opposto il democratico vede nella scuola un'istituzione popolare, che deve essere partecipata e diretta da chi vi ha interesse, attraverso la costruzione di funzioni di autogoverno. In questa prospettiva, che sembra anticipare di un quarantennio le migliori teorizzazioni sull'autonomia scolastica, non vi sono rischi di indottrinamento né paura dello stato, in quanto in un regime di autogoverno non esistono verità ufficiali e direttive imposte dall'alto. Vi è, invece, un confronto di indirizzi molteplici, che si affermano nel contesto dell'opinione pubblica, grazie alla loro capacità di interpretare le esigenze della civiltà contemporanea e del progresso civile. La scuola non è solo un servizio, ma prolunga la cultura del suo tempo, in cui è immersa. La cittadinanza attiva, concretamente esercitata, è il suo vero e più profondo contenuto.
Questa fiducia nelle istituzioni democratiche (si pensi, ad esempio, alle posizioni di Calamandrei sulla scuola come organo costituzionale) ha animato, in varie forme, il riformismo scolastico fino agli anni Ottanta. Mentre, dagli anni Novanta in poi, la spinta innovativa ha perso forza. Siamo tornati a una scuola utilitarista, dominata da preoccupazioni tecniche e strumentali, e almeno in teoria presentata come funzionale a vincoli esterni (il Mercato, l'Europa, le sfide della competitività, i rapporti OCSE, L'Invalsi e così via). Sotto l'influenza dell'ideologia tecnocratica e liberista dell'Unione europea, l'ultimo ventennio si è risolto in una deriva neoliberale senza sbocchi, approdata alla cosiddetta Buona Scuola e al suo inevitabile e prevedibile fallimento: scuola contro cultura e cultura contro scuola.

giovedì 13 settembre 2018

Buona Scuola: analisi della spesa

Che la Buona Scuola si sia tradotta in un rovinoso insuccesso sembra ormai un dato acquisito. Perfino i suoi promotori, che attualmente si trovano in grave difficoltà e perdono ogni giorno consensi, cominciano a riconoscerne il fallimento, ma con moderazione e senza esagerare. Ora, con qualche reticenza, ammettono che sì, ci sono stati degli errori di comunicazione... e forse non solo di comunicazione... però, a conti fatti, si vede a occhio nudo che la pubblica istruzione ha ricevuto maggiori risorse. Rispetto ai tagli operati nel passato ci sarebbe dunque almeno stata, se non altro, un'inversione di tendenza...
L'inversione di tendenza: questo sembra essere diventato, dopo tanto discutere, il nuovo punto di equilibrio, l'ultima triste scusante, che, oltre a rappresentare un'efficace scappatoia, potrebbe anche salvare la faccia alla Buona Scuola (e soprattutto a chi  l'ha maldestramente pensata e approvata).
Avevo già notato questo cambiamento di intonazione. 
Ma a questa giustificazione corrisponde qualcosa di osservabile? L'inversione di tendenza, anche restando in superficie, alla mera aritmetica della spesa statale, c'è davvero stata? Stiamo parlando di un dato reale o di una semplice impressione, vera solo all'interno di convinzioni politiche accettate per fede o per appartenenza?
Si è lungamente detto che, grazie alla 107, le risorse per la scuola hanno registrato un cospicuo incremento: tra i 3 e i 7 miliardi, a seconda dei metodi usati nel conteggio, dei giorni e dei giornali. La disinvoltura con cui si sono sparate certe cifre, sempre diverse, dovrebbe costituire di per sé un monito e un invito all'approfondimento. Fermo restando che quando c'è un incremento (se c'è) occorre sempre capire in rapporto a che cosa. Lo stesso vale naturalmente per i decrementi. Questo per non fare la fine della Gelmini in un confronto con Letta svoltosi nel 2011, che è emblematico per capire come sinistra e destra, per parecchi anni (precisamente dal 1992), si siano rinfacciate, con argomenti da treccartari, i tagli che hanno fatto insieme. Potete trovare il video nella pagina introduttiva del blog, accompagnato da una spiegazione.
Ciò premesso prendiamo le spese per la scuola (Missione n. 22 del bilancio dello Stato: Istruzione scolastica) nell'ultimo decennio. La tabella è elaborata sulla base dei dati contenuti nelle periodiche analisi delle spese per missioni e programmi, a cura del Servizio del bilancio del Senato (spese annuali indicate con valori assoluti in milioni di euro): 

Ho già osservato, sempre nella pagina introduttiva appena citata, che tra il 2009 e il 2010, mentre nelle scuole giustamente si protestava contro i tagli programmati dalla legge 133/2008 (Gelmini, Brunetta, Tremonti), la spesa per istruzione scolastica aumentava, anche se di poco, per effetto della precedente legislazione ancora in vigore. I decrementi attesi si realizzavano solo negli anni successivi, specialmente nel 2012, dopo la caduta del governo Berlusconi IV, e si mantenevano invariati con i governi Monti e Letta, e nel primo anno del governo Renzi. La legge 107 è del 2015 e i risultati si vedono nel 2016. Vi è un incremento di circa 3,2 miliardi di euro sull'anno precedente, ma non sulla spesa media del decennio. Si vedano le cifre evidenziate in rosso. Lo stanziamento 2016 è di 44.799 milioni di euro, e non si discosta molto dalla spesa del 2010 (governo Berlusconi, ministero Gelmini).
Che cosa è avvenuto? Le oscillazioni di spesa dipendono da vari fattori, ma badando alle voci principali possono essere riassunte così: il governo di centrodestra ha tagliato sul personale aumentando il numero degli allievi per classe e assottigliando gli orari di lezione (meno tempo pieno alla primaria, meno ore di lettere alle medie, riduzione del tempo prolungato, alleggerimento dei curricoli agli istituti superiori); Monti e Letta si sono ben guardati dal mettere in discussione questi "risparmi" (e come avrebbero potuto farlo nelle condizioni in cui hanno sgovernato sotto il ricatto dell'Europa?); il governo Renzi, invece, ha restituito le cattedre tagliate, ritornando più o meno ai livelli di spesa di sei anni prima, con un incremento non certo esaltante (+ 615 milioni).
Sì, ma... quali cattedre? I "risparmi" Gelmini (o meglio Tremonti) erano tagli lineari, dovuti alla contrazione dei curricoli, che toccava un po' tutte le classi di concorso. La restituzione della Buona Scuola, prevalentemente compiuta attraverso la trovata del cosiddetto "organico potenziato", ha invece "restituito" altro. Non le cattedre che le scuole richiedevano, segnalando ad esempio la necessità di professori di matematica, materie letterarie, lingue straniere, sostegno, sulla base del proprio specifico fabbisogno, per compensare i tagli subiti o per riempire i posti vuoti, ma quelle individuate invece dal ministero per "sistemare", attraverso l'immissione in ruolo, i precari storici ancora presenti nelle graduatorie ad esaurimento, per esempio docenti di discipline giuridiche ed economiche, arte, musica, educazione fisica.
Nessuna relazione, quindi, tra il fabbisogno delle scuole e l'organico potenziato. Anzi un'opposizione, facile da capire. Perché, infatti, gli insegnanti destinati al potenziamento erano rimasti così a lungo nelle graduatorie ad esaurimento? Ma proprio perché, appunto, appartenevano a classi di concorso meno richieste in quanto meno presenti nei piani di studio, o caratterizzate da un eccessivo numero di aspiranti rispetto al numero limitato dei posti, il che è lo stesso.
E qui viene spontanea una domanda: perché creare cattedre che non ci sono, solo per svuotare le graduatorie ad esaurimento, lasciando contemporaneamente scoperti posti effettivamente esistenti e richiesti dalle scuole? Ciò è dipeso da una convinzione (o illusione) ideologica, presente nella Buona Scuola, che riteneva possibile eliminare progressivamente tutte le graduatorie, a cominciare da quelle ad esaurimento, per assumere i docenti solo attraverso concorsi per esami e tirocini, cancellando così il precariato, la vituperata "supplentite". Si tratta di un programma insensato e ingiusto, ma soprattutto irrealizzabile, che di per sé rivela una scarsa conoscenza, pari solo alla presunzione, delle dinamiche profonde e strutturali della scuola, che non possono essere abolite per decreto, ma vanno piuttosto studiate e comprese, e poi governate nel rispetto della storia e della complessità del sistema. Non mi dilungo qui sul punto. Chi vuole approfondire può leggersi la pagina sul precariato.
Tirando le somme, dopo un decennio di spesa oscillante, il combinato disposto di tagli e di ripensamenti, nel gioco delle parti tra destra e sinistra, ha condotto a un curioso risultato involontario. Per risparmiare abbiamo tagliato posti veri per poi tornare, sei anni dopo, allo stesso livello di spesa attraverso immissioni in ruolo su posti finti. Ma non era meglio guardare al fabbisogno insoddisfatto? Non conveniva immettere in ruolo dando la priorità alla copertura dei posti reali rimasti scoperti?
Quanto ai precari delle graduatorie ad esaurimento, va ricordato che, pur non trovando una cattedra libera nella propria classe di concorso, non erano disoccupati. Molti di loro lavoravano stabilmente sul sostegno, e qui, pur non possedendo il prescritto titolo di specializzazione, avevano accumulato una pluriennale esperienza da riconoscere e da valorizzare. Bisognava completare la loro formazione con l'attribuzione del titolo mancante attraverso corsi riservati, per lasciarli dove si trovavano, su cattedre vere e necessarie. Sono stati invece spostati in altre scuole (e spesso in altre regioni), anche dove la loro classe di concorso era ampiamente coperta, o addirittura non faceva parte del piano di studi. E i posti di sostegno forzatamente abbandonati? Quelli, naturalmente, sono andati a nuovi precari, con minore esperienza. Potenziamento del precariato, quindi, in contrasto con l'iniziale, ideologico proponimento di eliminare la "supplentite".
Il confronto dei dati del 2016 con quelli del 2010 conduce a una diagnosi: a parità di organici e di investimenti, una minore efficacia, e una conferma di inefficienza di fronte ai bisogni insoddisfatti.
La spesa è rimasta grosso modo la stessa, anche se ora è meno ragionevole e qualificata.
E l'inversione di tendenza? C'è? A me non sembra. Se qualcuno riesce a vederla mi scriva.